Cous Cous

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Un film di Abdellatif Kechiche. Con Habib Boufares, Hafsia Herzi, Faridah Benkhetache, Abdelhamid Aktouche.
continua»
Titolo originale La Graine et le Mulet. Drammatico, durata 151 min. - Francia 2007. - Lucky Red uscita venerdì 11 gennaio 2008. MYMONETRO Cous Cous * * * - - valutazione media: 3,41 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Un fiIm sul cous cous. Quello di mio padre

di Arianna Finos Il Venerdì di Repubblica

Nelle sale la rivelazione dì Venezia, dei franco-tunisino Abdellatif Kechkbe. Un'ode al cibo e alla sua capacità di mettere intorno a un tavolo le persone. «È un omaggio» dice l'autore «alle vite terribili degli immigrati di prima generazione».
CRITICI FRANCESI lo hanno salutato come un capolavoro neorealista, la bibbia cinefila Cahiers du cinema gli ha tributato la copertina di dicembre, il pubblico è corso in massa facendone il caso cinematografico dell'anno. Cous Cous, piccolo film girato con pochi soldi e un cast di non professionisti dal franco tunisino Abdellatif Kechiche, è l'ultimo esempio della vitalità creativa dei registi immigrati di seconda generazione, linfa Atale per l'ormai esangue cinema europeo. All'ultima Mostra di Venezia, dov'era in concorso con il titolo originale Le grain e le mulet (la semola e il cefalo, ingredienti base del cous cous di pesce) il film ha vinto il premio speciale della giuria. Un po' poco, per quello che era stato il favorito di pubblico e critica.
Abdellatif Kechiche, regista di estrazione teatrale, due film alle spalle, Tutta colpa di Voltaire e La Schivata, a 43 anni ha deciso di celebrare suo padre. Era un immigrato tunisino in Francia, immigrato di prima generazione. Per far crescere il talento del figlio ha respirato vernici e ruggine ed è morto a sessant'anni. «È una generazione morta giovane, la sua. Quella dei padri che si sono cancellati nello sforzo quotidiano, affinché i loro figli avessero un posto nella società». Padri che chiedevano il permesso di soggiorno, mentre oggi i loro figli rivendicano il diritto alla coesistenza e alla differenza culturale.
Cous Cous è un film corale, un ritratto, quotidiano ed epico, di una famiglia d'origine magrebina a Senè, città portuale vicino a Marsiglia. Al centro del microcosmo matriarcale in cui sono zie, mogli, madri, nonne e figlie a tenere le fila ricucendo rancori e litigi, c'è il patriarca Silurane, operaio navale, licenziato dal cantiere perché ormai ha sessant'anni, costa troppo, ha acquisito troppi diritti. L'uomo decide allora di realizzare l'ultimo sogno, recuperare una nave in disarmo e trasformarla in un ristorante specializzato in cous cous. Con lui nella difficile impresa si schierano le sue due famiglie: quella dell'ex moglie abile cuoca e quella della nuova compagna albergatrice, la cui figliastra lo assisterà nell'odissea burocratica tra funzionari francesi blandamente razzisti.
Kechiche, è vero che a recitare in questo film, in origine, doveva essere suo padre?
«Sì. Ho concepito questo film più di vent'anni fa. Avrei voluto vi recitassero mio padre e la mia famiglia. Poi sono passati gli anni. Mio padre è morto, i miei fratelli hanno cambiato vita e ho abbandonato il progetto, perché girare nella mia Nizza mi avrebbe destato ricordi dolorosi. Poi, invece, la sceneggiatura è stata letta da un produttore e tutto è ripartito. Mi sono affidato prima ad un attore che purtroppo è morto poco prima delle riprese. Allora il destino, mi piace pensare così, mi ha portato ad un operaio, Habib Boufares, un vecchio amico di mio padre in lui ho ritrovato i gesti paterni, il suo modo di parlare, le espressioni nel viso segnato dalla fatica».
È un omaggio agli immigrati di prima generazione?
«Sì. In realtà non volevo solo raccontare Silmane come operaio o immigrato, ma come essere umano con le sue difficoltà, i suoi silenzi, i suoi fantasmi. Ma è vero che il tema centrale è i1 padre, i padri, questi padri emigrati, non solo di origine araba. A Nizza, ad esempio, c'è una grandissima comunità italiana. Oggi sono tutti molto francesi, ma negli anni cinquanta erano immigrati. Amici di mio padre, operai che erano stati i primi ad arrivare in Francia, lavoravano nell'edilizia. Il mio è un film su tutti quei padri che hanno dato tanto, la loro vita, per i figli. Quando mio padre è morto ho sentito ancora più il bisogno di parlare di questa generazione dimenticata, morta giovane per la fatica e l'amianto, le vernici tossiche e le troppe sigarette».
Ha detto che con questo film vuole difendere il diritto alla differenza.
«II diritto alla differenza da un punto di vista del l'identità culturale, ma anche il diritto alla somiglianza, perché i miei personaggi sono in fondo gente normale, che si trova in qualunque ambiente: gente che divorzia, tradisce, si lascia è solidale. Che ride, piange e si riunisce per mangiare. Sono cittadini francesi con origini diverse. E queste differenze sono, per me, una ricchezza piuttosto che un problema. Spero, mostrando questa ricchezza, di oppormi alla rappresentazione pericolosa e riduttiva che spesso viene data di questa comunità».
Perché tutto gira intorno al cous cous?
«Il cous cous era per me l'occasione di riunire tutti personaggi interno a un tavolo, mostrare i loro visi insieme, come in una foto di famiglia. Per me l'immagine del cibo in bocca è molto sensuale, bella. E un gesto, il mangiare, che va oltre il semplice fatto di masticare e nutrirsi: quando si mangia in famiglia c'è una energia, una forza incredibile intorno al tavolo».
Lei ha lavorato con attori non professionisti e in alcuni momenti il film sembra quasi un documentario.
«Il neorealismo è una lezione di cinema ben impressa nella mia mente. Penso a Ladri di biciclette. È vero che gli attori sono tutti non professionisti. Hanno lavorato intensamente prima del film, si sono messi completamente a disposizione, provato a lungo, preso perfino lezioni di danza per muoversi a proprio agio. Abbiamo trascorso mesi insieme, in cui ci siamo conosciuti. Si è creata un'intesa unica, credo questo si veda nel film».
Da Il Venerdì di Repubblica, 4 gennaio 2008

di Arianna Finos, 4 gennaio 2008

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