Leoni per agnelli

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Un film di Robert Redford. Con Robert Redford, Meryl Streep, Tom Cruise, Michael Peña.
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Titolo originale Lions for Lambs. Drammatico, durata 91 min. - USA 2007. - 20th Century Fox Italia uscita venerdì 21 dicembre 2007. MYMONETRO Leoni per agnelli * * * - - valutazione media: 3,09 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Cerco l’america che sa ancora indignarsi

di Paola Zanuttini Il Venerdì di Repubblica

Un appello genere Zio Sam, ma al contrario. Perché il democratico Robert Redford dice: l'informazione non ha coraggio, i giovani se ne fregano, qualsiasi dissenso è antipatriottico. E allora? E allora, intanto, lui fa un film sulla guerra come usava negli anni 70...
In un salone d'hotel tutto stucchi e tappeti, Robert Redford arriva asciutto e spaesato esattamente come il suo film, Leoni per agnelli, settima regia, perfettamente non in linea con il cinema di questi tempi. Un film teatrale, scarno, che si regge solo sui dialoghi e la bravura degli attori e propone una riflessione molto old fashioned: cos'è il rìschio, il coraggio, la responsabilità? Rispettando l'unità di tempo del teatro classico, la trama intreccia in un unico giorno tre vicende solo apparentemente personali: a Washington, Meryl Streep, giornalista televisiva in declino, fronteggia le lusinghe di Toni Cruise, senatore repubblicano molto falco, che le propone l'esclusiva sulla sua nuova e segreta offensiva al terrore in Afghanistan. A Los Angeles, Robert Redford, professore universitario dagli ideali appannati ma non spenti, cerca di recuperare all'impegno civile uno studente brillante quanto disincantato. In Afghanistan, due studenti colored del professore, che si sono appena arruolati perché vogliono fare qualcosa per il loro Paese (e per potersi pagare la retta dell'università), sperimentano a proprie spese la fallimentare strategia militare del senatore. Tutto chiaro: un americanissimo film anni Settanta sull'America del ventunesimo secolo, girato da un settantenne che sembra sempre più un cavaliere solitario. Ma una cosa è meno chiara: perché la giornalista si lacera sulla scelta di trasmettere o non trasmettere l'intervista? Non può dare la notizia commentandola criticamente? «Questo non è so lo un film sulla guerra, ma sul ruolo dei media, dell'istruzione, della politica e dei giovani negli Stati Uniti. Per quel che riguarda i inedia la situazione è particolarmente buia di questi tempi: buona parte
dell'informazione è controllata dalle corporation, che di analisi e critiche non vogliono sentir parlare. Vogliono solo i fatti e il fatto in questo caso è che ti hanno dato un'intervistaesclusiva, tu riferisci quello che ti è stato detto. E basta».
In America non si possono prendere le distanze dall'intervistato?
«Si potrebbe, ma l'informazione corre troppo in fretta, ai direttori interessa solo il sound bite, l'estratto brevissimo e sensazionalista del servizio. Le analisi approfondite le puoi fare sul New Yorker, dove un inchiestista come Seymour Hersh ha svelato gli orrori di Abu Ghraib, ma la nostra giornalista è intrappolata in un network che pensa agli indici d'ascolto, alla concorrenza, al fatturato. Non sono più i tempi del Watergate e di Tutti gli uomini del presidente. In America, i giornalisti non mi intervistano sui contenuti politici dei miei film, preferiscono sapere se mi sono rifatto i denti».
Questo è il primo film della risorta United Artists, storici e decaduti studios di cui Tom Cruise ha preso il timone. Cambierà qualcosa, a Hollywood, questa rinascita?
«Non ho la minima idea se voglia rivitalizzarla come ai tempi di Charlie Chaplin, Mary Pickford, Douglas Fairbanks e David Griffith». Che, fondandola, lanciarono una sfida allo strapotere delle major.
«Beh, i tempi cambiano. Sono già sorpreso che in questo clima si sia potuto fare un film con tutti quei dialoghi e che cerca di capire cosa ci sta succedendo. Deve essere merito delle star che ci lavorano, soprattutto di Toni Cruise e dei suoi rapporti di affari con gli studios. Vuole avanzare nella carriera, ma, onestamente, non so dove voglia arrivare».
Lei interpreta un professore che cerca di scuotere uno studente dalla sua indifferenza, ma lei com'era a quell'età?
