Il luogo non è casuale. Ci troviamo al centro del triangolo artistico degli anni Cinquanta, in piazza del Popolo. Triangolo formato da tre locali storici. Il bar Canova, che ci ospita, guarda gli altri due: il caffè Rosati e il Bolognese, allora una trattoria alla buona e poco costosa, oggi ristorante di moda. Citto (nessuno l'ha mai chiamato Francesco) Maselli veste, parla e si comporta ancora come un sessantottino: i suoi modi sono diretti, i racconti divertenti, il linguaggio colto ed essenziale. L'intreccio fra cinema e politica in lui è strettissimo. Da sessant'anni è comunista, anzi: un borghese comunista, specie molto diffusa nelle grandi famiglie protagoniste della vita culturale nazionale. La prima tessera firmata da Franco Ferri, eroe della Resistenza romana, il 6 giugno del 1944, l'ultima, dall'amico fraterno Fausto (Bertinotti). Autore e regista impegnato ma non sempre ortodosso, ha girato un film autobiografico in dvd, Frammenti di Novecento, distribuito nelle librerie Feltrinelli, Ricordi e Messaggerie, un «come eravamo» con finale al liceo Tasso, sui titoli di coda la voce di Luciana Castellina che, commossa, è tornata al suo banco di scuola insieme a Sandro Curzi. «Ho raccontato la storia, piena di contraddizioni, della mia vita. Nei miei film, da Gli sbandati, finanziato personalmente da Nicola Caracciolo con i soldi di una sua eredità e stroncato dall' “Unità”, a Gli indifferenti, distrutto dai critici militanti perché non ambientato durante il fascismo e interpretato da attori stranieri, a Lettera aperta a un giornale della sera fino al Sospetto, ho sempre cercato di spiegare come è stato difficile, per me, ma anche per tanti, conciliare la vita personale con quella del partito e l'essere nato borghese con l'adesione agli ideali marxisti. Il massimo della crisi, dopo il Sessantotto. Lietta Tornabuoni scrisse un articolo di fuoco sull' “Europeo” contro i registi comunisti, Pontecorvo, i Taviani, Maselli, che guadagnavano tanto girando i caroselli per le multinazionali come la Procter & Gamble contro cui marciavano insieme agli studenti. È vero, ero pieno di quattrini, allora: potevo permettermi una Jaguar del 1936, un motoscafo per la pesca d'altura... Io smisi subito di fare la pubblicità, ma fui il solo a farlo. Adesso, finalmente, sono tranquillo: non ho una lira.» La dolcezza della primavera riporta indietro nel tempo. Nelle strade del centro, allora, le macchine dei registi non passavano inosservate, «Federico Fellini aveva una Limousine americana, una Buick, veniva a prendermi quando giravamo insieme Amori in città e mi portava a spasso per ore. Adorava guidare sotto la pioggia, mi sfotteva sempre: “Voi comunisti avete la fede che noi non abbiamo. Ci fregherete, vedrai”. Luchino Visconti guidava la sua Appia, la riprese dopo un terribile incidente, lo ricordo come un comunista molto settario e dogmatico, fedele all'Urss anche dopo i fatti di Praga, si infuriava e ci urlava contro quando qualcuno si permetteva di criticare lo stalinismo. Non prese mai la tessera del Pci, come spiego, perche forse non ne sono degno”. Allora il puritanesimo del partito era un problema, l'omosessualità non era consentita. Pier Paolo Pasolini fu espulso, i compagni di Udine mi raccontarono poi: “Abbiamo sbagliato, è vero, ma lui cercava di portarsi a letto i ragazzi della federazione”». A tenere insieme gli irrequieti registi del neorealismo, il Pci aveva messo un meridionale appassionato e viscerale, Mario Alicata. Conoscitore della letteratura inglese dell'Ottocento, un debole per la Mary Shelley dei racconti gotici, Alicata li convoca spesso a Botteghe Oscure. «Ricordo che invitava anche i radiati, Elio Petri, Renzo Vespignai, Tommaso Chiaretti, colpevoli di aver dato vita a una rivista