Il padrino - Parte III

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Un film di Francis Ford Coppola. Con Al Pacino, Diane Keaton, Andy Garcia, Talia Shire, Eli Wallach.
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Titolo originale The Godfather, Part III. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 168 min. - USA 1990. MYMONETRO Il padrino - Parte III * * * - - valutazione media: 3,23 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Irene Bignardi

La Repubblica

Il Padrino III è un esempio di grandioso filmmaking, ma non è un grande film. Spiace usare una volta di più una parola di italese come filmmaking, ma non esiste ancora un equivalente. E il prodotto di una grandiosa concezione registica e di una straordinaria confezione, dall’art direction di Dean Tavoularis, alla fotografia di Gordon Willis, ai costumi di Milena Canonero. Ma risente di essere frutto della necessità (più che dell’ispirazione), della simmetria che vuole non ci siano due successi senza un terzo (più che della voglia di farlo di Coppola), delle regole del gioco (più che della libertà), di una sceneggiatura, scritta da Coppola con Mario Puzo e continuamente riscritta giorno dopo giorno durante la lavorazione del film, che arriva con qualche fatica all’appuntamento con la sua idea conclusiva, quella che nei modi e nella sostanza riassume lo stile operistico a cui erano improntati i due primi Padrini. Un appuntamento che può anche essere visto come un ammicco alla critica americana. Mi avete definito operatic, melodrammatico. Guardate un po’ cosa vi combino se metto in scena del vero melodramma. Insomma, Il Padrino III è il coronamento ma non il meglio della saga dei Padrini. Personalmente, nel ricordo mi sembra che Il Padrino I fosse il più forte e il più compiuto. Esiste anche un agguerrito partito che predilige il primo film della saga. Il dibattito è aperto.
In ogni caso, a diciotto anni dal Padrino i e a sedici dal Padrino II (ugualmente coronati dall’Oscar per il miglior film, contro tutte le tradizioni dei sequel) i Corleone sono nuovamente tra noi, più che mai famiglia reale (tanto che, con paragone audace, “Time magazine” li accomuna ai Kennedy). Michael, un Al Pacino invecchiato, stanco e tormentato che vediamo presiedere una grande festa carica di minacciose controscene, ha appena ricevuto da un vescovo l’ipotetico ordine di San Sebastiano. In questi sedici anni ha fatto tutto quello che era in suo potere per abbandonare l’illegalità, lasciarsi alle spalle gli affari sporchi e conquistarsi la rispettabilità di un onesto miliardario (posto che ne esista uno). Insomma, ha tentato di abbandonare Little Italy per Wall Street e la finanza internazionale (ma il linguaggio lo tradisce: la finanza è una pistola, e la politica è sapere quando premere il grilletto).
Quello di lasciarsi alle spalle il passato è più un desiderio che un’autentica possibilità. Un po’ perché ci pensa a ricordarglielo il distacco di suo figlio Anthony (Frank D’Ambrosio), che non vuole avere nulla a che fare con l’azienda di famiglia (“butta via la grandezza,” commenta il padre) e desidera solo fare il cantante d’opera. Poi perché, come per tutte le grandi fortune costruite sul sangue, tra gli intrighi di Eh Wallach, di Joe Mantegna e degli emissari del Vaticano giunti a discutere l’acquisto da parte dei Corleone di una immobiliare, conservare il potere presuppone una vigilanza continua. E anche se Michael vorrebbe tanto fare a meno dell’aiuto di Vincent Mancini, figlio illegittimo del fratello che ha ucciso (e di una ragazza con cui
lo vediamo amoreggiare nel Padrino I); anche se in principio, al ragazzo cresciuto nel culto della violenza e capace di staccare a morsi un orecchio all’esterrefatto Joe Mantegna, risponde “non ho bisogno di duri, ho bisogno di avvocati”, finisce per accettare ancora una volta la logica della violenza malavitosa e prendere con sé il nipote (Andy Garcia, che non solo è molto bravo, ma, curiosamente, assomiglia in maniera impressionante ad Al Pacino).
