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Rassegna stampa di John Huston

John Huston (John Marcellus Huston) è un attore statunitense, regista, scrittore, sceneggiatore, è nato il 5 agosto 1906 a Nevada, Missouri (USA) ed è morto il 28 agosto 1987 all'età di 81 anni a Middletown, Rhode Island (USA).

EMANUELA MARTINI
Il Sole-24 Ore

La distribuzione italiana aveva già deciso di intitolare The Dead di John Huston Gente di Dublino. Per ragioni scaramantiche, sembra perché I morti sarebbe risuonato troppo iettatorio per il pubblico italiano. John Huston, fino alla fine caustico e sbrigativo, non ha avuto paura di un titolo. Vien da pensare, anzi, che questo titolo (The Dead) gli sia piaciuto molto, come possibile conclusione di una carriera di "5 mogli e n. 60 film", come intitolava la sua autobiografia. Con un tempismo degno di una sceneggiatura della Hollywood degli anni d’oro, John Huston è morto venerdì 28 agosto, a pochi giorni dalla presentazione del suo film alla Mostra di Venezia, scavalcando immediatamente in tutte le cronache i film più pubblicizzati, le diavolerie tecnologiche, le risonanze divistiche. Con un film tratto da un testo proverbialmente difficile, senza divi (la più famosa degli interpreti è la figlia Anjelica), senza monumentali apparati pubblicitari. Più che uno scherzo del destino, questa sembra una costruzione, un gioco con il proprio destino. Huston, in fondo, aveva più di ottant’anni e stava male da parecchio tempo per di più, era una figura tanto vitale da non poter non avere consapevolezza del progressivo avvicinamento della morte. Con un titolo, ha giocato anche con questa, come certi grandi vecchi esasperati e deliranti di alcuni suoi film: l’Albert Finney, marcio e borbottante di Sotto il vulcano, cupamente intrigato dai riti e dalle immagini di morte messicani, il giudice Roy Bean di L’uomo dai sette capestri, istrione pazzo che torna dalla tomba per una spettacolare vendetta. Il suo cinema, in realtà, è sempre stato segnato da ossessioni mortuarie, dal Noir angosciante dei capolavori degli Anni Quaranta (dal Falcone maltese del 1941 fino a Giungla d’asfalto del 1950), ai film più contorti e controversi degli Anni Cinquanta e Sessanta, quelli che si tingono di morbi psicanalitici (come Freud del 1962 o Riflessi in un occhio d’oro del 1967), di malsani turgori sudisti (come La notte dell’Iguana del 1964, tratto da Tennessee Williams), di epica follia (penso in particolare al capitano Achab di Moby Dick, nel quale il regista fu pessimamente servito dalla legnosità eccessiva di Gregory Peck). In quegli anni, criticamente e produttivamente controversi, Huston firmò due opere proverbialmente maledette: la riduzione cinematografica di Il segno rosso del coraggio di Stephen Crane (1951), una terribile pietra miliare della letteratura americana, analisi, "dall’interno" del filo invisibile che separa la vigliaccheria dall’eroismo (dove Huston avrebbe voluto come protagonista il soldato più decorato della seconda guerra mondiale, l’attore Audie Murphy), e Gli spostati, tratto da Arthur Miller. Realizzato nel 1960 (e francamente oppresso oggi dalla verbosità un po’ saccente dell’intellettuale Miller), Gli spostati era interpretato da Clark Gable, Marilyn Monroe e Montgomery Clift, morti rispettivamente nel 1960, nel 1961 e nel 1966. Passato indenne attraverso Gli spostati sembrava quasi che Huston non dovesse morire mai più . Nell’ultimo decennio, egli sembrava anche essersi vagamente riconciliato con il mondo. In realtà, si era solo riconciliato con il cinema, liberandosi dalle pastoie hollywoodiane. Soggiornava in Irlanda, e poi in Messico. Faceva (almeno in parte) i film che amava, caustici, cattivi, vivi, strane leggende irlandesi (come Di pari passo con l’amore e la morte del 1969, in cui fece esordire Anjelica), bizzarre ballate americane (come Sangue saggio del 1979). Faceva, soprattutto, film di grandi disperazioni, con tutta la forza di un tempo, se è possibile accentuata dalla lucida distanza della vecchiaia. L’uscita di scena di Huston non è stata da meno di quella dei suoi personaggi.

EMANUELA MARTINI
Film TV

Ora che ho una certa età sto sperimentando un antico detto irlandese a proposito della vita in riva al mare: "non fa più dolere le vecchie ferite. rinvigorisce lo spirito, stimola le passioni della mente e del corpo, pacifica l'anima". Sono contento di essere giunto a questo punto dell'eternità, ma per quel che riguarda la mia propria vita non so come ci sono arrivato. Ho perso il ricordo degli anni, E incredibile avere anni, eppure di fronte all'evidenza contenuta in questo libro devo accettare il fatto. Ero abituato a essere il più giovane in ogni gruppo. Adesso, tutt'a un tratto, sono il più vecchio. Ho vissuto un'infinità di vite. Tendo a invidiare l'uomo che porta avanti una vita sola, con un solo lavoro, e una sola moglie, in un solo paese, sotto un solo Dio.

