La ragazza con l'orecchino di perla

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Un film di Peter Webber. Con Scarlett Johansson, Colin Firth, Tom Wilkinson, Judy Parfitt, Cillian Murphy.
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Titolo originale Girl with a pearl earring. Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 95 min. - Gran Bretagna, Lussemburgo 2003. MYMONETRO La ragazza con l'orecchino di perla * * * - - valutazione media: 3,19 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Acquista »
   
   
   

Lorenzo Soria

L'Espresso

È fatta. Il mistero s’è rotto. L’aura dei più enigmatico quadro della pittura olandese si è incrinata. L’inafferrabile “Gioconda del nord” (una Madonna, una metafora dell’attimo fuggente, la figlia dei pittore?) ha ora nome e cognome. Si chiama Griet, di mestiere fa la fantesca e d’ora in avanti avrà il volto di Scarlett Johansson (che peraltro le somiglia come una goccia d’acqua) ed è ragazza di carattere capace di far innamorare Johannes Vermeer. Lo sapevamo già, grazie al best seller di Tracy Chevalier La ragazza dall’orecchino di perla che ha venduto nel mondo milioni e milioni di copie (oltre 400 mila solo in Italia, editore Neri Pozza). Ma quella fanta-biografia lasciava ancora spazio all’immaginazione e il quadro era l’unico riferimento visivo fra turbolenze e dispetti di moglie gelosa, suocera cattiva e mercante sporcaccione. A congelare tutto in una visione perfetta delia Deift metà Seicento, arriva ora l’omonimo film (in sala dal 20 febbraio), opera prima di Peter Webber, talmente accurata da aver conquistato ben tre nomination all’Oscar: fotografia, scenografia, costumi.
Meritatissime: la ricostruzione sfiora la maniacalità fiamminga. Quella mitica rifrazione di luce, che in Olanda non c’è più causa trasformazione dei canali in campi coltivati, è magicamente ricostruita con filtri e specchi. I costumi, gli oggetti e i vetri piombati delle finestre sono restituiti nell’intimo della loro materia. E non c’è solo come fonte d’ispirazione la pittura di Vermeer, presa pari pari nelle scene d’interni dai pavimenti a scacchettoni alle finestre che si aprono sempre sul lato sinistro dell’inquadratura. C’è anche Jan Steen con i suoi tinelli disordinati e le facce dei ragazzini dispettosi, ci sono paesaggisti e pittori di natura morta dell’epoca, c’è tutto lo stile olandese borghese. Ci sono insomma, in un’ora e 39 minuti di proiezione, almeno sette sale dei Rijks Museum. In tanta filologia, unica eccezione è proprio Vermeer: un attonito Colin Firth con la parrucca, che sembra sempre il fidanzato buono di Bridget Jones a Carnevale.
Ma a mettersi nei panni di artisti geniali si rischia la carriera persino se si è dei grandi attori come Anthony Hopkins. Il suo legnoso Picasso british (Surviving Picasso) grida ancora vendetta. Meglio il sanguigno Dépardieu nei panni dell’ancor più sanguigno Rodin (Camille Claudel) o l’algido David Bowie in quelli dell’autistico Warhol (Basquiat). Forse Andy Garcia sarà un interessante Modigliani e Joe Mantegna potrà restituirci un credibile Pontormo (anche perché di persona lo conosciamo meno). Usciranno entrambi a maggio, ultimi figli di un filone tanto vasto che i listini delle case di produzione da tempo sembrano i “Maestri dei colore” Fabbri: Frida Kahlo e Pollock, Basquiat e Van Gogh, Bacon e Caravaggio, Artemisia e Toulouse Lautrec. Più i nuovi cantieri hollywoodiani: un Goya diretto da Milos Forman con il volto di Gary Oldman; un autoriale William Blake per la regia di una delle più sofisticate artiste inglesi Sam Taylor Wood; un Andy Warhol con grandi zigomi e grande bocca di Willem Dafoe e l’attesissimo progetto di raccontare vita e fiori di Georgia O’Keefe che prende corpo negli studi Paramount grazie alla determinazione di Michelle Pfeiffer e del produttore Gary Lucchesi.
