Pasquale Squitieri è un regista, scrittore, sceneggiatore, montatore, musicista, è nato il 27 novembre 1938 a Napoli (Italia) ed è morto il 18 febbraio 2017 all'età di 78 anni a Roma (Italia).
«Ma quale egemonia della sinistra? Ho letto le interviste dei miei colleghi, forse si sono dimenticati che i padroni assoluti del cinema italiano si chiamavano Carlo Ponti, Goffredo Lombardo, Dino De Laurentiis, tutte persone molto legate al grande capitale, alla Chiesa, ai governi. Hanno forse scordato che il direttore della Cineriz, il potente e capace Fulvio Frizzi, era orgoglioso di essere stato a Salò? E che i volti più amati dal pubblico, ovvero Vittorio De Sica e Alberto Sordi, non erano certamente dei rivoluzionari di sinistra, ma uomini della borghesia tradizionale. Io no, sono stato sempre un uomo libero, bollato come un irregolare, un provocatore, uno difficile da catalogare. Oggi sono un berlusconiano deluso da Gianfranco Fini, ma potrei anche cambiare idea. Mi hanno detto di tutto: da terrorista rosso a fascista, traditore e ora perfino antisemita. Ecco, queste lettere, leggi!» mi mostra delle disdette contrattuali firmate. «Mi hanno cancellato tre lavori per colpa di un titolo in cui venivo additato come fossi un pazzo che difendeva le leggi razziali del 1938! Volevo soltanto dire che dobbiamo indagare negli angoli più oscuri dell’Olocausto, dobbiamo capire perché furono proprio gli stessi consigli ebraici a consegnare le liste dei loro fratelli ai nazisti, come ha scritto Hannah Arendt, dobbiamo anche spiegare ai giovani che finché Mussolini è stato al potere in Italia nessun ebreo è stato deportato e chiederci come mai, nei mesi successivi al 25 luglio 1943, né il governo Badoglio né i Savoia hanno pensato mai di abrogare le leggi razziali. Porre questi interrogativi mi è costato il film sul caso giudiziario di Giulio Andreotti, una riedizione del Processo a Gesù di Diego Fabbri, che stavo preparando per il Vaticano, e Hotel Meina, che doveva essere prodotto da Ida Di Benedetto. È tutto questo soltanto perché io continuo a pensare che l’intellettuale, come diceva Lenin, deve informare il popolo e non deve mai smettere di denunciare.»
Affrontare un’intervista con Pasquale Squitieri non è una passeggiata. Bisogna scegliere un luogo neutro, quieto (siamo in un angolo del bar dell’hotel de Russie, deserto e fresco), un orario mattutino (sono le dieci) e armarsi di prudenza. L’uomo è travolgente, la sua vita un’avventura degna di un romanziere ottocentesco, i suoi racconti meravigliosi, spesso quasi incredibili, sovente eccessivi per un giornalista che voglia trascrivere le sue parole senza incorrere in conseguenze irreparabili. Lui sorride, sa di essere tanto divertente quanto pericoloso e si è preparato con ritagli, fotocopie e carte comprovanti le sue affermazioni. Il più curioso dei documenti è una cartolina gigante, datata 1985, e recita: «Congratulazioni a un uomo ancora libero (dev’essere difficile) quale tu sei! Quando facciamo un film insieme? Ti abbraccio forte forte, tuo Toni». Il Toni in questione è Toni Negri, il «cattivo maestro» di tutti i movimenti rivoluzionari nazionali. Mussolini e Toni Negri, penso, li può tenere insieme soltanto un napoletano, uno cresciuto al rione Sanità: «Trecentomila abitanti, una città nella città. Nasci con le contraddizioni nel sangue, con il cinismo dentro, quando vedi alla festa di San Vincenzo, sette giorni di follia nel rione, arrivare insieme Francesco Saverio Siniscalchi, ultimo federale di Napoli, Mario Palermo, fondatore del Pci e il capo-camorra Naso di Cane, vero sindaco del luogo».
Il giovane Pasquale studia legge in una città che è in quegli anni un crocevia di intellettuali, «tutti attorno a lui, Benedetto Croce. Giravamo per ore attorno a casa sua, nella speranza di vederlo apparire. Più accessibili erano Michele Prisco, Alfonso Gatto, Domenico Rea. “Mimì” Rea aveva, all’ingresso di casa, un leggìo con la “Pravda” aperta all’ articolo di Stalin su Spaccanapoli. Questo era il clima: erano ancora tutti molto fascisti, e insieme tutti affascinati dall’Urss, dal comunismo. Ci chiedevamo: sarà vero che padre Vincenzo Cilento, il barnabita allievo di Croce, in punto di morte ha raccolto la sua confessione di cristiano pentito?». Intanto, Squitieri diventa procuratore legale nello studio di Alfredo De Marsico, «mussoliniano non fascista». Il rito processuale e lo spettacolo non sono poi così distanti, «parlavo in corte d’Assise, ma diventai assistente volontario di Francesco Rosi che girava Le mani sulla città, perché Rosi era stato aiuto-regista di mio zio Pio». Allestisce una mostra nella hall del teatro San Ferdinando e raccoglie le confidenze private di Eduardo De Filippo. «Mi raccontò il dramma della sua vita, l’incidente che costò la vita alla sua bambina di nove anni, al Terminillo, mentre lui non fu avvertito, per non interrompere lo spettacolo. Eduardo mi disse che quel dolore aveva cambiato per sempre il suo rapporto con il mondo e con le persone». Dopo sei mesi di lavoro fisso al Banco di Napoli di Aversa, «ero andato in banca per mantenere mia moglie, ma non ho resistito, scappai a Roma. Scappammo tutti: a Napoli non c’era una casa editrice, non una produzione cinematografica, né un giornale nazionale. Arrivai nella capitale, ospitato da Annamaria Guarnieri, approdai a “Paese Sera”, dov’era redattore capo Ennio Palocci, curavo una rubrica di fumetti, non avevo i soldi per il tram e mi facevo a piedi tutto il Muro Torto per raggiungere il giornale». Il «Paese Sera» era un giornale comunista, ma il primo film del regista, Io e Dio, viene finanziato da Vittorio De Sica, «si era innamorato del mio copione, mi chiamò al giornale, Palocci mi prestò le mille lire per arrivare in taxi a via Aventina, a casa di De Sica. Pensa che mi portò in banca, mi diede due milioni e il resto arrivò da Maria Mercader: impegnò una parure di rubini per me».