PIETRO BIANCHI

John Huston è l’ultimo tra i registi di Hollywood ad essere stato scelto dall’Europa ed imposto agli Stati Uniti: all’aspetto fisico è un tipo lungo, magro, col naso schiacciato tipico degli ex-pugili. Figlio del grande attore Walter Huston, spentosi pochi anni or sono, tentò tutte le strade: fu, come s’è detto, boxeur, poi giornalista, attore e sceneggiatore di film. Forse ebbe qualche vantaggio a Hollywood dalla prestigiosa presenza paterna: ma diede subito un gran colpo con quel Mistero di falco (1941), tratto dal famoso romanzo «nero» di Dashiell Hammett, che, presentato in Italia negli anni della confusione postbellica, venne apprezzato da pochi. Sin da quel primo film Huston afferma quella sua peculiare visione del mondo che abbiamo visto confermata in tutti i suoi film posteriori, sino ai recentissimi Regina d’Africa e Moulin Rouge (sulla vita del pittore Toulouse-Lautrec). Huston, forse in memoria del suo passato e obbedendo alla più profonda natura sua, ha il gusto della violenza, del rischio: cui si aggiunge, molto modernamente, il piacere malinconico che gli deriva dalla constatazione del fallimento dei suoi eroi. In parole povere gli interessano non i risultati, ma il processo dell’azione, i modi attraverso i quali il fallimento si esteriorizza, giustificandosi.

FERNALDO DI GIAMMATTEO

Figlio di attori presto divorziati (Walter è stato un eccellente interprete), fa vita randagia. Colpito da una malattia ai reni si rimette prodigiosamente, vince il campionato per pugili dilettanti della California (riporta la frattura del naso), recita a Broadway, si esibisce in Messico come cavallerizzo, è giornalista a New York, passa qualche tempo a Londra e a Parigi (per studiare pittura) vivendo come un barbone, è sceneggiatore a Hollywood ed esordisce nella regia con Il mistero del falco (1941), un teso, scintillante Dashiell Hammett, dove si precisano i due temi essenziali del suo cinema: la «ricerca», spesso vana o inutile; la misoginia.

UGO CASIRAGHI

John Huston non ce l'ha proprio fatta a tener duro fino al 3 settembre, giorno in cui era in programma alla Mostra di Venezia il suo film testamento I morti. E morto sul finire d'agosto come all'inizio d'agosto era nato, in un lontano 1906. Ottantun anni da poco compiuti, il quarantunesimo film (compresi i quattro documentari) terminato in tempo utile. E ancora al lavoro, come attore, per il primo film di suo figlio Tony che ha sceneggiato The Dead mentre la figlia Anjelica ne è la protagonista. I morti è il racconto che conclude Gente di Dublino di James Joyce, e Huston lo ha trascritto fedelmente come aveva fatto all'origine della sua carriera di regista, su consiglio di Howard Hawks, col romanzo nero di Dashiell Hammett Il falcone maltese. Da americano rispettava Hammett; da irlandese (lo era al punto da assumerne la nazionalità nel 1964) era normale che venerasse Joyce.
Il mistero del falco, che è diventato un cult-movie e non è il solo nella sua eclettica produzione, ne impose subito il nome accanto a quello di Humphrey Bogart, che fino a lì aveva interpretato quasi soltanto il gangster cattivo. Nella figura del detective
privato Sam Spade, Dosar* diventava un giustiziere non meno inquietante, anche se più affascinante. Huston e «Bogie» furono amici e compagnoni di bevute: il divo era piuttosto sedentario e avrebbe lavorato volentieri in interni con il comfort hollywoodiano, ma quel dannato spilungone dalla faccia di pugile, mai sazio d'avventura, lo trascinava regolarmente in continenti scomodissimi, da Il tesoro della Sierra Madre a La Regina d'Africa. Da quest'ultima impresa l'attore usci stremato ma finalmente con la statuetta dell'Oscar in pugno, come del resto era capitato al vecchio Walter Huston, che il figlio adorava ma che costrinse a recitare sdentato in quella desolata caccia all'oro tra le montagne messicane.
E fu John, chi se non lui, a salutare per l'ultima volta il più amabile e vicino dei suoi protagonisti. L'addio pronunciato sulla tomba di Humphrey Bogart nel gennaio del '57 sta in testa al documentato ed equilibrato profilo del regista scritto da Morando Morandini nel 1980 per la collana del Castoro Cinema. Quel congedo funebre può oggi essere riletto, a distanza di trent'anni, anche in funzione della morte di Huston, che ha avuto un'esistenza certamente più lunga, ma intensamente vissuta come quella di Bogart. «Aveva avuto dalla vita tutto quel che desiderava, e qualcosa in più. Non abbiamo motivo di compiangere lui, bensì di compiangere noi per averlo perduto».
La personalità di John Huston non è facilmente afferrabile e definibile. Non solo a causa dell'eclettismo delle sue scelte, ma del carattere nomade della sua attività, svoltasi in America ma anche in giro per il inondo, talvolta in ossequio alle norme hollywoodiane ma molto più spesso in rivolta contro di esse. Fondamentalmente anarchico, ma conservatore almeno nelle radici ottocentesche, era egualmente imbevuto di vita vissuta e di cultura letteraria. Si potrebbe pensare a un Jack London per la sua attitudine al vagabondaggio, per le sue idee di ribellione sociale, e anche per la passione del pugilato attivamente praticato in gioventù. A vedere Il mistero del falco e il capolavoro Giungla d'asfalto (1950), o il più tardivo Fat City (1972) che è appunto uno dei più bei film sulla boxe, lo si direbbe un cronista essenziale della civiltà urbana contemporanea, con una spiccata attenzione umanistica ai personaggi e alle psicologie. E tutto sembra espresso in presa diretta, non attraverso il filtro di romanzi (rispettivamente di Hammett, Burnett e Leonard Gardner). Ma poi ci si imbatte in una serie di altri film, dove la matrice letteraria o comunque culturale è ben più evidente e quasi schiacciante. Essa finisce per travalicare la forma cinematografica stessa, che regge splendidamente fino a un certo punto, poi s'ingarbuglia, si attutisce e si spegne.

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