Werner Herzog (Werner Stipetic) è un attore tedesco, regista, produttore, produttore esecutivo, scrittore, sceneggiatore, fotografo, è nato il 5 settembre 1942 a Monaco di Baviera (Germania). Werner Herzog ha oggi 81 anni ed è del segno zodiacale Vergine.
Il talento di Herzog è eccezionalmente poliedrico ed inquieto. Viaggiatore incallito, scrittore, poeta, critico cinematografico, regista di corto e lungometraggi, documentari, opere teatrali e liriche, nel corso della sua opera è possibile individuare un unico filo conduttore: la necessità di trovare o costruire immagini assolutamente pure, estreme e irripetibili. La sua è un'esigenza di cinema del tutto istintiva e primaria, legata a una visione quasi panteistica del mondo. Herzog, come tutti i suoi personaggi, è un anarchico radicale che sfida continuamente se stesso e la propria esistenza. Realizza i propri film in giro per il mondo alla continua ricerca di immagini e situazioni sorprendenti. Nel '67, gira il suo primo lungometraggio, Segni di vita, nel quale il soldato Stroszek, abbandonato durante la Seconda guerra mondiale nell'isola di Cos, impazzisce e intraprende una folle ribellione che finirà inevitabilmente frustrata. La ribellione è poi ciò che accomuna tutti i protagonisti herzogghiani: i nani di Anche i nani hanno cominciato da piccoli (1969), il condottiero di Aguirre il furore di Dio (1972), gli attori ipnotizzati di Cuore di vetro (1976), il vampiro di Nosferatu (1978), Fitzcarraldo (1979), gli aborigeni australiani di Dove sognano le formiche verdi (1985), il bandito avventuriero, trovato fra le pagine di Bruce Chatwin, del Cobra Verde (1990), il granitico scalatore di Grido di pietra (1991). Tutti questi personaggi rappresentano un modello di uomo vicino all'Ulisse dantesco, un essere che si ribella al proprio destino di creatura limitata e parziale per abbattere le pareti dei propri confini, per intraprendere imprese titaniche, che inesorabilmente la sua condizione limitata gli impedisce di portare a termine. Herzog è consapevole che l'uomo non può opporsi al proprio destino, ma è anche convinto che nel tentativo di combatterlo ritrova la reale grandezza della propria natura: la folle pretesa di somiglianza con Dio che lo porta a cercare di dominare forze più grandi, come la natura e la storia.
La ricerca della natura primordiale dell'uomo, delle sue manifestazioni più libere, pure e selvagge, è il tema de L'enigma di Kaspar Hauser (1974), ispirato al mito del ragazzo selvaggio, colui che non sa nulla, che è privo di ogni forma di cultura, imprevedibile e imprevisto dal sistema sociale. Al contempo però è disponibile (e indifeso) verso qualunque aspetto di vita, cultura e linguaggio.
Dopo capolavori come Fata Morgana, sulla devastazione del deserto africano, Paese del silenzio e dell'oscurità, sugli istituti per sordo-ciechi (creature che vivono un incubo ricorrente nel cinema di Herzog: l'impossibilità di comunicare), La Soufriere, attesa eroica e incosciente dell'eruzione di un vulcano dell'isola di Guadalupe, Herzog è tornato, negli ultimi anni, a realizzare documentari. Risalgono agli anni Ottanta e Novanta La montagna lucente, Echi da un paese oscuro e Apocalisse sul deserto, resoconto delle conseguenze della guerra del Golfo. Questo ritorno al documentario appare come l'evoluzione naturale di un regista sempre più interessato a compiere e testimoniare imprese irripetibili, piuttosto che a raccontare storie. Percorso naturale per un autore che, alla costruzione di un meccanismo narrativo, ha sempre preferito la profonda poesia degli attimi sublimi e atroci dell'esistenza umana, alla monotonia della quotidianità ha sostituito la vitalità del pericolo e della ribellione, seppure inutile.
Dopo due giorni di lezione con Werner Herzog, si impara anche che il cinema non si può imparare. Bisogna innanzitutto farlo. Herzog, conosciuto come autore cinematografico tra i più visionari dei nostri tempi, in realtà non ha un rapporto così astratto con la realtà. Al contrario. E la scorsa settimana, durante una due giorni di lezione alla Scuola Holden di Torino, di fronte a una sessantina di spettatori, l'ha esplicitamente raccontato.
«Il cinema è una telecamera, una persona che osserva, pochi soldi a disposizione. Il cinema è un'idea». E racconta della sua biografia, che è l'unica lezione che riesca a spiegare tanti successi sul grande schermo, ma anche tanti tentativi, prima di arrivare: «Da giovane, per produrre i primi lungometraggi, non ho esitato a lavorare di notte in acciaieria, e persino a rubare una cinepresa in una scuola di cinema».
Diversi anni più tardi, senza l'aiuto di effetti speciali, ma con la sola forza di un gruppo di indios, ha trascinato una nave in cima a una collina amazzonica («Fitzcarraldo», 1982). «Ho conosciuto la sete e la fame, ho camminato chilometri a piedi, sono stato in prigione e con la troupe ho vissuto spesso situazioni pericolose. Ho provato...».