Profetico fu Walter Benjamin. L’aura di un’opera unica e irripetibile è ormai poca cosa rispetto al box office, La vita degli artisti (meglio se strampalati e maledetti come da copione) funziona come quella dei gladiatori, dei pirati e degli ufficiali di marina tra onde oceaniche. Anche meglio. Sensibili, capaci di grandi passioni, dominati dall’ossessione per il bello, circondati da donne sempre splendide eppure autodistruttivi, gli artisti nella nostra epoca neoromantica sono tornati a essere angeli-eroi. Modigliani, per esempio, dello scozzese Mick Davis: Andy Garcia è ubriaco di alcol e passione fin dalle prime inquadrature del film dove danza come una cometa sui tavoli di un ristorante. Poi dal folgorante inizio bohémien, con un pizzico di fiction lo si immagina corroso dalla rivalità con un Picasso al culmine del successo. E intorno alle loro gigantesche figure si muovono gli altri protagonisti dell’avanguardia parigina. Tutti estremi, apocalittici, border line: Cocteau, Riveira, Utrillo, Gertrude Stein, Soutine più Udo Kier nei panni di Max Jacob. La via italiana all’art-bio-pic è aperta. «Finora questi film non hanno avuto da noi incassi esaltanti, ma le loro potenzialità sono in netta crescita. Basta guardare al successo di pubblico di musei e grandi mostre», afferma Luciano Sovena dell’Istituto Luce che ha prodotto Modigliani.
Anche Pontormo di Giovanni Fago punta all’effetto grande mostra. Non a caso sarà presentato in serata di gala a Firenze. E si affida alla ricostruzione delle tempeste emotive nella città tardo rinascimentale, con eretici e inquisitori (grande ritorno di Laurent Terzieff), presunte streghe (Galatea Ranzi) e pittori e scultori in crisi d’identità artistica e religiosa. Tutti tra i dilemmi di Riforma e Controriforma e con in più il pesante fardello della lezione michelangiolesca.
Sposare il linguaggio pittorico e quello artistico è operazione complessa. « Sono due medium diversi: il film deve trattenere lungo ben due ore quella stessa magia che il quadro è in grado di comunicare per un attimo. E in più fa i conti con un team creativo articolato, costretto a continui compromessi, e non con un lavoro unico e solitario. Portare un quadro sullo schermo è per definizione un tradimento», dice Robert Erbert critico del “Chicago Sunday Times” che salva pochi titoli:Il Caravaggio di jarman, il Pollock di Harris e ora la Ragazza dall’orecchino di perla, « perché è un film pacato e silenzioso. Un film sulle cose non dette, sulle labbra non baciate, su una rivelazione che deve venire. Esattamente come i quadri di Vermeer».
Ma che il trend sia ormai esploso lo dimostrano anche i sempre più numerosi artisti che vogliono gestire l’operazione in prima persona. Una schiera: da Schnabel a Robert Longo, da Sam Taylor Wood a Tracey Emin che sta lavorando a un film al femminile tosto come tutti i suoi lavori. Non c’è da stupirsi: in un’epoca in cui l’arte ha inglobato foto e video, il richiamo dei grande set e della vera produzione cinematografia è irresistibile per una generazione stufa dei film sperimentali a basso budget.
«Sono i risultati più interessanti», dice Marco Muller, ex direttore di grandi festival e ora produttore della Downtown Pictures: «Schnabel ha alle spalle la Pop Culture e il suo Basquiat si salva perché è una biografia che sa di fumetto. Ma il solo film che è riuscito ad afferrare il processo creativo è Le Mystère Picasso di Clouzot, dove è Picasso stesso a dipingere su un vetro e l’atto è documentato nel suo farsi. Tutte le volte invece che si cerca di entrare nella calotta cranica di un’artista di genio si è destinati al museo delle cere animato o al massimo all’effetto visita guidata. E io preferisco la visita al Louvre di Bugs Bunny e Duffy Duck in Looney Tunes Back in Action di Joe Dante a quella di Godard in Band à part.
Da L’Espresso, 12 febbraio 2004


di Lorenzo Soria, 12 febbraio 2004

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