Franco Rossi è un regista, scrittore, musicista, assistente alla regia, è nato il 28 aprile 1919 a Firenze (Italia) ed è morto il 5 giugno 2000 all'età di 81 anni a Roma (Italia).
Dopo il lieto successo del Seduttore (1954), Franco Rossi ebbe il plauso della critica e del pubblico alla Mostra di Venezia del 1955 con un film garbatissimo, Amici per la pelle, in cui studiando il tema delle amicizie tra giovanissimi, fatte di ripicche, di affetti sinceri ma anche di sincerissime collere, toccava note serene e gentili con un calore umano e, nello stesso tempo, una asciutta cordialità piuttosto insoliti nel nostro cinema.
Lo stesso tema, visto però a livello di giovani di età meno immatura, doveva affrontarlo nel 1959 con Morte di un amico, derivato in parte dal crudo realismo di certi film sulle borgate romane e sulla prostituzione, ma riscattato da una intima moralità e da un desiderio accentuato e cosciente di far il punto sui problemi scottanti della società contemporanea, non disdegnando di indicare soluzioni decisamente positive, senza timore d'essere accusato di retorica; con uno stile che, superata la grazia forse un poco esteriore di Amici per la pelle, si induriva e si inaspriva a contatto di una materia esaminata con occhio obiettivo, anche se il più delle volte pietoso.
i due film però in cui Rossi doveva più chiaramente palesare le sue intenzioni di polemista nei confronti delle crisi contemporanee sono i recenti Odissea nuda (1961) e Smog (1962).
Odissea nuda è una parafrasi in chiave moderna del viaggio di Ulisse. L'Ulisse di Franco Rossi, infatti è un intellettuale partito per Tahiti con il preciso incarico di realizzare un film (così come Ulisse è giunto sotto le mura di Troia con il preciso compito di fare la guerra) ; appena però si trova immerso in quel clima dove la sola legge (nonostante le religioni europee e la lingua francese) è la mancanza di una qualsiasi legge, dove l'istinto si sfrena, il dovere si dimentica (perché nessuno lo sente), la vita si vive solo per istinto, non mai per convinzione, per necessità, per obblighi proposti da altri, eccolo abbandonarsi all'euforia di seguire solo la natura, mettendo immediatamente da parte ogni impegno, ogni responsabilità di lavoro. In quattro e quattro otto, così, lascia tutto, lascia tutti e, come l'Altro, il Figlio del Mito, mette sè « per l'alto mare aperto », va, cioè, in un'isola anche più primitiva e solitaria dove della civiltà non esiste né il ricordo, né il sospetto.
Mentre, però, così si abbandona a quello stato quasi passivo di natura, dalla lontana Europa gli giungono richiami atti a risvegliargli una coscienza: credeva di non avervi più legami (il suo matrimonio, anni prima, è fallito), ma ad attenderlo era rimasta una madre e questa madre, ora, muore; sola e trascurata.
Poi lì, in quell'isola, un altro affetto lo avvince, paterno questa volta, per un bimbetto indigeno bisognoso di protezione, ma se l'affetto è ricambiato, è uso di quei luoghi non accettare nulla di duraturo, di solido, com'è invece da noi; un bel giorno, così, il bimbo se ne va, tranquillo e lieto come era venuto, e l'uomo resta solo con quel lutto in Europa, con quel vuoto nel suo cuore, con la scoperta che anche lì, in quegli incoscienti paradisi, c'è gente (i missionari, ad esempio) che, anziché al piacere, credono al dovere.
E allora torna a casa. « Per seguire virtute e conoscenza » non si deve fuggire, evadere, rinunciare, ma bisogna saper stare al chiodo, alla dura vita di ogni giorno, legati ai propri impegni intellettuali e morali.
Un'odissea, dunque, di largo respiro umano e poetico Rossi, forse, si è un po' dilungato all'inizio nella descrizione solo folcloristica della vita di natura a Tahiti, scrivendo con eccessivo compiacimento (e poco ordine) le pagine che giustificheranno la « fuga » del suo Ulisse; dopo, però, quando lo ha seguito in quelle tappe tutte psicologiche che motiveranno il suo ritorno, è riuscito a dar vita a momenti di autentica emozione, come quelli relativi alla morte della madre (quel proustiano ritorno all'indietro sulla scia di un piccolo dettaglio, quel vuoto improvviso che grava attorno a lui sull'isola, sul mare, tra le palme, quel vagabondare solitario sulla spiaggia, quel non poter più trovare terra dove posare i piedi...), o quelli dedicati al bambino, al suo arrivo, alla sua malattia in apparenza tanto grave, alla muta gioia nata dai suoi giochi, dai suoi scherzi, dalla sua perpetua allegria, o quelli dei missionari, chiusi in delicato raccoglimento, sospesi fra cielo e terra, ravvivati - ma sempre senza pedanteria - da serie considerazioni umane, morali, religiose.
E sostenuti sempre, gli uni e gli altri, da un linguaggio figurativo che realmente giunge - per la grazia dei colori stupendi e la vasta profondità delle immagini « panoramiche » - a restituirci l'incanto non solo esteriore dei Tropici, quel loro fascino segreto, che spesso un commento musicale particolarmente intonato veste di armonie suggestive. Con risultati che, pur con certi scompensi, lacune, squilibri, inducono alla fine a sincera commozione.
Smog, è invece, una variazione, solida e seria, su uno dei problemi oggi più sentiti dai nostri intellettuali, quello della incomunicabilità tra creatura e creatura.
