Morte a Venezia

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Dal libro di Mann, un esempio di compita fedeltà. Valutazione 3 stelle su cinque

di Great Steven


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martedì 26 maggio 2015

MORTE A VENEZIA (IT/FR, 1971) diretto da LUCHINO VISCONTI. Interpretato da DIRK BOGARDE, SILVANA MANGANO, BJONR ANDERSEN, ROMOLO VALLI, MARISA BERENSON, FRANCO FABRIZI, CAROLE ANDRé, NORA RICCI
Nel 1910 il compositore austriaco fallito Gustav von Aschenbach, fisicamente fragile e dallo spirito in perenne inquietudine, giunge al Lido di Venezia per concedersi una riposante vacanza. Trattato dal personale di uno dei più lussuosi alberghi veneziani come un cliente riservato e cortese, conosce un tredicenne effeminato slavo, di nome Tadzio, che diventa l’ossessione di una sua malsana e segreta passione omosessuale latente. Intenzionato a lasciare il capoluogo veneto per sfuggire ai possibili danni del suo nascosto desiderio, ottiene involontariamente che il suo bagaglio finisca per errore a Como, ed è costretto a far ritorno all’hotel, mentre intanto l’intera metropoli viene disinfettata perché sta per esplodere una sinistra e silenziosa epidemia di colera. Aschenbach lo viene a sapere da un direttore delle poste, in quanto le autorità cittadine fanno di tutto per mascherare l’arrivo della pestilenza allo scopo di non far diminuire l’afflusso turistico. Gustav si ammala anch’egli e muore su una spiaggia senza poter soddisfare la sensazione covata a lungo nel proprio cuore morboso. Trasformando l’Aschenbach del premio Nobel Thomas Mann da scrittore a compositore, Visconti inserisce nella trasposizione del suo racconto lungo alcuni elementi autobiografici che la rendono appetibile anche ad un pubblico colto e attento al soave accademismo illustrativo che il film mette in piazza senza timore di andare incontro a qualche manierismo, per fortuna abilmente evitato. Contributi tecnici di indiscutibile qualità: scenografia di Ferdinando Scarfiotti, costumi di Piero Tosi, fotografia di Pasquale De Santis, montaggio di Ruggero Mastroianni. L’intensa interpretazione di Bogarde, unita alla saggia mescolanza di un cast tecnico di tutto rispetto, rende quest’opera un intermedio capolavoro di nicchia godibile e lodevole per la sua raffinatezza estetica, la sua descrittività altamente potente ed espressiva, i suoi toni colorati un po’ ambivalenti e la sua negazione della ricerca di uno scopo esistenziale se non quello di una redenzione emotiva sul sopraggiungere estremo e incontrastabile del rigor mortis. Visconti, da maestro della regia consumato ma pur sempre capace di sfoderare colpacci memorabili, conosce la materia letteraria di cui parla e ha ben chiara la narrazione da seguire per conseguire l’obiettivo stilistico senza dubbio ambizioso che s’è posto senza mezzi termini: il risultato da egli raggiunto non esclude qualche forzatura ideologica e alcuni frammenti di retorica sul discorso dell’importanza e della funzionalità dell’arte, tuttavia è anche da apprezzare per la fedeltà al testo scritto e l’allusione non poi così velata alla distruzione interiore che un uomo ammorbato nel corpo e nella mente può malauguratamente operare su sé stesso col semplice appoggio di una passione impossibile per uno sconosciuto. Oltre a Bogarde, melanconico e introverso Gustav von Aschenbach, si distinguono anche S. Mangano nei panni della madre di Tadzio e il reggiano R. Valli nella parte del gentile e servizievole direttore dell’albergo. È comunque un bene che, una volta tanto, un caposaldo della letteratura straniera venga adattato da un regista nostrano evitando di ricorrere a novità assurde e inusitate e, al contrario, adottando le giuste precauzioni per mantenere verosimiglianza nei confronti della versione letteraria e non travisarne l’intimo significato. Visconti premiato a Cannes in occasione del venticinquesimo anniversario dalla nascita del più importante festival cinematografico francese. Gli spettatori hanno saputo offrirgli il successo che meritava.   

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