Roberto Nepoti
La Repubblica
Un altro horror coreano, tratto da una leggenda già portata ripetutamente sullo schermo (e che, a sua volta, sta per essere oggetto di un remake americano con l'etichetta DreamWorks); non l'ennesimo, però, poiché il film di Kim Jee-Won possiede peculiarità tutte sue. Che ne fanno un raffinato strumento di tortura, basato sulla peggiore delle paure: la paura di ciò che non si vede.
Di ritorno a casa dopo una lunga degenza seguita al suicidio materno due ragazzine, Su-Mi e Su-Yeon, convivono con un padre apatico e con una matrigna malvagia come quelle delle fiabe. Circondata da uno scenario bucolico, la casa è un museo degli orrori che alimenta i peggiori incubi. Basta poco per partorire mostri: scricchiolii di porte, ombre, bisbigli sommessi generano terrificanti immagini; come una creatura sanguinante, il volto coperto da lunghi capelli neri, che gratta il parquet con le unghie.
Implacabile, Two sisters lavora i nervi dello spettatore instaurando un'atmosfera malsana e perfida, dove i languori, le pause calcolate e gli incidenti insignificanti sono più difficili, a reggersi, di qualsiasi epifania mostruosa.
Qui e là il film incespica in pasticetti di sceneggiatura; forse, ricorre un po' troppo largamente al repertorio dei precedenti: gli incubi di "The Ring", la sceneggiatura a cassetti sul genere di "Il sesto senso", e chi è più cinefilo più ne metta. Però il sadismo che pervade le immagini è tutto orientale e le interpretazioni travalicano largamente la routine del genere.
Da la Repubblica, 17 settembre 2004
di Roberto Nepoti, 17 settembre 2004