Casablanca

   
   
   

In viaggio da antropologo tra i segreti di «Casablanca»

di Marco Cicala Il Venerdì di Repubblica

Dopo aver indagato le culture tecnologiche e i rituali della modernità, lo studioso francese dei non-luoghi dedica un libro al più mitico dei film americani. Spiegando «È vero, il cinema è morto. Ma non facciamone una tragedia».
Rick Blaine - Bogart in Casablanca - ha 37 anni. Ne dimostra di più. Ha venduto armi agli etiopi aggrediti da Mussolini (non ai cinesi come nella versione italiana, «velinata» benché il film sia uscito da noi solo nel 1945). Ne ha vendute pure ai repubblicani spagnoli. È cresciuto nei bassifondi di New York. Però sa muoversi dentro uno smoking. E stappare bottiglie di Veuve Clicquot con padronanza da maitre. Detto questo, è un adolescente attardato: cinico, solitario, sentimentale, masochista-ossessivo. Fosse per lui, si sparerebbe sempre la stessa canzone (adolescenti monomaniaci, quanti di noi l'hanno fatto al giradischi, rimettendo la puntina sul medesimo punto. As Time Goes Bv, che gli ricorda l'idillio spezzato con Ingrid Bergman. E per riascoltare il brano, dispone - notoriamente - d'un juke box in pelle umana. Nera. Sam, il fido pianista di colore.
Come tutti i capolavori, anche Casablanca è un concentrato di dispositivi (libidinali, mnemonici, esistenziali...) e Ligure del desiderio (la bella fuggitiva, l'avventuriero di sinistra, l'altrove esotico, la terra promessa - gli States). Tutta roba ampiamente dissezionata dai cinéphile. Stavolta, a calarsi nell'ingranaggio seduttivo del film è però Mare Augé, un etno-antropologo che ama le incursioni extra-disciplinari, e a Casablanca dedica un libro allegramente malinconico, sorta di ode al cinema in for ma di saggio, scientifico ma fitto di schegge autobiografiche. Incontriamo il professor Augé davanti all'Ecole des Hautes Studes en Sciences Sociales, dove insegna. segna. Invece che in ufficio, però, ci j porta dall'altra parte del boulevard, al bar dell'Hotel Lutetia: «Ci j sono palme, camerieri in giacca bianca, un pianista... Tutto très Casablancà» sghignazza tra baffi e pizzetto. Una volta in poltrona, avÌ verte: «Amo smodatamente il cinema. Ma non sono un cinéphile. Innanzitutto per una ragione semplicissima: ho pessima memoria». Eppure la memoria è il fulcro del suo libro. Non quella archivistica (date e nomi): quella emotiva.
«C'è un'affinità intima, profonda e un po' misteriosa tra il cinema e li funzionamento del ricordo. Lasciamo da parte le analisi più dotte. Alla base, ritengo ci sia il fatto elementare che vedere o rivedere un film su grande schermo rifà di noi dei bambini. A differenza di quelle televisive, le immagini del cinema ci sovrastano per dimensioni.
E, isolati nel buio di una sala, diventiamo soggetti ipersensibili. Sovraesposti, e con scarse difese, di fronte alle emozioni. Non so lei, ma io, al cinema, ho spesso gli occhi inumiditi. Nella vita ordinaria non mi succede mai. Compreso quando guardo un film - magari lo stesso! - in tv». Ad appesantire il carico aggiungeteci che la memoria è anche uno dei temi espliciti di Casablanca. Tanto Humphrey che Ingrid si struggono nel ricordo. «Nel mio caso» racconta Augé «ci aggiunga pure che il film si annoda a precisi trascorsi personali. Sono nato da una famiglia a cavallo tra piccola borghesia e proletariato. Tranne mio padre, tutti i maschi erano militari. Molti nelle colonie: Algeria, Madagascar o nello stesso Marocco di Casablanca, Casàcome sentivo chiamarla da zii e cugini, nel gergo dei coloni. Quando vidi il film per la prima volta, sarà stato il'47 o il ‘48. Avrò avuto 12-13 anni. Quella storia collocava in una dimensione mitica un mio recente passato biografico. Organizzava in forma di racconto i fantasmi, i desideri, l'immaginario di un adolescente sensibile a certi temi romanzeschi: peripezie, esotiche lontananze. In seguito, nei miei viaggi di studio, dall'Africa al Vietnam, ho spessori percorso quei luoghi così densi di suggestioni. E questo ha creato un'ulteriore stratificazione».
