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Rassegna stampa di Bernardo Bertolucci

Bernardo Bertolucci è un attore italiano, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, assistente alla regia, è nato il 16 marzo 1941 a Parma (Italia) ed è morto il 26 novembre 2018 all'età di 77 anni a Roma (Italia).

SERGIO DONATI

Nella sua prima versione, la sceneggiatura di Ultimo Tango a Parigi era di Kim Arcalli, uno splendido essere umano (che ci ha lasciati troppo presto come succede ai migliori, vedi Troisi) e un bravissimo montatore che sapeva anche scrivere molto bene (o viceversa, come preferite).
L'idea di base (due sconosciuti si disputano un appartamento vuoto da affittare, e finiscono a letto più o meno innamorandosi) era ripresa pari pari, non so quanto involontariamente, da una vecchia commedia del teatro “borghese”, classico repertorio compagnia Pagnani-Cervi: “Due dozzine di rose scarlatte”, di Aldo de Benedetti. Su quella base Arcalli e Bertolucci avevano elaborato una storia nello stile un po' algido ed elegante del Conformista, meditando perfino di riutilizzare come protagonista lo stesso Trintignant.

FERNALDO DI GIAMMATTEO

Famiglia borghese, padre poeta stimato, inclinazioni di sinistra, cinefilia come religione, intelligenza viva e pronta, vincitore di un Premio Viareggio per la poesia, si appoggia a un testo di Pasolini per il primo film - La commare secca - che dirige nel 1962, a 21 anni. Con Prima della rivoluzione/em>, due anni dopo, tenta un esame di coscienza della sua generazione che s'è appena affacciata alla vita (e alla politica), con un linguaggio languido e disteso. In pieno '68 si prodiga, sulla scia di Godard, nella frantumazione dei codici narrativi (Partner, 1968) ma subito si placa, ricorrendo a una intensa e lineare trasposizione d'un romanzo di Alberto Moravia (Il conformista, 1970), che mette in rilievo il suo gusto per l'ambiguità, la sua attenzione alle tematiche sessuali intrecciate con l'ideologia. La strategia del ragno (1970), ispirato a Borges, indaga nel terreno scivoloso dei rapporti fra padri e figli, riprendendo sotto una diversa angolazione il discorso di Prima della rivoluzione. La prepotenza finora controllata dell'impulso sessuale esplode libera in quel saggio di decadentismo che è Ultimo tango a Parigi (1972), interpretato da un sonnacchioso Marlon Brando e scambiato da una censura idiota per un film pornografico. Ritorna, mischiata con incongrue velleità politiche (è sempre difficile in Bertolucci il matrimonio fra pubblico e privato) nel fluviale Novecento, Atto I e Atto II (1976), dove si favoleggia della Padania, dei contadini e dei padroni, dei fascisti e degli amori perversi.

GIAN PIERO BRUNETTA

Prima di parlare di Bernardo vorrei spendere alcune parole sui geni della famiglia Bertolucci: ciò che più mi affascina nel lavoro di Attilio, Bernardo e Giuseppe - intesi come figura unitaria, prima che come singole personalità ben distinte tra loro e nel nostro habitat culturale - è la straordinaria apertura culturale, la capacità di mantenere e coltivare i rapporti con le proprie radici e respirare l'aria della cultura internazionale. Detto in maniera più banalmente comprensibile si potrebbe parlare di «cucina culturale fusion» per la loro capacità di coniugare Proust al culatello di Zibello, Hopper e Magritte al lambrusco di Sorbara, Creta Garbo, Marlene Dietrich e Louise Brooks all'amore in genere per la bellezza e a quella femminile in particolare, la fascinazione per il giallo e i fumetti a Roberto Longhi, la musica delle balere a Duke Ellington e Amstrong, Giuseppe Verdi e il melodramma a Berlinguer, Freud e Benigni. Ma anche la naturale dote di fondere, nello stesso calderone alchemico, il senso di epos popolare dei racconti dei cantastorie e cantafavole e i forti gusti della civiltà contadina all'attrazione per Baudelaire, le avanguardie e il dérèglement de tous les sens al piacere del viaggio e dell'avventura culturale nell'altrove, nel cuore di tenebra di realtà lontane e sconosciute, tipico della gente di mare. E ancora di aver coltivato, come dote comune, uno sguardo prensile e onnivoro e sviluppato un occhio capace di viaggiare verso spazi lontani e sentire e raccogliere insieme parole, suoni, rumori, sensazioni tattili, emozioni impercettibili.
Insomma - detto in altro modo - di essere stati gli inventori di una sorta di nouvelle cuisine culturale e cinematografica ante litteram nel centro della vera Padania in cui, partendo da materie prime e tesori della cultura locale, perfettamente assimilati e metabolizzati, sono riusciti a confrontarsi in ogni momento e a competere, senza alcun complesso d'inferiorità, coi prodotti più alti e sofisticati della cucina culturale internazionale.
Sia merito di tutto ciò ad Attilio, padre-padrino, patriarca e pastore del clan e guida nei territori della poesia, delle arti figurative, della musica e ultimo, ma certo non minore, pontilex e iniziatore ai culti misterici del cinema di tutta la famiglia. Anche la madre, comunque, avrà un ruolo non secondario nell'aver spinto i figli verso la regia cinematografica. Rispetto al «familismo amorale» di cui parlano i sociologi considerando le degenerazioni della famiglia della società italiana il loro sembra un perfetto esempio di «familismo morale», un modello alto di concezione del ruolo e delle funzioni del lavoro intellettuale.
Mentre per Pasolini il cinema costituisce un punto d'arrivo, dopo un lungo processo di ricerca espressiva, per Bernardo Bertolucci l'incontro è diretto. Il cinema si presenta, almeno inizialmente, come una cultura egemone. Bertolucci è l'esempio più clamoroso della estrema fecondità del terreno cinematografico di quegli anni. La paternità del suo esordio è ufficialmente attribuita a Pasolini, che pure, a sua volta, ha appena mosso i primi passi come regista.

