Lei mi odia

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Un film di Spike Lee. Con Anthony Mackie, Kerry Washington, Ellen Barkin, Monica Bellucci, Jim Brown.
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Titolo originale She Hate Me. Commedia drammatica, durata 138 min. - USA 2004. uscita venerdì 22 ottobre 2004. MYMONETRO Lei mi odia * 1/2 - - - valutazione media: 1,75 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Acquista »
   
   
   

Lorenzo Soria

L'Espresso

Con18 film in altrettanti anni di carriera, Spike Lee non ha mai ceduto, non si è mai fatto tentare dall’idea di fare l’ennesima storia ispirata a qualche improbabile eroe dei fumetti e prodotta con il solo fine di generare miliardi di dollari più la percentuale sulla vendita di annessi cappellini e videogames. Da Do the Right Thing a Jungle Fever e poi Malcolm X, ha sempre usato la sua cinepresa per affrontare senza troppa attenzione alla correttezza politica temi complessi e controversi, dalla vita nei ghetti urbani alle relazioni inter-razziali alle iniquità del suo paese. Con 24th Hour, il suo penultimo film, era riuscito anche a cantare una ode alla sua New York ancora devastata dalle ferite dell’11 settembre. Ma con She Hate Me, fuori concorso a Venezia dove il più importante regista afro-americano siederà anche nella giuria, Lee ha rotto con il suo stesso passato. Non è che arrivato a 47 anni è andato ad aggiungersi ai suoi tanti colleghi che hanno finito per vendere l’anima al diavolo hollywoodiano. Girato in super 16 e con un budget di 9 milioni di dollari, She Ha-te Me non è Catwoman.
La questione è un’altra ed è che Lee ha deciso di mettere sotto l’ombrellone di un solo titolo quattro film, forse cinque. C’è la cupidigia e la pratica dell’insider trading che corrode i piani alti dell’America della finanza e delle Borse. C’è la piaga dell’Aids. C’è un ritorno al Watergate, lo scandalo che ha portato alla caduta di Richard Nixon. Ci sono anche lesbiche di ogni colore che comprano ì favori sessuali di un uomo per inseguire il sogno della maternità. Va aggiunto che l’uomo in questione è un afro-americano che prima di accoppiarsi mette bene in evidenza la sua dotazione naturale e che ogni volta produce inevitabilmente gemiti dal suono molto etero. E come non parlare di quel finale così tanto alla Frank Capra, dove tutti si vogliono bene? Insomma, il numero di film dentro il film si moltiplica al punto che molti critici sono arrivati a chiedersi se Lee, accusato spesso di un tono un p0’ troppo didattico, questa volta non sia andato un po’ oltre e abbia perso la testa. «Lo so, il film è un pasticcio», ammette il regista: «Ma, se c’è pasticcio è calcolato. I miei film riflettono i tempi confusi in cui viviamo, un mondo estremamente caotico e veloce. E ho appositamente voluto mettere dentro il più possibile». L’eroe, se così lo si può chiamare, di She Hate Me è Jack Armstrong, interpretato da Anthony Mackie. Jack ha buone ragioni per vedersi come l’immagine vivente dell’American Dream: un nero con laurea in business ad Harvard che, a 30 anni, è vice-presidente di una casa farmaceutica che si appresta a lanciare un vaccino contro l’Aids. Peccato che le autorità di controllo abbiano appena negato la loro approvazione e che i suoi capi vogliano tenere la notizia nascosta almeno sino a che si sono disfatti dei loro pacchi di azioni. Jack, uno perbene, decide di parlare. Si ritrova licenziato, col suo conto bancario bloccato e, a questo punto, si pensa che sarà un film alla The Insider, con le medicine al posto del tabacco e trasportato nell’era post-Enron. Invece arriva a casa, risponde al campanello e chi c’è? La sua ex girl-friend, Fatima (Kerry Washington), assieme alla sua amante, una lesbica latina chiamata Alex (Dania Ramirez), che con grande nonchalance chiedono a Jack di metterle incinte. Che cosa? Jack è ancora stordito dalla proposta quando le due gli mettono sul tavolo del lussuoso appartamento (che sta per perdere) un pacco di dollari. Confuso, dilaniato dal senso di colpa, accetta. E adesso Fatima, restata incinta, bussa di nuovo alla porta e si presenta con un gruppazzo di altre amiche, lesbiche e stufe del processo