Quando Dino Risi cominciò a occuparsi di cinema, era laureando o già laureato in medicina. Cominciò come mio assistente, insieme a Lattuada e a De Caro, nella lavorazione di Piccolo mondo antico. Dino Risi possedeva tutte le qualità per avere successo, sia come medico sia come regista. Ma già allora, nella sua giovanile presenza, non meno di oggi, nel suo raggiunto successo e nel talento indiscutibile e sempre più sicuro, c'era qualche cosa di inerte, di muto, di misterioso.
Era un ragazzo alto, snello, di pelle olivastra e dai capelli scuri e naturalmente ondulati e lucidi, o piuttosto ricciuti con mollezza: aveva occhi grandi, marroni, lievissimamente sporgenti, dolcissimi: dolcissimo, anche, era il suo sorriso, specialmente quando si rivolgeva a una bella ragazza: le mani erano nervose e delicate: e parlava invariabilmente sottovoce, peggio di Pellini: e conservava, almeno in apparenza, una imperturbabile serenità, una perfetta gentilezza di modi.
Ora, i miei difetti più gravi (gravissimi poi per un regista mentre lavora) erano proprio quelli di parlar forte e di non sembrare calmo: calmo lo ero, ma soltanto dentro me stesso: al contrario, dunque, di Risi. Per questo la calma di Risi e, ancora di più, il suo ostinato parlar sottovoce parevano fatti apposta per irritarmi e addirittura per esasperarmi. Erano qualità che gli invidiavo troppo. Gliele invidiavo specialmente nei rapporti con le ragazze. Niente indispone le ragazze come un bercione irrequieto. Tuttavia, Risi non m'irritava: neanche un po'. Se udivo il suo sottile sussurro, mi bastava cercare con gli occhi il suo sguardo: vi vedevo tanta semplice bontà e simpatia, che mi arrendevo subito. Bino Risi apparteneva, certo, ai «sussurranti», razza costituzionalmente avversaria di quella dei «bercianti», cioè della mia: ma non era, o non era soltanto, un astuto: era un uomo umano e «qui avait quelque chose dans le ventre».
Da una decina d'anni a questa parte, Risi ha dato la prova di saperci fare. I suoi film più riusciti, li conosciamo e li sappiamo a memoria. Ma mancherei verso lui di quella sincerità, che gli devo proprio perché gli voglio bene, se nascondessi quel senso di strana insoddisfazione che tutte le pellicole da lui dirette, anche le migliori, mi hanno sempre lasciato. Insoddisfazione strana: ogni volta, ci pensavo e ripensavo senza riuscire a oggettivarla criticamente. Ripercorrendo mentalmente le sequenze del film e il modo che Risi ha di girare, così vivo, morbido, pronto, aderente all'argomento, tutto mi pareva perfetto: allo stesso tempo, tutto mi pareva un po' grigio e un po' inutile, tanto da farmi desiderare qualche grosso errore, qualche madornale difetto, ma anche il compenso di qualche straordinaria bellezza: il cosiddetto pugno nello stomaco, che Bino non da mai e si guarda bene dal dare!
Sono andato, l'altra sera, a vedere Il gaucho, l'ultimo suo film: proprio con l'intenzione di riuscire a scoprire la chiave del mistero. E devo dire, sono stato accontentato, perché Il gaucho è, tra tutti i benissimo girati film di Risi, forse il meglio girato di tutti: ma, anche, il meno soddisfacente. Badate, il caso è bizzarro: e vale la pena di studiarlo. Si vede il film senza un istante di noia, si ammira l'assoluta vivezza della ricostruzione ambientale italo-argentina (il mondo dei nostri emigrati là, ricchi e poveri, antichi e recenti), si gode l'altrettanto assoluta esattezza della ricostruzione verbale romanesco-cinematografara (la piccola troupe dei cineasti che vanno in Argentina per un festival), si crede ai personaggi, si crede alla storia, si sorride, si ride, perfino ci si commuove. Con tutto questo, quando si esce dalla proiezione, ci si sente così depressi che viene voglia di piangere, e si ha l'impressione di aver buttato via la sera. Personalmente, uscendo dall'Apollo, ho attraversato piazza Liberty con il cuore stretto. Avrei fatto non so che cosa per liberarmi da quell'uggia. Ho pensato, allora, che l'unico rimedio era di approfittare proprio dello stato d'animo, in cui lo sco-raggiante Gaucho mi aveva gettato, per cercare di indovinare Bino Risi.