GIAN PIERO BRUNETTA

Il successo di pubblico e critica non è comunque paragonabile, a nessun livello, con quello dell'Ultimo tango a Parigi del 1972, opera in cui il processo di integrazione nei meccanismi produttivi del cinema americano sembra ormai definitivo (e non solo per il fatto che nella parte di Paul, il protagonista, reciti Marlon Brando). Il film entra di prepotenza nella storia del cinema degli anni Settanta come uno degli esempi più clamorosi di mobilitazione totale dell'opinione pubblica e dei mass media. Al di là dei fasti giornalistici e scandalistici che ne hanno accompagnato la vita e la morte (mi riferisco all'Italia), quest'opera ha interessato più come fenomeno di costume e ha goduto di poche significative analisi.
Ultimo tango a Parigi racconta la storia di un viaggio di conoscenza e scoperta di sé, realizzato estremisticamente all'interno di quattro mura di una stanza e senza quasi alcun appiglio simbolico degli oggetti. I protagonisti, Paul e Jeanne, sono, da subito, posti l'uno di fronte all'altro e, almeno per l'uomo, l'itinerario assume il valore di esperienza decisiva e totale. Per Jeanne, in realtà, non c'è alcun rischio e alcuna posta in gioco. C'è sì anche per lei un itinerario conoscitivo, una scalata e progressione di esperienze, ma nel momento delle scelte quando l'uomo che ha conosciuto nella stanza le parla nuovamente per la strada, lungo lo stesso percorso dell'inizio, è come se lo incontrasse per la prima volta e nulla fosse successo.
La prospettiva che quest'uomo le offre è modesta e priva d'interesse nel momento in cui egli le rivela la propria identità. Jeanne lo uccide cancellandolo dalla sua vita e negandogli perfino un'identità. Con questo film Bertolucci approda in maniera definitiva a uno standard e a un modello cinematografico che non intende più abbandonare.
Quando vara il progetto di Novecento, mette a frutto, mediante un grande affresco epico e corale, tutti i tipi di lezioni e di esperienze finora fatte, dimostrando con l'eccesso di racconto la sua capacità di dominare completamente i meccanismi e le fasi realizzative dell'opera cinematografica. In Novecento lo sforzo maggiore, che si rintraccia a un livello retrostante l'intreccio, è quello di ricomporre, in maniera unitaria, l'immagine della memoria contadina finora offerta soltanto mediante frammenti. Al di là degli effetti truculenti eccessivi di sangue e di violenza, la cui necessità nell'economia del racconto spesso non si avverte (derivati chiaramente da letture tardive degli scritti di Artaud sul teatro della crudeltà), al di là dei meccanismi dell'intreccio in molte parti corrivamente didascalici, si assiste al primo grande tentativo di recuperare il senso di una cultura di una memoria storica la cui presenza si ritrova sempre più solo nei musei della civiltà contadina. Inoltre il poema di Bertolucci, più che respirare il clima storico delle vicende rappresentate, respira il senso dell'epopea e colloca una storia relativamente recente nella dimensione del mito. Inoltre ci trasmette e comunica, anche fisicamente, il senso del legame biologico tra il variare delle stagioni e il mutare dei flussi vitali degli individui. La natura e il paesaggio distendono la loro presenza e assumono un ruolo di protagonisti nell'economia complessiva dell'opera. Come bene ha scritto Pierre Sorlin, «il paesaggio vive in sintonia col destino dei protagonisti».

BARBARA PALOMBELLI

«L'Italia ha perso una grande occasione, dopo Tangentopoli: doveva fare un vero esame di coscienza, capire come mai siamo tutti immersi in un paesaggio affollato di figure corrotte, complici di un sistema che va dalle piccole mance per piccoli favori alle grandi tangenti per grandi appalti. Era questa la rivoluzione morale che tanti avevano immaginato? D'altra parte, agli italiani non si addice l'affermazione della verità storica: ancora oggi, sulla data fondante della nostra Repubblica, il 25 aprile 1945, non siamo stati capaci di vedere i fatti con il distacco necessario. Lo scoprii alla prima proiezione del mio Novecento, un film in cui raccontavo una saga familiare a partire dalla nascita del comunismo in Emilia Romagna. Eravamo nel 1976, in pieno compromesso storico e mi sembrava di dover celebrare un rito, pensavo di rendere omaggio alla storia del Pci. “Paese Sera”, quotidiano comunista romano, organizzò un dibattito con lo storico Paolo Spriano e Giancarlo Pajetta. Alla fine del primo tempo, Pajetta, entusiasta, mi abbracciò. Poi, vedendo le immagini della Liberazione, in cui mostravo anche le vendette private, i processi popolari contro i fascisti, si alzò furioso e se ne andò gridando: “Mi rifiuto di partecipare”. Giorgio Amendola disse che il film era bruttissimo. La Fgci di Walter Veltroni, invece, mi appoggiò. Da allora, la mia tessera del Pci, presa nel 1969 contro l'estremismo filocinese della sinistra extraparlamentare, proprio nel momento in cui ci fu la rottura del partito con il gruppo del “manifesto”, si è andata via via scolorendo... Alla metà degli anni Ottanta ho smesso di rinnovarla, non ero un militante, ho iniziato a vivere più all'estero che qui. Oggi, mi pare di non avere più trasporto politico per nessuno: salverei soltanto Veltroni, perché è capace di guardare al futuro senza dimenticare le radici in cui tutti amiamo riconoscerci.»

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