La mia Africa |
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Un film di Sydney Pollack.
Con Meryl Streep, Robert Redford, Klaus Maria Brandauer, Michael Kitchen, Malick Bowens.
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Titolo originale Out of Africa.
Drammatico,
Ratings: Kids+16,
durata 160 min.
- USA 1985.
MYMONETRO
La mia Africa
valutazione media:
3,80
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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Una stella sulla savanadi Ludwig1889Feedback: 200 | altri commenti e recensioni di Ludwig1889 |
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giovedì 24 settembre 2015 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Maryl Streep si erge come un colosso micenico in questo classico anni ’80 firmato Sidney Pollack. Film che alterna il serio e il faceto, dalle atmosfere incantevolmente sospese fra storico e fiabesco, lascia estasiati per il rapsodico andirivieni tra pesante e leggero, scanzonato e concettuale, scherzoso e moralistico. È ispirato alla storia (vera; la sceneggiatura è tratta dall’autobiografia della protagonista) di Caren Blixen (Streep), giovane nobildonna danese che, stanca delle buona società europea, decide di andare in Africa per celebrare un matrimonio di interesse con un amico (Brandauer). L'unione, benché fallimentare, si rivelerà veicolo di un duplice amore, tanto inatteso quanto dirompente. Da una parte, la passione per Denys Finch-Hatton (Redford), avventuriero britannico dai modi seducenti e lo sguardo deciso; e dall’altra, soprattutto, l’infatuazione per un intero continente, l’Africa, assurta abilmente da Pollack a idealizzato tessuto di simbologie significanti stili di vita, mondi, e umanità altre. La mia Africa è un biopic e, come tutti i biopic ben fatti, si tratta di una pellicola solo apparentemente corale. Infatti, mentre decine di maschere sfilano inquadratura dopo inquadratura, è sempre lei, la Streep, a dettare legge. Gli altri attori (persino un peraltro ottimo Redford) le si muovono attorno come oggetti di scena, miseri satelliti nell’orbita di una grande stella (anche fuor di metafora). Eppure la sua performance riesce ad essere maestosa senza schiacciare, senza annichilire. È come se la Streep fosse l’unica a splendere di luce propria. Gli altri personaggi si limitano a giovare dei riflessi da lei elargiti, senza tuttavia uscirne sminuiti ma, al contrario, nobilitati. Essere protagonisti assoluti senza relegare gli altri al ruolo di comprimari è una delle lezioni impartiteci dalla diva di Summit in questa pellicola. Poi, per essere un classico, La mia Africa è povero di inquadrature eccezionali. Non che manchino sequenze notevoli. I campi lunghi sulla sterminata terre africana sono splendidi, e la sequenza della leonessa a inizio film, con quella bellissima successione di soggettive e oggettive montate a puntino, non è da meno. Latita però la sequenza originale, mai vista, sperimentale, d’avanguardia. La ragione è che ne La mia Africa lo stile è esasperatamente accademico. Non c’è niente di nuovo. Ogni inquadratura è vista e rivista, ma comunque ripetuta dal regista statunitense con maestria da cineasta consumato. È tutto intriso di una straordinaria ordinarietà. Lo stile di regia è calmo, senza stacchi o movimenti bruschi, quasi documentaristico; il che in un film biografico è senza dubbio un pregio. Naturalisticamente, Pollack mira ad immergere lo spettatore in un’atmosfera intrisa di realismo, dandogli l’impressione di aver vissuto perennemente al fianco della Blixen, a osservarne i sussulti e ascoltarne i sussurri. Personalmente, credo che un biopic si debba girare proprio così e va reso quindi merito a Pollack di aver innalzato, come gli artisti migliori, un insieme di norme più o meno tecniche a strumento di genio creativo. Una nota di merito spetta poi alle musiche di John Barry che, col loro mix di classico ed etnico (da Mozart ai cori africani), rendono perfettamente la sensazione di incontro-scontro tra culture che Pollack vorrebbe trasmettere. Volendo infine fare un rilievo critico, va detto che, come in gran parte del western filo-indiano, l’immagine dei cosiddetti “selvaggi” è eccessivamente semplicistica, troppo appiattita su una manciata di stereotipi buonistici ai quali, quando si parla di Africa, è arduo sfuggire. Karen Blixen altri non è che l’alter ego di John Dunbar. Certo manca lo spessore drammatico della vicenda degli indiani d’America raccontata in Balla coi lupi ma, in compenso, la figura della Blixen è più sfaccettata, più complessa, più autentica. Non c’è molto altro da aggiungere. Regia, sceneggiatura, scenografie, interpretazioni e musiche di altissimo livello. Da evitare se si cerca qualcosa di molto innovativo o sperimentale, ma in linea di massima indubbiamente meritevole.
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