The Big Spook War

Roberto Nepoti

Chi poteva Immaginare gli “yokai”, demoni del folklore giapponese ereditati dal cinema e dai fumetti, in un racconto di formazione fatto (anche) per i bambini? Cosa non meno inaspettata è che ci abbia pensato Miike Takashi, regista-cult finora noto per scene raccapriccianti in cui si troncano gli arti a colpi di sega. Il suo fuori concorso Yokai dai-senso (La grande guerra dei coboldi) è un “Mago di Oz” in versione Manga, dove uno scolaretto di nove anni dalla bellezza commovente si trova investito dell’impegnativo compito di salvare il mondo: nominato Cavaliere Kirin, paladino della giustizia e difensore della pace, Tadashi deve contrastare i piani di un demone generato da tutto il rancore delle cose “usate e abbandonate” dagli umani che, rottamate in un’immensa discarica, si animano diventando micidiali macchine guerriere. A fianco del bambino si schierano, invece, le creature fantastiche della tradizione (In particolare tre aiutanti, come nella più classica delle fiabe); così che l’allegoria è delle più trasparenti: la forza del passato contro l’oblio, perché buttare lo ieri equivale a negarsi il futuro.
Inizialmente pare che la storia si svolga su due diversi piani. Durante un’estate sonnolenta; Tadashi condivide il tempo col nonno smemorato; poi, nominato Cavaliere Kirin durante una festa popolare, entra gradualmente in un mondo fiabesco irto di pericoli e magie. Ma, per dirla col vecchio apologo, è il monaco che sogna la farfalla, o è la farfalla che sogna il monaco? Il genialoide Takashi, in altre parole, mischia le dimensioni fino a renderle indistinguibili, portandoci in visita guidata a una Tokyo dove si radunano migliaia di pittoresche creature da incubo mentre una specie di Gamera, mostro di proporzioni ciclopiche, minaccia di distruggerla. Affettuosamente dedicato a un pubblico ecumenico (di “innocenti e ingenui” dice il regista, ma al contempo di smaliziati cinefili), il film alza alto un grido di pace, e di civiltà ecologica, su cui i detrattori dimostri giapponesi & Co. dovrebbero fermarsi a riflettere.
Da La Repubblica 6 settembre 2005


di Roberto Nepoti,