Femmes, femmes

Film 1974 | Drammatico 122 min.

Regia di Paul Vecchiali. Un film Da vedere 1974 con Hélène Surgère, Michel Delahaye, Michel Duchaussoy, Noël Simsolo, Henry Courseaux. Cast completo Genere Drammatico 1974, durata 122 minuti.

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Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini

Femmes femmes è il primo prodotto «finito» di una ricerca cinematografica durata per una decina d'anni, coincidente soprattutto con la parabola «metalinguistica» di Godard e dei suoi giovani e terroristici epigoni. Trattandosi dunque di un prodotto «finito», Femmes femmes si propone - oggetti-vamente, al di fuori forse delle intenzioni dell'autore - di restaurare una classicità in cui la ricerca «metalinguistica» venga almeno in gran parte riassorbita. Vedendo Femmes femmes non si pensa continuamente che il suo autore sta facendo del cinema, e, soprattutto, sta pensandoci. Il «distacco» dall'opera si è ridotto in Vecchiali a un certo diffuso sentimento senza più pressioni e violenze sullo spettatore, e soprattutto senza più esibizionismi. La «lezione», com'era fatale, è rientrata sia pur vistosamente nei codici. Sparita la intenzionalità e dunque la messa in discussione dell'opera proprio nell'atto del suo realizzarsi, è rimasta l'opera, nuda e semplice. Trattandosi di una «restaurazione», non ideologica sul piano della ideologia ma sul piano dell'espressività, quella di Vecchiali è in definitiva (in un contesto storico peraltro molto particolare: la Parigi dei primi anni Settanta) una riscoperta del cinema. Nel bianco e nero di Femmes femmes traspaiono i grandi, commoventi modelli primi: quanto a me, ho pensato a Murnau (L'ultima risata), a Dreyer (Gertrud) o a qualche minore, per esempio Machaty. Femmes femmes è tuttavia - e questo è straordinario - proprio un film sul cinema! O meglio, addirittura, sull'espressività audiovisiva in generale. Le due protagoniste, infatti, sono due attrici: due attrici teatrali il cui mito è però (come dimostrano le fotografie appese alle pareti del loro appartamentino ros-selliniano) cinematografico. Esse recitano Racine o magari un «vaudeville» paesano, ma vorrebbero essere due «stelle» di Hollywood. Si instaura così un ménage a trois fra «realtà», «cinema» e «teatro». Le due attrici sono due attrici fallite che scendono la china della degradazione sociale. Dunque sono abbandonate sia dalla pienezza della loro «professione» (il teatro) che dalla pienezza del loro «mito» (il cinema). Non resta loro che il vuoto della realtà. Ma il «riciclaggio» è irrefrenabile. Ecco che quando la «realtà» sembra più vuota, inerte, insignificante, puramente tragica perché senza ragioni - essa viene di nuovo riempita da quella «coscienza di se stessa» che è la rappresentazione: il cinema, in quanto il suo codice linguistico coincide con quello, appunto, della «realtà come rappresentazione naturale», e, inoltre, in quanto esso è un modello totalizzante (nel cominciare a morire, una delle due attrici, pur soffrendo selvaggiamente, «imita» la posa disperata di una delle adorate «star» hollywoodiane); e il teatjro, in quanto i personaggi interpretati contagiano una volta per sempre chi li interpreta, e se un'attrice è stata una volta un'eroina di Racine non cesserà più di esserlo. Il personaggio di un grande autore è sempre più grande dell'interprete (spesso meschino, privo di talento o addirittura cane), ma gli presta generosamente la sua grandezza. In conclusione le due povere fallite alla deriva - quasi sul punto di diventare due barbone - sono dilatate semanticamente, nella loro realtà, da ciò che esse sono nel cinema-teatro. Potrebbero naturalmente, come tutti gli esseri umani, raggiungere una loro «grandezza» - anche monumentale - coi loro propri semplici mezzi: fatto sta che nel film di Vecchiali esse raggiungono la «grandezza», appunto monumentale, attraverso la dilatazione linguistica che ho detto. Ma è la loro «grandezza» che alla fine conta. Quelle due povere, farneticanti «emarginate», ridotte a rottami umani, ci appaiono alla fine del film, due personaggi degni, ripeto, dello Jannings di Murnau o della Gertrud di Dreyer (tanto per fare due esempi puramente paradigmatici). Il loro amore, che è sensuale senza essere lesbico, che è spirituale senza alcuna retorica spiritualistica, che è commovente senza alcun sentimentalismo - ha la fermezza e la follia delle grandi invenzioni poetiche dei piccoli maestri. Perché esso, nell'e-vitare appunto i pericoli di uno psicologismo clinico, di uno spiritualismo culturalmente squalificante, e soprattutto del sentimentalismo, ad altro non ricorre che a una estrema, lieve e profonda eleganza (non formalistica, anzi, se mai un po' goffa): e ciò - lo si lasci dire a un testimone italiano -era possibile solo nel cuore di una cultura come quella francese: mai establishment culturale è stato rappresentato con tanta innocenza e assolutezza come nelle due attrici fallite (le straordinarie Hélène Surgère e Sonia Saviange) di Vecchiali.
Da I film degli altri, Ugo Guanda editore, Parma 1966

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