di adozione e delle banche del seme, e pronte ad accogliere lo sperma di Jack nella speranza di un loro bambino. L’arrangiamento è semplice, 10 mila dollari per inseminazione e 10 per cento per la ex. E adesso nel suo covo si allineano donne di ogni genere: bianche e nere, francesi e asiatiche, puttane e intellettuali, fisico da modella e da lanciatrice del disco. Il nostro è esausto e dice basta. Ma ecco, arriva Monica Bellucci. È la figlia di un boss mafioso che è poi un John Turturro che imita il Marlon Brando de Il padrino e che per un po’ sembra portare il film in una nuova direzione. E lui cede un’altra volta, anzi colpisce doppio, generando due gemelli.
Come i suoi capi che ha denunciato, anche Jack perde il suo compasso morale e cede insomma alla tentazione del denaro facile. Ma adesso entra in scena Frank Wills, la guardia che scoprì i cospiratori entrati al Watergate per trafugare documenti del partito democratico. «Wills è un grande eroe americano», aggiunge Lee: «Ha cambiato la storia, ma è morto senza un centesimo e dimenticato da tutti, mentre i cattivi sono diventati ricchi e famosi». Wills aiuta anche a portarci indietro di trent’anni quando Hollywood non aveva paura dì andare vicino alla politica, sfornando film come Chinatown, La conversazione e Tutti gli uomini del presìdente. Fahrenheit 9/11, l’esplosivo documentario di Michael Moore, e film come The Manchurian Candidate, che andrà anch’esso a Venezia e che è centrato attorno a una sinistra multinazionale che assomiglia molto alla Halliburton di Dick Cheney, suggeriscono che quei giorni di ansia e di fermento stanno tornando nel mondo del cinema americano e Lee è ben felice di trovarsi a far parte di questa ondata. «Gran parte dell’intrattenimento di massa è un oppiaceo, un qualcosa creato per generare un senso di stupore», sostiene: «L’arte vera può scuoterci, film come Fronte del Porto o La battaglia d’Algeri parlano di persone che vogliono cambiare la loro vita. E questo è importante. Perché il cinema deve scatenarti la voglia di fare qualcosa una volta che lasci la sala».
Ma ecco, esce di scena l’eroe del Watergate e ricompare Jack, il cui letto continua ad attrarre file di donne. E per molti maschi, inevitabilmente, quel qualcosa sarà non una chiamata alle armi in vista delle elezioni presidenziali di novembre, ma un’occasione per rivivere una loro tipica fantasia sessuale. Perché Jack, che in un momento di rabbia si lascia scappare un molto poco corretto «non credo in questo gene gay», riesce prodigiosamente a produrre estasi sessuali per tutte le aspiranti madri. Ogni accoppiamento è accompagnato da una serie di libidinose vignette che ricordano il Woody Allen di Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso. Insomma, dategli l’uomo giusto e anche la più dura delle lesbiche può riscoprire i piaceri dell’eterosessualità. Spike Lee può anche permettersi di parlare liberamente di un altro stereotipo. «C’è sempre stato questo mito sulla superpotenza sessuale del maschio africano», commenta Lee, che in una scena forza il protagonista a spogliarsi così le scettiche, prima di comprare, possono esaminare la mercanzia, «e noi neri ci giochiamo sopra». Quindi ecco, in un album di famiglia singolare, tutte queste mamme raggianti di felicità con in braccio i loro adorabili e molto muli-etnici mini-Jack.
Troverà la sua redenzione morale accettando la paternità di tutti i pargolettì? Non lo sappiamo, perché subito dopo Jack è di nuovo nella casa del peccato, in cui lo vediamo prima che bacia Fatima col suo bimbo e poi, dopo una pausa, anche Alex (con relativo bebé in braccio) che adesso, dopo averlo visto come un distante donatore di sperma, riesce a trovare un posto nel suo cuore anche per lui. Un triangolo sentimentale che forse non sopravviverà a una notte, ma che Lee vede come la nuova struttura familiare. «I giorni in cui pensavamo che la famiglia americana è fatta di un padre, una madre, due bambini e mezzo, un garage, un gatto e un cane sono finiti», aggiunge. E questo è un altro film ancora. O, forse, più di uno...
Da L’Espresso, 19 agosto 2004


di Lorenzo Soria, 19 agosto 2004

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