La dolce vita |
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Un film di Federico Fellini.
Con Marcello Mastroianni, Anita Ekberg, Anouk Aim?e, Yvonne Furneaux, Alain Cuny.
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Commedia,
Ratings: Kids+16,
b/n
durata 173 min.
- Italia, Francia 1960.
- Cineteca di Bologna
MYMONETRO
La dolce vita
valutazione media:
4,64
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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Viaggio drammatico nella frivolezza dei borghesi.di Great StevenFeedback: 70013 | altri commenti e recensioni di Great Steven |
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lunedì 11 gennaio 2016 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
LA DOLCE VITA (IT/FR, 1960) diretto da FEDERICO FELLINI. Interpretato da MARCELLO MASTROIANNI, ANITA EKBERG, ANOUK AIMEE, YVONNE FURNEAUX, ALAIN CUNY, CESARE MICELI PICARDI, FRANCESCO LUZI, ADRIANA MONETA, WALTER SANTESSO, ENZO CERUSICO, GIULIO PARADISI, ADRIANO CELENTANO, LEX BARKER, GIO STAJANO, ALFREDO RIZZO, VALERIA CIANGOTTINI, ANNIBALE NINCHI, MAGALI NOEL, RICCARDO GARRONE, LAURA BETTI, GIANNI BAGHINO, POLIDOR, MINO DORO, NADIA GRAY
Marcello è un fotoreporter che lavora nella borghesia romana e negli ambienti frequentati abitualmente dagli aristocratici cinici, sfarzosi e nullafacenti della capitale. Ha ambizioni di scrittore ma, ciononostante, ben raramente scrive qualcosa, e svolge un mestiere che non lo aggrada, e che lo precipita inconsapevolmente in un vortice di soldi facilmente dilapidati, contraddittorietà, inconsistenza culturale, frivolezza sociale e soprattutto noia a non finire. Numerosi sono gli eventi mondani di cui si rende partecipe: l’arrivo in Italia della diva americana Sylvia, attricetta idolatrata dalle forme giunoniche; il raduno massiccio alla periferia di Roma in occasione di un avvenimento religioso al termine del quale ci si aspetta l’apparizione della Madonna e l’esecuzione di un miracolo; l’incontro col padre, che non vede da tempo e col quale ha rapporti solo saltuari; l’amicizia con l’eccentrico e comprensivo intellettuale Enrico Steiner, che finirà per sparare ai figli per poi togliersi egli stesso la vita. Dopo una serata trascorsa fra provocazioni, giochi erotici, capricci infantili e discorsi tutt’altro che edificanti, Marcello va insieme ai suoi malevoli compagni di bagordi presso una spiaggia sulla quale è stato rinvenuto il presunto cadavere di un mostro marino, e non sente il richiamo di una ragazzina – unico, disperato e irraggiungibile richiamo alla purezza e alla delicatezza autentica di un mondo che non gli appartiene più – conosciuta in precedenza, che gli urla qualcosa da una parte all’alta del lido. Viaggio profondamente pessimistico e di taglio machiavellico e intimista nella squallida mutevolezza di un universo che, specialmente ai tempi di via Veneto, godeva di una popolarità inconsueta forse troppo grande addirittura per riuscire ad elevarlo dal suo altare di sordidezza, implicita ma pur sempre onnipresente e molto più dannosa di quanto apparve in superficie. Ne è stata fatta una versione aggiornata grazie al sorrentiniano La grande bellezza (2013). La bellezza di questo indiscusso capolavoro del regista romagnolo, invece, sta nella meravigliosa e spietata criticità che parte fin dalla prima scena (un pezzo di bravura eccellente: il trasporto della statua del Cristo, così beffardamente deriso coi comportamenti vacui e lerci dei borghesucci, o individui imborghesiti, di Roma) e prosegue poi con un’analisi cruda e indiscriminata che non risparmia proprio nessuno, dai giornalisti invadenti e accaniti che vogliono documentare ogni singolo istante dell’esistenza vivacchiante e vuotissima dei VIP (e il film fa capire perfettamente che meriterebbero tutto fuorché essere alla ribalta delle cronache) a quei ricconi sfondati che possono concedersi esperienze infruttuose e inette come la ricerca dei fantasmi in un vecchio castello abbandonato, lo spettacolo più che mai becero e fanatico atto ad assistere ad un miracolo religioso e, ultima solo in quest’elenco, la baldoria consumata in un appartamento messo a disposizione dei gozzoviglianti da uno svogliato magnate. Fellini toccò con questa pellicola un apice artistico per la prima volta non legato troppo strettamente al discorso dell’artista di professione (come era invece accaduto con La strada) ma concentrato maggiormente sulla questione di un mestiere che viene svolto malvolentieri da un protagonista estremamente annoiato che desidera, ma senza troppa voglia o convinzione, di cambiare vita, malgrado poi continui con testardaggine ad approfittare dei piaceri della vita che, con ogni probabilità, non merita e non sa neppure di non meritare. Interpretazioni quasi tutte straordinarie (solo la Ekberg, neanche doppiata, lascia a desiderare, come poi avrebbe fatto nei ruoli successivi della sua carriera, incarnando sempre il prototipo "marilyniano" della bambolona), fra cui spicca un M. Mastroianni nella sua miglior forma, capace di intrallazzare abilmente con una A. Aimée tormentata in preda a rimorsi e ripensamenti, soprattutto amorosi, mentre si distinguono, grazie a due differenti prototipi di uomo integrato, sereno e buontempone, A. Cuny nel ruolo di Steiner e A. Ninchi nelle vesti del padre burlone e gioviale del personaggio principale. Chiude il quadro recitativo una bravissima Y. Furneaux, che dà vita ad una fidanzata stupendamente gelosa e caparbia nella sua insicurezza sentimentale. Diede origine in tutto il mondo alla diffusione del termine "paparazzo", divenuto da allora proverbiale e celeberrimo. Fra gli sceneggiatori, vi fu anche (non accreditato) Pier Paolo Pasolini. La sceneggiatura è senz’altro uno degli aspetti più determinanti per un’opera che, come rarissimamente accade, riuscì a mettere d’accordo pubblico e critica, consegnandola alla storia dell’immaginario collettivo italiano (e forse anche europeo) e rivestendola di un’aura intoccabile di magia artistica che sa ritagliarsi un posto d’onore nell’Olimpo cinematografico nostrano per un connubio notevolmente azzeccato fra perizia registica, ottimi contributi tecnici, musiche magnifiche, attori bravissimi e morale conclusiva diretta e secca come un pugno nello stomaco, così lontana dalla ricerca di un finale positivo da sembrare un monito catastrofico e disfattista, almeno dal punto di vista sociologico. Del resto, La dolce vita deve la sua notorietà, artisticamente parlando, anche per il suo impianto narrativo feroce e antifavolistico.
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