L'incomunicabilità, però, di cui ci parla Rossi non è quella del teatro pirandelliano (che nasceva dalla impossibilità filosofica dell'Idealismo di conoscere le singole verità di ognuno) e non è neanche quella, tutta esistenzialistica, di cui ci parlano i film di Antonioni, che prendono atto di questa incomunicabilità senza ricercarne le cause perché le cause sarebbero insite nella natura stessa dell'uomo di oggi; è, invece, una incomunicabilità pratica, le cui cause, ricercate con attenzione, vengono additate in funzione polemica, nel tentativo di mettere l'accento su quei vizi o quegli errori che rendono tanto difficile il vivere comune.
Per polemizzare con questi vizi e risalire, per loro mezzo, al generale problema dell'odierna incomprensione fra gli uomini, Rossi ha immaginato la storia (senza « storia ») di un viaggiatore italiano che, tra due aerei, sosta qualche ora negli Stati Uniti, venendo frettolosamente a contatto con alcuni connazionali di cui capisce poco o nulla e con i quali non riesce a entrare in vera comunicazione (come non vi riescono, d'altronde, loro stessi fra di loro).
Perché questa impossibilità di rapporti approfonditi e sinceri? Non certo per la brevità degli incontri; lui, però, il viaggiatore - tipo classico del borghese conformista e arrivista che mira solo a migliorare la sua posizione sociale - tutto preso da questo desiderio e ottenebrato da un bagaglio provinciale di luoghi comuni e di frasi fatte sulla vita, la società e i suoi simili, non è la persona più adatta a capire chi, come lui, ha altrettanta ansia di riuscire nella vita, ma in un clima diverso, a contatto con quella realtà americana di ogni giorno in cui almeno il conformismo sembra bandito e i luoghi comuni sulla vita suonano del tutto opposti ai nostri.
Chi incontra, infatti, il nostro viaggiatore? Una brava ragazza italiana, emigrata da qualche anno negli Stati Uniti e arrivata ad una certa sicurezza economica e sociale. A questa ragazza, in teoria, non manca più nulla, ma è chiaro che nel suo animo decisamente sensibile il benessere materiale non basta a rendere felici; e così la vediamo interessarsi sentimentalmente a un connazionale che, divorato invece soltanto dall'ansia di riuscire, non capisce a fondo le sue intenzioni e finisce per deluderla.
Alla fine tutti e tre si separeranno con un gran vuoto in cuore; il viaggiatore perché ha almeno capito di aver deluso gli altri, il giovanotto perché si vede improvvisamente allontanato dalla ragazza e la ragazza perché ha visto che è inutile domandare aiuto vero agli altri; è un appello che, finché durerà nei nostri animi lo smog dell'egoismo, della corsa cieca al guadagno, della soddisfazione immediata dei bisogni terrestri, rimarrà sempre senza risposta.
Una morale concreta, perciò, e una conclusione precisa che mette i punti sugli « i » ad ogni argomentazione polemica. Ma tutto questo, si badi, non conferisce al film un tono pedante e saccente: Franco Rossi, infatti, ha liberissimamente costruito la sua storia senza « storia » puntando soprattutto sui caratteri dei tre protagonisti, sulle difficoltà dei loro incontri, sugli equivoci generati spesso dalle loro reciproche incomprensioni e ha fatto in modo che questi caratteri (con le loro evoluzioni, i loro chiarimenti, le loro sfumature) diventassero la vera forza dinamica dell'azione, ricorrendo sempre a un linguaggio semplice e piano soprattutto indirizzato a rendere trasparenti sullo schermo gli stati d'animo, ma senza, e qui è l'importante, cedere mai alla poetica degli stati d'animo immobili, evocati in atmosfere solo letterarie e rarefatte.
Attorno a questi caratteri ha costruito, dal vero e dal vivo, un ambiente, una cornice, una nazione, l'America - che, proprio perché è vista sempre con l'occhio del viaggiatore, e forse anche sotto l'influenza dei suoi luoghi comuni spesso di fantasia, finisce, pur nella sua evidenza realistica, per assumere la stessa funzione drammatica dell'immaginaria cornice dell'America di Kafka.
Da Cinema italiano 1952-1965, oggi, Carlo Bestetti Edizioni d'Arte, Roma 1966
Dalla stessa matrice di Castellani e con un itinerario simile a quello di altri esordienti degli anni Cinquanta, Franco Rossi giunge al nuovo decennio con alle spalle due notevoli film d'autore: Amici per la pelle del 1955 e Morte di un amico del 1959, legato quest'ultimo in maniera esplicita al mondo pasoliniano dei ragazzi di vita, che, come si può ormai capire, è abbastanza diffuso nel cinema della fine degli anni Cinquanta.
I suoi primi film del nuovo decennio, Odissea nuda del 1961 e Smog del 1962, vogliono essere una specie di rifiuto della civiltà capitalistica e di fuga alla ricerca di un mondo di valori ancora intatti. Il discorso è - con ogni probabilità - superiore alla capacità del regista e i film non si ricordano se non per la qualità fotografica, l'uso di obiettivi potenti, ecc. Così, dei diversi altri titoli realizzati negli anni Sessanta non rimangono resti significativi, mentre proprio all'inizio del nuovo decennio Rossi passa a dirigere per la televisione una versione assai ambiziosa e spettacolare dell'Odissea. E in questo momento scopre il livello più adeguato alle sue capacità di esecutore, capacità che verranno confermate anche nella successiva Eneide.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007