Sussurri e grida

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Un film di Ingmar Bergman. Con Harriet Andersson, Ingrid Thulin, Erland Josephson, Liv Ullmann.
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Titolo originale Viskningar och rop. Drammatico, durata 91 min. - Svezia 1973. MYMONETRO Sussurri e grida * * * * - valutazione media: 4,22 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Il colore dell'anima Valutazione 5 stelle su cinque

di Garancebp


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giovedì 4 settembre 2014

“Tutti i miei film possono essere immaginati in bianco e nero, tranne che Sussurri e grida. Nella sceneggiatura, dico di aver pensato al colore rosso come all’interno dell’anima”. Ingmar Bergman parla di Sussurri e grida come di un film pensato “in rosso”, girato all’interno dell’anima. Ed è in una casa rivestita di rosso che si svolge l’intera scena, come in un teatro, e si muovono i personaggi. Quattro donne e la presenza soffocante, respinta, sentita della morte: Agnes (Harriet Andersson), malata, sta per morire; si affida alla cura delle sorelle Karin (Ingrid Thulin) e Maria (Liv Ullman) e della loro domestica Anna (Kari Sylwan). La casa di famiglia e la morte della sorella risospingono inevitabilmente Karin e Maria nel loro passato, alla ricerca delle cause dell’infelicità presente, ai momenti di gioia, se ve ne sono mai stati, in uno dei film in cui Bergman è più ossessionato dallo scorrere del tempo, come già ne Il posto delle fragole, con cui questo ha in comune la ricorrenza fin dall’inizio degli orologi. Nel film più proustiano del regista, anche le pause tra un ricordo e un pensiero attuale delle protagoniste vengono accentuate macchiandole di rosso, vere e proprie “intermittences du coeur”. Esse rischiarano la figura delle donne, permettendo di capire il motivo di un gesto brusco o appassionato: entrambe le sorelle sono sposate e insoddisfatte e cercano di sfuggire dalla trappola che ormai rappresentano i loro mariti, Maria tentando una relazione con il medico di famiglia, che in una delle scene più toccanti smaschera sul suo bel viso i segni fisici di una vita di dolori celati e falsità esibite; Karin attraverso gesti di masochismo, e questa volta il rosso-anima è il sangue che lascia fluire dalla sua vagina. La domanda che si leva attraverso di loro è: si può veramente amare? Ma soprattutto: può l’amore infine salvare? Karin e Maria s’illudono di sì. Ma entrambe non sanno amare, il loro amore è frammentario, mai scevro di risentimenti, odio, cosicché non riescono a venirsi incontro e i tentativi di comprendersi riescono solo a intervalli, finché di nuovo non vengono risucchiati dalle spire dell’ipocrisia quotidiana cui entrambe non sanno ribellarsi, lasciandole sole, senza neanche l’affetto primitivo della famiglia. È invece nelle altre due donne che Bergman ripone la sua fiducia. Agnes ama le sorelle pur riconoscendone i limiti, pur portandosi addosso le estenuanti ferite della malattia (Harriet Andersson rivolge ancora allo spettatore “lo sguardo più triste della storia del cinema”, ora su un viso pallido e segnato, ma che possiede la stessa intensità di quello della giovane Monica). Agnes trova in Anna la madre di cui, bambina, ha sentito la lontananza e questa, in lei, la figlia che ha perso troppo presto. Questo è l’amore in cui alla fine si crede, scolpito nella posa ieratica e tenera di Anna che si scopre il seno per lasciarvi riposare Agnes, come in una Pietà. E quando infine lo spirito di quest’ultima, incapace di rassegnarsi a una bergmaniana morte tormentosa e terrena, torna e chiede di venire ascoltato, solo la cameriera è capace di non aver paura, di accostarsi e abbracciare ancora quel corpo, placandolo con la certezza del proprio affetto. E tra le grida delle sorelle che non sanno vedere in quell’incapacità di morire un disperato richiamo all’amore, risuona il sussurro di Agnes sul suo diario: “Il regalo più bello e la solidarietà, il calore umano, l'affetto. Credo che la gioia sia proprio questa.”

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