Lolita

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Un film di Stanley Kubrick. Con James Mason, Shelley Winters, Sue Lyon, Gary Cockrell, Jerry Stovin.
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Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 152 min. - Gran Bretagna, USA 1962. MYMONETRO Lolita * * * 1/2 - valutazione media: 3,63 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Intellettuale sedotto va incontro alla disfatta. Valutazione 4 stelle su cinque

di GreatSteven


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mercoledì 23 agosto 2017

 LOLITA (UK, 1962) diretto da STANLEY KUBRICK. Interpretato da JAMES MASON, SUE LYON, SHELLEY WINTERS, PETER SELLERS, MARIANNE STONE, DIANA DECKER
Humbert, uomo di mezz’età, professore di letteratura francese e traduttore di opere della stessa lingua, si trasferisce dopo la morte della moglie a Ramsdale, nel New Hampshire, pensionante nella lussuosa villa di Charlotte Haze, anch’ella vedova, borghese benestante inserita perfettamente nel contesto sociale del ceto medio cui appartiene e che ha una figlia quattordicenne, Dolores, ma da tutti soprannominata col lezioso e sdolcinato Lolita. La passione per Lolita che scocca nel cuore dell’uomo è immediata e insopprimibile, e allora l’insegnante escogita un piano: sposare Charlotte per poter rimanere in eterno vicino alla ragazza. Le sue mosse vengono però continuamente e fruttuosamente intralciate da Clair Quilty, trasformista per vocazione, uomo dallo straordinario camaleontismo che, spacciandosi per commediografo, poliziotto e psichiatra, tenterà di mettere i bastoni fra le ruote alla relazione sentimentale, o meglio, alla perversa ossessione sessuale che Humbert nutre per la ragazzina. Quando poi Charlotte, in una giornata piovosa, muore in un incidente stradale, Humbert coglie la palla al balzo per prendere in custodia Lolita e trasferirla in un istituto artistico dove farle studiare danza, recitazione e pianoforte. Ma i sensi messi in allarme dalla provocante fanciulla e l’incontrollabile ricorso di Quilty ad ascoltare un’unione che fin dal principio presenta punti di rottura pronti ad infrangersi, fa sprofondare Humbert in una depressione spaventosa e psicotica che lo conduce, alla fine di un irrazionale alterco interiore, all’omicidio del trasformista presso un malmesso negozio di antiquariato. Come molti critici intuirono, il primo film britannico di Kubrick migliora ogni anno che passa: costoro notarono pure che S. Lyon, tredicenne all’epoca delle riprese, dimostrava molti anni in più col suo sviluppatissimo sessappiglio, ma io credo che le lodi maggiori vadano alla geniale trasposizione del romanzo omonimo di Vladimir Nabokov che Kubrick adattò riuscendo a mantenere il velo di pacata, ma irreale, tranquillità dietro cui si agitano le passioni sfrenate, gli incubi ricorrenti, le mosse azzardate e gli intenti malvagi degli ambigui personaggi che popolano questa storia che scende nell’inferno della perversione sessuale, analizzando un erotismo sempre orecchiato e giustamente mai soddisfatto o messo in pratica, con un piglio lucido che denota un controllo eccezionale della tensione drammatica. Nonostante compaia solo nella prima ora, la Winters assolve il suo ruolo di donna emancipata ma disillusa col cipiglio di un’attrice consumata ma pur sempre in vena di recitare con vivacità, simpatia e anche un curioso e quasi impercettibile accento di crudeltà. Mason è un protagonista divorato dai suoi miasmi interiori, un individuo colto che però non è affatto aiutato dalla cultura, un cercatore d’oro fuori luogo che desidererebbe vivere il suo amore perduto e impossibile scoprendolo poi irraggiungibile e irrealizzabile per una serie di eventi concatenati che lo allontanano dal suo mistico e parossistico oggetto del desiderio: la sua interpretazione da Oscar vale molto più per l’inquietudine mossa nella raffigurazione di una tragedia mordente intima che per una caricatura volutamente ridicola e accentuata di un fuoco che si autoalimenta per poi spegnersi in modo prevedibile e automatico. P. Sellers, eccellente come sempre nella sua dote precipua di cambiare abito