Dunque, la città di Torino, ha conosciuto il risveglio culturale per antonomasia, la due giorni di seminario nella scuola di Baricco – nella cornice della manifestazione «Segni di vita. Werner Herzog e il cinema», pensata dal Museo nazionale del cinema con il sostegno della città di Torino – il regista bavarese non ha tanto insegnato «la scrittura e il cinema», quanto tenuto lezioni di vita.
La mattina del giovedì comincia così, dunque. Con l'intenzione di non essere «maestro o profeta», quanto invece semplice esempio, anche in chiave negativa: «Ho imparato tutto da solo – chiarisce subito – non amo le tecniche di scrittura, trovo che siano disturbanti e davvero non capisco come possano essere insegnate».
Cosa fare, dunque, se si è uno dei 25 giovani intelligenti selezionati, desiderosi di imparare i trucchi del mestiere e di muoversi nel mondo della scrittura o del cinema?
Herzog non dà soluzioni preconfezionate, non insegna sceneggiatura cinematografica, può solo portare l'esempio dei suoi lavori: film nei quali si sviluppa una storia interna, una sottotraccia naturale che non nasce dalla tecnica, ma dalla sensibilità. La prima cosa, quindi, per chi vuole fare regia è coltivare il proprio senso poetico e soprattutto vivere delle esperienze di vita profonde che possano accrescere il livello di comprensione dell'animo umano.
Nel corso degli anni Herzog ha raccolto immagini di grande potenza visiva, ma le ha indirizzate secondo un disegno registico preciso: a chi dice che il documentarista deve stare in silenziosa osservazione degli eventi, come una mosca sulla parete, Herzog ribatte che è bene che il regista sia piuttosto una vespa che vada a punzecchiare la realtà, amplificando le situazioni o addirittura inventandole.
«Le immagini possono acquisire una valenza diversa se accompagnate da un commento che ne modifica il significato e da una colonna sonora apparentemente fuori contesto». Spiega il regista: «nelle sequenze finali del documentario "Apocalisse nel Deserto" (1992), una semplice scena di pozzi petroliferi dati alle fiamme assume una connotazione diversa». Diremmo noi, quasi epica.
Come in «The Wild Blue Yonder» (2005), dove, nonostante la maggioranza delle immagini sia di repertorio, si ha l'illusione di entrare nella fantascienza grazie al solo commento dell'autore e alle parole del malinconico alieno, ultimo rimasto ad abitare il pianeta.
Forse è questo l'aspetto più interessante della lezione di Herzog: ogni esperienza fisica e mentale, ogni rapporto con il cast o la popolazione locale, persino ogni contrattempo contribuisce a forgiare la persona e ad arricchirne l'esperienza (famosa è la sua trasferta Monaco-Parigi sulle proprie gambe per assistere l'amica in fin di vita Lotte Eisner, ndr). Per il regista non ci sono dubbi: «meglio girare sei mesi a piedi che frequentare una qualsiasi scuola di cinema».
E per le giovani leve alcuni consigli pratici: nonostante sia l'uomo antisistema che detesta i metodi di ripresa hollywoodiani, indica nella disciplina ferrea sul set la sua regola principale.
«Quando si riprende – spiega – e si è sotto grossissime pressioni, bisogna sempre continuare a girare sviluppando la capacità di rielaborare la sceneggiatura in pochissimo tempo, se questa non funziona ed è di ostacolo al film. Ma soprattutto – conclude – bisogna darsi da fare. E opporsi ostinatamente alla cultura della lamentela. In un periodo di così facile accesso alle tecnologie non si hanno più scuse se si vuole girare un film».
Nuovo cinema tedesco. I protagonisti delle storie di Werner Herzog,65 anni, –in alto a sinistra ilregista durante le riprese di Rescue dawn,del 2006 –sono persone che stanno al di fuori dagli schemi e dai modelli di vita "normali"accettati dalla società.Sono sognatori lanciati in imprese al limite della follia.
Paradigmatico Klaus Kinski in Fitzcarraldo (in alto a destra),che per far avverare il suo sogno è dispostoa trasportare una nave sopra una montagna.Nella foto qui sopra una scena del film-documentario The Wild Blue Yonder (2005),tra le opere più innovative e visionarie del nostro tempo.
Da Il Sole-24 Ore, 31 gennaio 2008
Avrebbe potuto diventare un matematico. Gli sarebbe piaciuto.
Ma i film sono stati più forti. Sono arrivati prima di formule e calcoli e lo hanno rapito. Così, invece di liofilizzare il mondo in numeri, e prenderlo, misurarlo, spiegarlo, lo ha liberato in immagini, lo ha messo davanti allo specchio della sua immaginazione e lo ha raccontato. È diventato un arpionatore di storie, uno di quei narratori chiamati registi, perché davanti a loro portano un terzo occhio come una proboscide, una camera, un'appendice, un obiettivo e guardano attraverso. Sono quarantacinque anni che caccia e fabbrica immagini.
