Inside Man

Lietta Tornabuoni

Quante volte s’è vista la scena delle auto della polizia (sirene, sgommate, superarmati che saltano fuori sbattendo gli sportelli, nastri colorati per delimitare i territorio) che arrivano alla banca dove i rapinatori stanno rinserrati insieme con gli ostaggi? In Inside man di Spike Lee sembra di non averla mai vista prima: in un film di genere (poliziesco, thriller) la bravura dell’autore si esalta come non mai.
Spike Lee, 49 anni, 14 film, ha avuto una forte influenza sul linguaggio audiovisivo con il suo stile: iperrealismo, velocità di montaggio, Jump cut, colori squillanti e primari, punti di visione inediti, capacità di alzare la temperatura emotiva del racconto, un gran caleidoscopio d’immagini e di suoni. Tra le sue inquadrature non ce n’e una sciatta, non pensata; le idee figurative che hanno reso unici i suoi spot pubblicitari o i video musicali per Michael Jackson sono ricche e nuove. Nel cinema contemporaneo, ipertecnologico eppure tenacemente legato (o tornato) alla narrativa ottocentesca, al romanzo popolare, la maestria formale di Spike Lee è ammirevole e rimane quanto di più moderno si possa vedere al cinema. Questo spicca soprattutto in un film come Inside Man, poliziesco ovvio e perfetto: rapina in banca, presa di ostaggi, trattative con la polizia, piano di rara ingegnosità (gli ostaggi rivestiti con la medesima tuta grigio-mastice dei rapinatori, così che sia impossibile distinguere gli uni dagli altri), spionaggi incrociati, Jodie Foster messa lì senza altra necessità che includere una donna, una infamia vecchia di oltre mezzo secolo, i soldi della banca intatti, un discorso del defunto tiranno albanese Enver Hodja, inviti («Non facciamo i furbi tra noi furbi»), armi giocattolo, una cascata di diamanti.
Da L'Espresso, 6 aprile 2006


di Lietta Tornabuoni, 6 aprile 2006