Più che il vecchio re Lear, divorato dai disastri della successione e dall’ingratitudine (secondo le indicazioni di lettura suggerite da Coppola), Michael Corleone ricorda semmai Macbeth, ossessionato com’è dallo spettro del fratello che ha assassinato nella casa del Nevada di cui vediamo, ad apertura del film, le immagini di desolazione e abbandono. E conviene andare a rispolverare la saga dei Corleone per ricordare tutti gli omicidi di cui il mite intellettuale Michael si è dovuto rendere responsabile nella logica perversa del potere mafioso: o più semplicemente nella logica del potere tout court.
Finché Coppola muove il suo Dan attraverso l’allegria minacciosa della grande festa in cui ricompaiono tutti i membri della regale famiglia (la sorella Tahia Shire, un po’ suonata dai dolori, l’ex moglie Diane Keaton, più che mai lontana dal mondo del marito, la figlia Mary, e cioè Sofia Coppola, simbolo della nuova rispettabilità, l’avvocato della famiglia, che questa volta è George Hamihton, amabilmente mondano), finché ci conduce attraverso gli ultimi fuochi dello scontro con la dissidenza malavitosa, siamo nella grande tradizione narrativa dei “padrini”, e arriviamo senza dare una sbirciatina all’orologio a un’ora e venti di film.
Poi, con perfetta simmetria di tempi ma con uno scatto pretestuoso il cui snodo è una crisi diabetica di Michael, la storia si sposta in Sicilia, con tutti i rischi del caso. Perché la visione che Coppola e Puzo hanno della mafia è, dal punto di vista del colore e del costume, in arretrato di qualche decennio: e dal punto di vista della storia, bizzarramente semplificata. E mentre Michael cerca di rimettersi in sesto in una Bagheria su cui, imprevedibilmente, si erge un perfetto tempio greco, mentre affronta le sue crisi di coscienza e la necessità di passare il bastone del comando all’ambiguo Andy Garcia, che ha la forza e il pelo sullo stomaco per diventare il Padrino anni novanta,
mentre Eh Wallach trama tra masserie, coppole e dialoghi in siciliano di fantasia, a Roma, come se il copione lo avesse scritto quel semplificatore della storia che è David Yallop, Giovanni Paolo i muore avvelenato, i patti sull’immobiliare vengono traditi e un signore molto simile a Calvi si impicca sotto un ponte con vista sul Vaticano.
È in questa seconda parte del film, e in questa versione romanzata e melodrammatica dei crimini e misfatti vaticani, che il pubblico italiano, se non si farà incantare dal mestiere del grande orchestratore Francis Ford Coppola, troverà più ragioni di irritazione che di divertimento. Anche perché Coppola, se semplifica, dimostra di conoscere bene la mitologia nostrana, dita Andreotti, stabilisce facili equazioni tra politica e crimine, accredita la dietrologia nella sua forma più facile. Ma tutta la parte italiana sembra concepita per condurci al grande finale, venti minuti di cinema senza parole o quasi di ritmo impeccabile e di pura abilità. Melodrammatico, operatic? Coppola è qui più abile a governare la cinepresa che il copione, più attento all’atmosfera che alla credibilità, più abile nella musica che nel libretto. Attorno alla prima di una Cavalleria rusticana al Massimo di Palermo, in cui deve debuttare il figlio Anthony (ah, le feste, come è bravo Coppola a raccontarle, a farle gravide di paure), il regista intreccia tutti i fili narrativi del suo Padrino III, i complotti, le vendette. A tutta prima sembrerebbe un lieto fine. L’ex moglie è lì con Michael a festeggiare il trionfo del figlio; Mary (Sofia Coppola, uno dei punti deboli del film, un tocco di goffa naturalezza in una cornice altamente stilizzata) è un po’ ammaccata per l’amore non corrisposto dal cugino Garcia, ma tranquilla; Tahia Shire è tutta contenta di aver rifilato un cannolo avvelenato al cattivo Eh Wallach (ma Coppola fa sul serio o fa dell’opera buffa?); insomma, sembra che l’approdo alla legittimità della famiglia reale Corleone (che infatti siede nel palco reale) sia cosa fatta.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996

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