e calarsi in svariati e diversissimi personaggi nella medesima pellicola, aggiunge un saporoso tocco di comicità, ma si rivela pur sempre il carattere più drammatico, in quanto finisce per fare le spese del gioco di cui regge abilmente i fili come un esperto marionettista, ma non solo: la  sua insistenza nel rendere la vita impossibile a Humbert gli fa ispezionare ogni sua dote per sopprimere i talenti artistici della figliastra e farlo sentire inadatto e fallito come patrigno. Risultato ottenuto appieno, perché Lolita si realizza soltanto in un magnifico finale in cui Humbert la scopre incinta di un compagno di scuola, mentre per il resto della vicenda riesce esclusivamente a rinfocolare l’erotismo latente dell’uomo che la brama come un cavaliere moderno la sua donzella novecentesca in età puberale. Un bianco e nero di forte impressione che cancella ogni sorta di comicità e, assieme ad un montaggio che sa privilegiare con arguzia precisa l’utilizzo della dissolvenza innumerevoli volte e mai al momento sbagliato, si affianca ad una colonna sonora non troppo intensa, ma pur tuttavia esatta nell’esaudire il ritmo sardonico e cavalcante dell’opera, creando un connubio davvero impressionante che rimanda ai dubbi esistenziali di stampo shakespeariano. Le sequenze migliori si annoverano a decine, e tutte contengono pezzi di bravura imperdibili, ma per non far torti a nessuno è doveroso rammentare il primo incontro fra il professore e la borghese nella casa riccamente arredata con tappezzeria di prima mano e la comparsa di Lolita in costume da bagno con la radiolina ad alto volume; il ballo al gran galà dove si danza sotto le insegne luminose in cui Charlotte presenta ad Humbert i due coniugi, amici di vecchia data, che avranno un ruolo importante nella storia e che lo prendono subito in simpatia per la sua cultura e i suoi modi signorili; le litigate fra madre e figlia per i reiterati ritardi notturni senza uno scopo; l’incidente d’auto in cui, sotto una pioggia incalzante, il cadavere della donna viene rimosso dalla scena del reato; i viaggi innumerevoli in automobile per le strade dell’Ohio e del Gran Canyon in cui assistiamo alle discussioni concitate, ma sempre a lieto fine, fra la figlioccia e il padre putativo che esprimono opinioni contrastanti; la telefonata notturna di Quilty che, evitando di rivelare la propria identità, mette in allarme il professore; la visita del falso psicologo filotedesco che parla di repressione e diversi stili di educazione, più adeguati alla crescita emotiva dell’adolescente in questione; il diario che Humbert tiene di nascosto, ma non troppo, in cui annota, comparendo anche come voce narrante, il che è un’ottima scelta stilistica, le impressioni procurategli dall’incontro con quella che diverrà la sua nostra disastrata famiglia; lo spettacolo serale in cui Lolita indossa ali da fata e viene bruscamente riportata a casa da Humbert per impedirle di combinare altri spiacevoli guai; e infine, il sottofinale in cui la giovincella rivela la sua maternità e fa conoscere al patrigno il compagno di scuola col quale convive e al quale ha parlato molto di lui in termini cortesi e l’assassinio del perfido, mellifluo, manipolatore e furbissimo Clair Quilty attraverso la tela del quadro che raffigura una donna matura che sorride placidamente. Forse proprio quella che Charlotte non costituiva adeguatamente per il marito e che Lolita non diventerà mai, troppo appagata dalla sedicente via della dissolutezza e intesa a non assecondare le intenzioni educative e le sagge proposte caritatevoli della madre naturale e del padre adottivo. Un film che resterà ancora per lunghissimo tempo un’insostituibile pietra miliare nel mondo del cinema britannico perlomeno per quanto riguarda il dramma psicologico che scava come la vanga di un coraggioso, avido becchino nei recessi della mente umana, esaminandone gli aspetti più contorti, controversi e inesplicabili della psiche, pur riuscendo a fornire risposte che si avvicinano al vero più di quanto voglia ammettere chi non possiede l’ormai rarissimo talento di raccontare storie. 

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