Roberto Nepoti
La Repubblica
Nei suoi furori shakespeariani, Orson Welles prendeva per sé i caratteri fieri e grandiosi (Otello, Macbeth, Falstaff). Al Pacino preferisce gli umiliati e offesi, motivati dal rancore e dall'odio: dopo il deforme Riccardo III, si dedica a Shylock, il mercante di Venezia disprezzato e sbeffeggiato che tenta di lenire le ferite inferte al suo orgoglio rivalendosi sulla carne di un cristiano. La parte di Antonio, che ha preso denaro a usura dall'ebreo per prestarlo all'amico Bassanio, tocca a Jeremy Irons; Bassanio è Joseph Fiennes, belloccio e incolore come ai tempi di "Shakespeare in love"; Porzia, che salverà in tribunale pelle e carne di Antonio, ha i tratti graziosi di Lynn Collins.
C'è poco di nuovo nel Mercante di Venezia diretto con piatta diligenza da Michael Radford: la sceneggiatura aderisce alla lettera del testo (con poche varianti, tra cui la palese omosessualità di Antonio); la messa in scena coniuga in modo un po' artificioso i costumi del Cinquecento con le riprese "on location" nella città lagunare e gli interni ricostruiti in Lussemburgo; il cast ha l'aspetto "europudding" (con innesti americani) quasi inevitabile in questo genere di coproduzioni.
Però. Però c'è Al Pacino, un grande Pacino che riesce a infondere al personaggio non solo umanità (il celebre monologo "se ci pungete non sanguiniamo? se ci fate il solletico non ridiamo?"), ma vi somma una sorta di dolente grandiosità cui neppure Michel Simon si avvicinò interpretando Shylock. Per lui, vale la pena di scomodarsi.
Da La Repubblica, 11 febbraio 2005
di Roberto Nepoti, 11 febbraio 2005