Zivan Makes a Punk Festival

Agosto 2013: tra Panevo e Belgrado un curioso personaggio distribuisce e incolla flyer ovunque. È Zivan, instancabile organizzatore di un festival punk, hard core e ska, ospitato nel natìo, remoto paesino serbo di Tomasevac. Mancano quattro giorni all'evento ma c'è ancora tutto da fare. Definirlo do it yourself è un eufemismo perché Zivan (Jimmy per gli amici) si occupa letteralmente di ogni aspetto: dalla promozione alla logistica, dall'amministrazione all'allestimento del palco, dalla gestione dei gruppi alla pulizia della location. In caso di cambi di scaletta, si ritaglia anche il ruolo di performer, visto che qualche anno prima anche lui cantava in un gruppo punk rock e non ha mai smesso di scrivere poesie. A Tomasevac si attendono cinque band locali, più una in arrivo dalla Slovacchia (con cui Zivan comunica in inglese), che a suo parere conferisce all'evento un carattere internazionale. Man mano che il film avanza, ci si rende conto che il festival in realtà è un unico live arrangiato alla bell'e meglio nel campo sportivo del paese, con attrezzature reperite fortunosamente e non senza imprevisti tecnici. E che è giunto alla sesta edizione reggendosi solo sulla caparbietà di Zivan, la sua impermeabilità a ostacoli, rifiuti, incredulità (e la disponibilità dei compaesani).
Produzione indipendente e super low budget come il suo protagonista (che dichiara di avere a disposizione 200 euro per il proprio evento), Zivan alterna una struttura finzionale al desiderio di documentare la spinta entusiastica di questo Forrest Gump serbo. Un ex adolescente punk che non può non catturare la simpatia dello spettatore per la sua naiveté, come quando promuove il suo festival a un bambino, rivela a un passante del suo ricovero in ospedale psichiatrico, o ingoia bocconi bollenti. Il film sembra adagiarsi un po' passivamente sulla sua pervicacia: si evoca appena il suo passato e si lascia al finale dialogo con l'amico soprannominato "Dostoevskij" il confronto con la dura realtà del rapporto costi/benefici. La sfida di Zivan - portare nel suo villaggio un festival che «tra 100 anni diventerà Woodstock» - cozza infatti col concetto di profitto: il prezzo del biglietto d'ingresso, stabilito ovviamente da lui, è 100 dinari, corrispondenti a 1 euro. Tutti i suoi sforzi allora assumono i tratti della terapia ansiolitica, di un'ossessione nata per combatterne altre: malattia, marginalità, solitudine, micidialmente interconnesse. E di cui Zivan è consapevole.
Selezionato nel 2014 al Festival dei Popoli, il film di Glavoni (che già aveva filmato Zivan in un corto) resta sospeso tra mockumentary, caso clinico e favola utopica. Sfrutta l'intimità del protagonista con chi tiene la camera a mano che lo segue e interagisce con lui. Demandando al pubblico ogni giudizio sull'eroe del film, lascia anarchicamente la briglia sciolta a un fool che, per paradosso, è l'unico (nel film manca ogni riferimento alla guerra del Kosovo) a cercare con ogni forza una forma di riscatto per la sua terra d'origine, dimenticata e culturalmente inerte. 