Squitieri continua a frequentare Carmelo Bene, Citto Maselli, «un regista fantastico, peccato che poi abbia seguito troppo il partito e meno la sua fantasia», trova il successo grazie a un western popolare, Django sfida Sartana, con il bellissimo Fabio Testi e finalmente gira il suo capolavoro, Il prefetto di ferro, che viene proiettato in inglese, alla Casa Bianca, nel 1977, davanti al presidente Carter. «Mi sono allontanato dalla sinistra quando arrivò il terrorismo: non c’erano ragioni per sparare, nessuna motivazione razionale poteva giustificare l’omicidio. Quando rapirono Aldo Moro, Mario Cecchi Gori immediatamente chiese a me, Lino Jannuzzi e a Nanni Balestrini di girare un film sulla storia, ci dette cinque milioni per uno. Seguimmo i cinquantacinque giorni e le trattative segrete, ora per ora. Una possibilità di liberarlo consisteva nel concedere la grazia presidenziale a una detenuta, ammalata, che non si era macchiata di omicidi. Una notte, alla vigilia dell’uccisione di Moro, nella sua casa in campagna, vicino a Roma, Giovanni Leone mi confessò di aver firmato la grazia per la brigatista, ma che due capi democristiani gliela avevano strappata dalle mani, gli chiesi i nomi, mi rispose: “Pasqualino, tu non li conosci, quelli ti uccidono i figli”. Quando Moro fu trovato morto in via Caetani, alle 13 del 9 maggio del 1978, mi precipitai a casa di Balestrini e trovai Toni Negri in cucina che piangeva e gridava: “È tutto finito, è la sconfitta totale”. Quel giorno, l’Italia visse il suo secondo piazzale Loreto».
Alla vicenda di piazzale Loreto, il regista sta lavorando proprio in questi giorni, scrivendo un testo per il teatro. «Sono partito da una considerazione di Sergio Romano: quando quaranta milioni di italiani che avevano dato il loro consenso al regime si scoprono tutti antifascisti e plaudono all’oltraggio compiuto sui cadaveri di Mussolini e Claretta Petacci, è tutta la patria a perdere identità, a smarrire per sempre una struttura morale.» Nell’eterno piazzale Loreto di Squitieni, le vittime del dopoguerra si chiamano, oltre a Moro, «Bettino Craxi, insultato anche da tanti giovani missini allora in delirio per le imprese di Antonio Di Pietro, e perfino Giulio Andreotti, accusato per più di dieci anni da pentiti screditati». Nell’immaginario politico del regista, la storia del dopoguerra va riscritta così: «Siamo stati il campo di addestramento per tutti i servizi segreti del mondo. E che altro sono state le stragi, negli anni Settanta? Esercizi, prove generali: le storie di questi giorni della Cia non mi sorprendono, sono anni che dico che ci fu una regia anche nella strategia delle Brigate Rosse. Dovevano impedire il compromesso storico, ci sono riusciti. Hanno vinto loro. E io, che provai a denunciare la vita in fabbrica, con Razza selvaggia, fui ripagato con un anno di carcere. Mi accusarono di aver avallato un assegno di falso di ventimila lire, nel 1968, quando lavoravo in banca. Una storia che non stava in piedi, che doveva essere prescritta. Finii negli speciali di Rebibbia. Insieme a Luciano Ferrari Bravo, Toni Negri, Alì Agca, l’attentatore del papa, Cutolo che mi mandava il caffè. Mi graziò Pertini, per fortuna».
Le avventure di Squitieri qui riassunte sono una minima parte di quelle vissute e una piccola parte di quelle ascoltate da chi scrive. Per due anni senatore di An, «grazie a una battuta: dissi che, tra Fini e Rutelli che si contendevano la poltrona di sindaco di Roma, avrei votato Fini. Mi ritrovai al senato, in tre commissioni. Quando scoprii che – sottobanco – mi dovevo accordare con Rifondazione comunista, capii che era meglio tornare allo spettacolo». Cinismo? Coraggio? Provocazione? Il bar comincia ad affollarsi. Sono passate quattro ore. Arrivano clienti americani per il lunch. Il direttore di sala, che ha sopportato con pazienza il fumo delle sigarette del regista, lo invita a rispettare le regole. Nascondiamo le cicche, e ci mangiamo un’insalatina
Da Registi d’Italia, Rizzoli, Milano, 2006