non allineata, “Città aperta”. C'erano Carlo Salinari, Antonello Trombadori, Gillo Pontecorvo, perfino un giovanissimo Carlo Ripa di Meana. Alicata era un uomo di grande intelligenza, fu lui a scrivere le tesi del decimo congresso, nel 1962: su mandato di Togliatti eliminò quella che si definiva “la logica rivoluzionaria” scegliendo senza esitazioni la via democratica. Lessi a Capri, in anteprima, quelle pagine. Che emozione.» Emozioni politiche e incontri sul set con le attrici. Anna Magnani, «politicamente era scettica, qualunquista. Nella vita privata era diffidente, spaventata. Una volta le restituii duemila lire, che mi aveva prestato, con un mazzo di violette, mi ringraziò telefonandomi alle due di notte, molto stupita del gesto». Virna Lisi, giovanissima, incontra un Maschi durissimo, «le ho dato perfino uno schiaffo, per farla piangere meglio». Claudia Cardinale, «per la prima volta con la sua voce rauca in Gli indifferenti, vince la sua timidezza». La sera? Tutti a cena a discutere della contro-offensiva democristiana, «Pio XII aveva finanziato, in chiave anticomunista, la Filmcostellazione, diretta da Diego Fabbri, che produsse I vinti di Antonioni, poi però diventò una casa di produzione come le altre. Andreotti ci ha aiutato, ma solo fino al 1953. Poi, attraverso i finanziamenti della Bnl, cominciarono a essere sovvenzionati soltanto i film graditi. Intanto, la Dc occupava la Rai e la Pubblica Istruzione, seguendo un'idea strategica della cultura, alunga gittata. A noi dicevano: Giocate pure con Moravia ». Nel suo ultimo film, Maschi lancia un'accusa pesante all'ambiente intellettuale degli anni Trenta: «Prima del 1943, il loro era un antifascismo da salotto. Ero bambino, ma ho molti ricordi netti dei discorsi dei grandi di allora. A casa nostra, in via Sardegna, venivano Corrado Alvaro, Massimo Bontempehli, Paolo Monelli, Alberto Savinio, i D'Amico, i Cecchi, i Pirandello erano nostri cugini: mia zia Olinda sposò Stefano, uno dei figli del drammaturgo. Mio padre Ercole, filosofo e critico, era considerato da tutti loro quasi come un dio: una volta, a Venezia, aveva perduto un manoscritto di Bontempelli, L'Acqua, e il grande accademico d'Italia ha dovuto riscriverlo. Bontempelli non si offese, disse: Non avrei potuto darlo alle stampe se non i avesse letto Maschi”. Mio padre fu tra i fondatori, alla fine dei 1943, del movimento dei cattocomunisti, insieme a Franco Rodano. Ricordo il manoscritto, poi edito dalla “Voce Operaia”, Perché siamo cattolici e comunisti, scritto a mano da Fedele D Amico. Eppure, 1 unico che pago davvero, in quel gruppo, è stato Antonio Petrucci, cattolico, magro e silenzioso, legato a Felice Balbo. Gli altri, in qualche modo, avevano navigato. Ricordo l'imbarazzo di Alvaro per un suo scritto del 1939 che esaltava la bonifica delle paludi Pontine. Alvaro aveva usato il trucco di mettere in bocca alla gente, tra virgolette, tutte le lodi al duce. Una sera era a cena da noi, c'era anche Vitaliano Brancati, papà e mamma io consola-vano e lui, a testa bassa, diceva: “Vorrei non aver mai scritto quelle pagine”». Dopo 1'8 settembre, la svolta. Il giovanissimo Citto è coraggioso: nasconde pistole, ospita in via Sardegna i capi comunisti in clandestinità, «con la tessera del pane era un problema farli mangiare, rimediavo con qualche uovo, ricordo che passarono Alicata, Guttuso, Achille Corona che allora era magrissimo», rischia la pelle sulla scalinata di Santa Maria Maggiore, a soli quattordici anni è responsabile degli studenti medi. Affronta, insieme ai compagni di scuola e ai ragazzi del partito, le SS. L'antifascismo romano era definitivamente uscito dai salotti. Stava per arrivare sugli schermi cinematografici
Da Registi d'Italia, Rizzoli, Milano, 2006