La rosa purpurea del Cairo

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Un film di Woody Allen. Con Jeff Daniels, Mia Farrow, Danny Aiello, Paul Herman, Edward Herrmann.
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Titolo originale The Purple Rose of Cairo. Commedia, durata 82 min. - USA 1985. MYMONETRO La rosa purpurea del Cairo * * * 1/2 - valutazione media: 3,67 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Commedia del metalinguaggio Valutazione 4 stelle su cinque

di Everlong


Feedback: 3730 | altri commenti e recensioni di Everlong
giovedì 3 febbraio 2011

La rosa purpurea del Cairo è sicuramente uno dei film più riusciti del genio di Woody Allen. Una commedia così complessa, profonda, filosofica ma allo stesso tempo semplice e immediata nel suo essere fortemente diretta. In quest'opera metalinguistica Allen riesce a parlare della vita, del cinema, dell'arte, dell'immaginazione in un colpo solo senza essere mai banale, superfluo o eccessivamente romantico. Realtà fisica e realtà immaginata diventano due forme altrettanto plausibili in cui la vita può scegliere di svolgersi, equidistanti da una verità assoluta così irraggiungibile e semanticamente effimera per cui lo sguardo relativista non può che essere il ponte fra livelli interpretativi diversi (i personaggi e la realtà del film/personaggi e realtà concreti). Il sogno e l'immaginazione, per la protagonista, nascono da un desiderio semplice e così umano, ossia dal bisogno di cambiare, di disinnescare la spirale di una quotidianità asfissiante che vincola e irrigidisce la fantasia stessa (si pensi alle reazioni "burocratiche" degli spettatori comuni, o degli addetti ai lavori che non sembrano neppure sorpresi dalla surreale uscita dallo schermo di uno dei personaggi del film, tutti presi e concentrati sui problemi che da ciò potrebbero derivare, al livello economico e sociale soprattutto). Questa fusione tra realtà compresenti diventa l'occasione per la protagonista di uscire dalla "burocratizzazione" della vita e scegliere il meta-reale come un'opportunità per compensare i vuoti lasciati da una vita amara. Ma quanto accade non risulta essere un sogno allucinato della protagonista ma un evento oggettivo che coinvolge tutti, seppur con reazioni profondamente diverse ("Che non sia mai accaduto non significa che non possa accadere"). Ed è in questo che emerge l'elemento artistico come discriminante che divide chi ne è attratto e ne ha bisogno da chi non si rende nemmeno conto di essere in sua presenza. E' l'arte che provoca questo rimescolamento della realtà ma solo alcuni sono disposti a comprenderla e a desiderarla. Pertanto, si tratta di un desiderio fortemente umano, dettato da un innato bisogno di essere felice. L'artista, in fondo, non fa che creare un universo. Egli ri-configura la realtà secondo prospettive originali, formando combinazioni nuove con gli elementi della realtà (si pensi a quando il personaggio del film confonde i registi/produttori con dio). Quindi, è lo spettatore a guardare e a vivere l'opera d'arte tuffandocisi dentro ma anche l'opera stessa a rivolgersi allo spettatore e alla realtà in cui egli è immerso. E' una comunicazione bi-direzionale incessante che crea un ponte semantico talmente forte da determinare la fusione della prospettiva artistica e della prospettiva della fruizione, due realtà che uniscono fisicamente, che collegano e mescolano, ognuna necessaria all'altra, imprescindibile dall'altra: il desiderio del personaggio del film di farsi reale, di scoprire e conoscere la realtà e il desiderio della protagonista di immaginarsi una possibilità di vita diversa. Ma quanto siamo disposti a crederci fino in fondo? Credo sia questa la domanda che si pone il film nel finale. Infatti, la protagonista viene posta di fronte ad una scelta: la versione umana dell'innamorato (ossia l'attore che intepreta il personaggio, figura mediatrice fra i due universi) o il personaggio da lui intepretato nel film che ha assunto vita propria? Quasi a sottolineare che in fondo siamo portati a suddividere, a categorizzare e ad aver paura del nostro essere fatti di fantasia, di arte e di immaginazione; siamo terribilmente spaventati da noi stessi per cui preferiamo riportare il tutto ad una condizione di normalità, di conservazione: vogliamo cambiare ma senza poi crederci fino in fondo in questo cambiamento, scegliendo ciò che ai nostri occhi sembra più ragionevole, plausibile, più sensato, meno drastico, per trovarci poi a non aver cambiato nulla.

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arnaco giovedì 1 maggio 2014
il dissenso
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Trovo la recensione di everlong bella almeno quanto il film e mi piacerebbe tanto sapere se a quel 5 di "dissenzienti" non è piaciuta la recensione o non è piaciuto il film e perché.

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