Nelle immagini abita e con le immagini cammina, sempre alla ricerca delle origini. Ogni immagine che porta la sua firma è un aspetto, un paesaggio, una faccia del mondo, è l'orrore e la meraviglia del mondo. Si chiama Fitzcarraldo. Anche Aguirre talvolta. E Kaspar Hauser. E Stroszek. E Stipetic, il primo cognome. Come Werner Stipetic è nato il 5 settembre 1942 a Monaco di Baviera.
È cresciuto a Sachrang, un villaggio di montagna, vicino ai confine con l'Austria. isolato. Niente automobili, niente televisione, niente telefono. Solo la natura a fargli da sparring partner, severa, muscolare, ardita. Il primo film lo ha visto a scuola: un documentario sulla vita degli eschimesi.
Quando con la madre e i fratelli all'inizio dell'adolescenza è tornato a Monaco per proseguire gli studi, ha vissuto per qualche tempo in una pensione. Un giorno, in classe, durante l'ora di musica il professore voleva che cantasse, lui si rifiutava. I compagni furono presi in ostaggio: finché non avesse cantato, non sarebbero usciti da scuola. Alla fine cantò, ma si ripromise due cose: nessuno avrebbe mai più piegato la sua volontà e nella sua vita non avrebbe mai cantato. Così è andata, è rimasto fedele alle promesse. Il professore non si sa che fine abbia fatto, lui è diventato Werner Herzog.
Una vita e una faccia fatte di cinema. Ma anche un cinema fatto di vita, di «pura vida» come dice lui, assoluto, estremo, fisico.
Soltanto a quelli come Herzog il cinema passa sulla faccia e se ne innamora, e un po' di sé sulla faccia lascia e un po' di faccia con sé porta via. Non sono le tracce del tempo trascorso quello che vedi su di lui, non è la vita, è il cinema. Lo scopri facilmente dalle fotografie. Lo capisci dai film.
Film, foto, vita e cinema, Fitzcarraldo e Aguirre, Hauser e Stroszek, tutto ciò che è chiamato Werner Herzog, anche lui in persona, arriva a Torino il 15 gennaio e vi rimane in forma di mostra e di rassegna fino al 10 febbraio. All'uomo che a vent'anni sentiva di dover inventare il cinema come se fosse l'inventore della macchina da presa, il Museo Nazionale del Cinema dedica un omaggio intitolato Segni di vita, a cura di Alberto Barbera, Stefano Boni e Grazia Paganelli.
Nelle sale del Massimo vengo; no proiettati tutti i lavori finora distribuiti, cinquantuno fra cortometraggi, documentari, fiction. Da Herakles (1962), dodici minuti in bianco e nero sui culturisti, a Encounters at the End of the World (200?), girato in Antartide sopra e sotto il ghiaccio, un faccia a faccia con la natura e con la fine del mondo. Ogni sua pellicola, popolata di immagini vergini, pure, e dì ribelli, emarginati o sconfitti ma mai perdenti, è sempre una piccola fine del mondo, un viaggio verso: da Cuore di vetro a Nosferatu, da Dove sognano le formiche verdi a Grido di pietra, da Apocalisse nel deserto a Fitzcarraldo, inevitabilmente.
Oltre a un concerto al Piccolo Regio, negli spazi della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo sarà allestita una mostra con un centinaio di fotografie scattate sui set e due installazioni con undici video, fra cui il primo super8 di Herzog: appena sei minuti, senza titolo, un western girato a 16 anni in una caffetteria allo scopo di dimostrare che il suo amico Tommy Fisher somigliava a Gary Cooper e recitava meglio.
A completare l'omaggio, esce un libro di Grazia Paganelli edito da Il Castoro. Un'esauriente monografia con più di cento foto e una bella, lunga intervista divisa in sette capitoli, dove Herzog racconta che la verità non deve mai essere catturata, che quando si sveglia è sempre innamorato del mondo, che si mette in ascolto dell'urlo proveniente dalle immagini e che il linguaggio è il suo estremo rifugio. Di sé dice: «Non sono uno che si siede a lavorare a una sceneggiatura cercando di organizzare e costruire i personaggi, non sono uno che costruisce una storia. Una storia è pura vita e in molti casi si tratta di vita che ho vissuto in passato, che ho provato in prima persona».
Sostiene la differenza tra realtà e verità. Ripete che i cineasti dei Cinéma Vérité assomigliano a turisti che scattano fotografie tra le rovine dei fatti e che il turismo è peccato, mentre viaggiare a piedi è virtù. Riconosce: «Non ho imparato il cinema da nessuno, non ho mai fatto l'assistente, né ho frequentato una scuola di cinema, ho imparato con l'approssimazione». Approssimarsi è avvicinarsi a piedi verso le cose. Al passo giusto. Con il giusto tempo. Questo ha sempre fatto Werner Herzog, con e senza macchina da presa.
Ha camminato. È andato a piedi. Da Monaco a Parigi per tenere in vita la sua amica Lotte Eisner. Dal villaggio di Sachrang alla fine del mondo per vedere ciò che nessuno ha mai visto. E farne cinema, qualcosa che possa dar forma all'estasi.
Da Il Venerdì di Repubblica, 11 gennaio 2008