Bel gomitolo proustïano. Spiega l'autore: «Non rammento esattamente le circostanze in cui vidi Casablanca la prima volta. Né come lo percepivo all'epoca. Però continua a rievocare in me sensazioni e ricordi che, nel loro nucleo, so essere veri. La memoria deforma, trasfigura, riscrive ma restando fedele a un'emozione originaria». Non solo: «In certi casi le immagini del cinema sì innestano sul nostro vissuto personale fino a confondersi. A confermarci questa curiosa osmosi c'è un fenomeno strano ma comune: quante. volte ci capita di avere nitidamente in testa la scena di un film, poi lo rivediamo e quella scena non c'è? Ce l'abbiamo messa, proiettata noi Mi è successo anche con Casablanca. Non so più quale grande scrittore ebbe la stessa esperienza con La certosa di Parma. Ricordava perfettamente una passaggio con Fabrizio e Severina che però nel romanzo non esiste. Stendhal aveva a tal punto configurato o, diremmo, colonizzato la sua memoria!».
Casablanca appartiene ai classici che non invecchiano perché - a parte la sveltezza «hemingwayana» dei dialoghi - rimette in moto dispositivi mitici, temi ancestrali della narrazione: arrivi, partenze, fughe, viaggi (il film è pieno di carte e planisferi). In più, con coerenza chissà quanto consapevole - sappiamo che la sceneggiatura fu largamente rimaneggiata e improvvisata - immerge tutto e tutti in una dimensione di precarietà esistenziale. Casablanca non è solo fumoso luogo interlope, tortuga di spie,
truffatori, mercanti di uomini, poliziotti corrotti e infidi croupier. È soprattutto corridoio di transito per deracinés d'ogni dove e transfughi in cerca di visto sognando l'America. «A Casablanca tutto è provvisorio. Sentimenti inclusi» dice Augé. «Si pensi alle oscillazioni dei protagonisti. Bogart altalenante tra passione, rancore, amarezza, gelosia sino alla sublimazione finale quando rinuncia stoicamente alla bella per riabbracciare la lotta antifascista. Sembra un eroe di Corneille. In realtà è forse più vanitoso che innamorato e, come tutti, gli uomini ama davvero fare la guerra. Ma si pensi anche alle ambiguità affettive della Bergman, in bilico tra ex amante e marito. Pare che nel pressappochismo della lavorazione lei chiedesse al regista Michael Curtiz: Insomma di chi devo essere innamorata? E l'altro: Boh. Fai tu. Recita come ti senti. Nessuno dei personaggi resta bloccato nella propria personalità. Tranne Sam, il pianista nero. Ma lui fa parte del mobilio. Un po' come l'ancella nella tragedia classica francese. 0 il coro antico. Conosce i destini della gente, però in quanto individuo non esiste. È insieme sub e sovrumano»
Come se non bastasse, poi, due delle scene madri del film sono ambientate in luoghi di intensa precarietà: una stazione ferroviaria (quella in cui sotto un diluvio e nel caos di Parigi, appena invasa dai nazi - Bogart attende invano Ingrid); e l'aeroporto della famosa scena finale. «Che» osserva Augé «chiude qualcosa per sempre. Impossibile immaginare un seguito di Casablanca». Lui ha un debole soprattutto per le stazioni ferroviarie: «Posti che appagano il nostro bisogno di tristezza e bellezza. Certo non fanno da scenario soltanto a dolorosi distacchi. Ma, alla fine, è la tristezza a farla da padrona. Sono tutte quelle separazioni anonime, quei microdrammi, quei microtraumi a strutturare l'identità delle stazioni».
Godard ha detta. «II cinema fabbrica ricordi. La televisione soltanto oblio». Augé condivide. Ma senza ruzzolare nella nostalgia: «Anche se lo facciamo ancora, andare a vedere un film in sala è un'esperienza superata. Archeologia. Con le immagini non abbiamo più un rapporto liturgico: le consumiamo. II vecchio spettatore era un individuo "sotto vuoto", isolato nel buio. Che, per un'ora e mezza, si tuffava nella vicenda e nelle emozioni di un personaggio- tra le arti, il cinema è quella che meglio ha saputo rappresentare la solitudine. Oggi, il film è un'esperienza più contaminata, mediata, condivisa. Con nuovi rituali tutti da indagare». II cinema è morto: ce l'hanno ripetuto tante di quelle volte da farci dimenticare che era vero. Elaborato il lutto, il lavoro dell'antropologo riparte da qui.
Da Il Venerdì di Repubblica, 5 settembre 2008

di Marco Cicala, 5 settembre 2008

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