Il signore degli anelli - Il ritorno del re

Alberto Dentice

Il ritorno del Re, terza e ultima parte dell’audace riduzione cinematografica di Peter Jackson dal Signore degli anelli di J.R.R. Tolkien, è un film che gli allibratori danno come un successo sicuro. Di certo non deluderà chi ha seguito i due precedenti. Promette nuove e più grandiose battaglie, emozioni più intime e un contatto diretto con l’universo emotivo dei personaggi. La battaglia che concludeva Le due torri (la seconda parte della trilogia) era quasi una scaramuccia se paragonata
a quella per la Terra di mezzo, al centro del nuovo film: attori, cavalli, primi piani e imprevedibili movimenti della macchina da presa fanno di questa nuova epopea qualcosa con cui il cinema d’azione dovrà confrontarsi a lungo. Ma il film lancia anche un nuovo protagonista: il titolo si riferisce all’ascesa al trono di Aragorn, interpretato magnificamente da Viggo Mortensen, sicuramente il più complesso e moderno personaggio della trilogia.
“Per tutta la vita Aragorn ha cercato di fuggire dalle sue responsabilità, osservando impotente il declino del regno di Gondoi che gli appartiene. Ma quando il malvagio Sauron sta per riuscire a sterminare tutto il suo popolo, Aragorn è costretto a scendere in campo. Il suo problema è con che spirito assumere la carica di re, in un momento di estremo pericolo”, spiega Mortensen. Mortensen convince e commuove proprio nella misura in cui ci fa partecipi dei suo conflitto interiore. L’arco drammatico dei personaggio va dalla passività pavida all’eroismo più nobile. Durante mesi e mesi di riprese, tra gli attori si è formato un legame di profonda amicizia: “Viggo è un perfezionista: pignolo, meticoloso e sincero”, racconta Elijah Wood, il Frodo della trilogia: “Per mesi di seguito era sempre nella parte. Anche nei momenti di svago, sulla spiaggia o al ristorante, aveva con sé la sua spada”.
Mortensen, sguardo intenso, voce pacata ma decisa, è un’anomalia nel mondo del cinema. Ha le capacità e lo status della sta, ma più che un attore è un artista i cui interessi spaziano dalla poesia alle arti visive fino a una intransigente militanza politica ed ecologica: alla presentazione del film sfoggia una bandierina dell’Onu, in opposizione alla politica bellica di Bush. L’evoluzione del suo personaggio, da comprimario a protagonista, all’interno della trilogia ne sottolinea l’estrema duttilità. Viggo è un attore completo, voglioso di incarnare un personaggio piuttosto che sovrapporgli una sua immagine fissa. La sua capacità camaleontica è tale da portarlo da film a film, da Carlito’s Way a “Delitto perfetto”, a una trasformazione pressoché totale.
E fuori dal set che la distanza tra Viggo è l’idea stereotipata della star si fa più tangibile. La sua conversazione, sempre colta e autoironica, spazia con naturalezza da Kant a Chomsky, dalla poesia danese all’ultima garage band di Los Angeles. Ama camminare scalzo, leggere, fotografare e passare ore in solitudine. Quando non recita riesce a portare avanti con successo carriere parallele come pittore, fotografo e poeta. Qualcosa di molto diverso da un attore con degli hobby. “Scrivere una poesia, creare un’immagine o dare vita a un personaggio sono aspetti diversi dello stesso processo creativo”, ci spiega: “L’unica differenza è che nel cinema, come attore, non ho il Controllo finale dell’opera”.
Da L’Espresso, 27 novembre 2003


di Alberto Dentice, 27 novembre 2003