Ecco, mi sono detto, cominciamo dalla prima cosa che salta agli occhi. Questo film è vero. Veri gli ambienti, quello della stanza d'albergo, quello della villa del miliardario, quello del porto sul fiume e delle case semidiroccate dove si parla genovese: veri gli ambienti, tutti nel loro squallore, nella loro volgarità,
nel loro cattivo gusto, nella loro ricchezza pacchiana, o nella loro disperata povertà. E veri i personaggi, verissimi: la diva provinciale al tramonto (interpretata con perfezione ineguagliabile dalla Pampanini, e non sai se ringraziare lo spirito di lei, o una segreta e vellutata malignità di Risi); e le due attricette sciocche e vanesie; e Gassman cinico, faccendiere e qualunquista; e Nazzari, nella parte del grande industriale italo-argentino, vero come un documentario; e la moglie di lui... L'unico che non è all'altezza, guarda caso, è l'attore che, en prìncipe, dovrebbe essere il più bravo di tutti: Manfredi, che, per la prima volta, lui di solito così contenuto e quasi spento, fa troppo. Anche questo, dentro il mistero di Risi, costituisce un altro piccolo mistero. Chissà che non serva a spiegarlo.
Ma dunque, se tutto è così vero, perché il film deprime? Forse proprio perché è vero? Abbiamo infiniti esempi, in tutte le arti, di opere vere e anche tristissime, ma insieme esaltanti. Evidentemente, non basta fare vero. Occorre che il regista, mentre fa vero, faccia anche (rendendosene conto o anche istintivamente, senza rendersene conto) un vero profondo, un vero significativo di una verità più duratura e più universale dì quella che i fatti minuti, per quanto accuratamente ed esattamente ricreati, suggeriscono. D'accordo, i personaggi, gli ambienti, gli episodi che Dino Risi racconta, nel Gaucho e così negli altri suoi film, sono personaggi ambienti episodi triti, banali, squallidi: verissimi. Ma non c'è, nel regista, nonostante
tutta la sua bravura, abbastanza coscienza, o abbastanza dolore, o abbastanza indignazione, o abbastanza divertimento per questo tritume, per questa banalità, per questo squallore. Sembra che l'autore gentilmente si inchini verso la realtà e la accetti, supinamente e, quello che più conta, senza neanche accorgersi di accettarla. Lui la rifa com'è, e basta: gli basta. Ma pensate un momento che cosa succederebbe se, di colpo, Dino Risi, si accorgesse? Tutto acquisterebbe un'improvvisa sonorità, come l'inserimento di un pedale: tutto s'inquadrerebbe in una fulminea prospettiva, come le fotografie doppie quando si guardano nell'apposito apparecchio. Parlo, naturalmente, al figurato. Perché, in pratica, forse, si tratta proprio del contrario. Dino è sempre preciso, chiaro, definito. Dovrebbe, forse, sfumare di più, accennare, tentare... È il segreto stesso dell'arte e dell'amore. Quando si sente qualcosa, il primo segno è questo: uno se ne vergogna, e ne parla a fatica.
È probabile che Manfredi, attore ultra-sensibile, abbia avvertito questa eccessiva chiarezza di propositi, e la conseguente indifferenza, e mancanza di echi e significati più vaghi e più vasti... La dolcezza suasiva di Risi, è probabile che lo abbia paralizzato.
Auguriamo a Dino di tirarsi fuori, una buona volta! Di girare sbagliato, magari: ma di approfondire, anche al costo di sballare tutto, la propria ispirazione. Un regista del suo talento, perché non deve dirci qualcosa di più? Urli, perdio, si agiti: esca da se stesso e dalla sua sorridente serenità.
Il suo problema, in ogni caso, è interessante perché è anche il problema di tanto realismo moderno, in letteratura come in cinema. Il vento dell'astrattismo non è ingiustificato.
18 ottobre 1964
Da Cinematografo, Sellerio Editore, Palermo, 2006