«Molto simile, solo che io ero povero e cresciuto in un pessimo sistema scolastico. Ero sempre distratto, mi piaceva solo lo sport. E l'arte, che nel 1957 venni a studiare a Parigi e Firenze. A Parigi cambiò tutto: venivo da una famiglia di democratici, ma la politicizzazione degli studenti francesi era tutta un'altra cosa, erano arrabbiatissimi per l'Algeria, ma anche inferociti con gli Stati Uniti che non erano intervenuti a fianco di Francia e Inghilterra nella crisi di Suez. E se la prendevano con me che non ne sapevo niente. Ci rimanevo male: da piccolo avevo visto i film con gli americani che liberavano Parigi festeggiati dalle folle e invece venivo trattato da deficiente. Allora cominciai a leggere, discutere, chiedere. Per fortuna in Italia gli americani erano molto più benvisti. Mi chiesi: "Ma perché non ci sono venuto prima?"».
In quegli anni, un ragazzo americano in Europa capiva che il suo Paese era così potente?
«Sì, istintivamente. Perché avevamo vinto la guerra, non eravamo mai stati attaccati in patria, eravamo ricchi e al sicuro».
Questo è l'incanto spezzato dall'11 settembre, il grande trauma. Nel film la giornalista dice: «Abbiamo dato fiducia al presidente, siamo rimasti uniti per combattere il nemico, ma il presidente ci ha mentito». Gli americani, però, sapevano chi era Bush: la fiducia non è stata troppo lunga e incondizionata?
«Molta gente, io compreso, sapeva che Bush aveva scippatola presidenza ad Al Gore, quindi non godeva di grande credito, ma ci sono alcuni motivi che spiegano perché non c'è stata un'opposizione decisa alle sue imprese militari. Il primo è la paura, lo shock, la confusione: nei media, anche chi non era tenero con il presidente era sconvolto per non aver saputo prevedere un evento prevedibile come un attacco terroristico a casa nostra. Poi, per com'era strutturato il potere politico, non c'era spazio per esprimere un reale dissenso, Bush parlava alla nazione ogni volta che voleva, controllava tutto. E se c'era uno che si alzava chiedendo: "Scusate, ma perché invece di attaccare l'Afghanistan stiamo andando in Iraq?" veniva accusato si antipatriottismo. E, infine, c'è il problema dei giovani».
Indifferenti, cinici, disillusi.
«Troppo distratti da Internet e altri giochetti, o concentrati ad aprire aziendine elettroniche e comunque schifati dalla politica, astensionisti e ripiegati sui loro interessi personali. Ma la vera questione è che non c'è la leva obbligatoria. Ai tempi del Vietnam c'era, e fu soprattutto questo a scatenare la protesta giovanile. Oggi il governo è molto cauto a riproporla, preferisce assoldare i contractors piuttosto che trovarsi le barricate nelle piazze».
A novembre Bush traslocherà: lei su chi punta?
«Su nessuno. E non ho neanche idea di chi vincerà. Mi interessa molto di più la base, il cambiamento dovrebbe arrivare da lì. Ma sono indignato per come è condotta, sui due fronti, la campagna elettorale. È iniziata prestissimo, eppure la maggioranza dei media invece di parlare dei programmi racconta solo quanti soldi hanno speso i candidati, che sono così compromessi dal bisogno di vincere da non farci capire cosa pensano veramente. Nel 1972 girai Il candidato, un film che svelava tutta la fuffa, le mistificazioni e le operazioni cosmetiche dietro alle elezioni. Oggi non è cambiato nulla. Anzi, sì. In peggio».
LA GENESI DI LEONI PER AGNELLI
Leoni per agnelli nasce da una crisi di coscienza. A notte fonda, lo sceneggiatore Matthew Carnahan stava guardando in tv, senza troppa partecipazione, un dolente servizio giornalistico sull'Iraq: ha cambiato canale ed è passato allo sport. Poi si è interrogato e colpevolizzato su tanta scellerata indifferenza e si è messo a scrivere un testo teatrale, che però è rapidamente diventato una sceneggiatura. Quando la consegnò alla sua agente, Carnahan buttò lì che magari sarebbe piaciuta a Robert Redford. Le cose sono andate così. Se si escludono le scene di guerra, girate in una California travestita da Afghanistan, leoni per agnelli è un film girato in interni. AI di là delle prove d'attore di Meryl Streep, Tom Cruise e Redford, interprete e regista, c'è una scena madre universalmente riconosciuta come tale: quella in cui due allievi svantaggiati dei democratico prof Redford mostrano il foglio di arruolamento ai compagni cinici e disincantati. AI prof gli prende un colpo, ma l'impegno è l'impegno.
Da Il Venerdì di Repubblica, 7 dicembre 2007

di Paola Zanuttini, 7 dicembre 2007

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