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Rassegna stampa di Luis Buñuel

Luis Buñuel è un attore spagnolo, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, montatore, musicista, è nato il 22 febbraio 1900 a Calanda (Spagna) ed è morto il 29 luglio 1983 all'età di 83 anni a Città del Messico (Messico).

SERGE DANEY
Libération

D'abord, les chiffres ronds. Buñuel est né en 1900, peu de temps après le cinéma et la psychanalyse. En même temps que le siècle. Il a trente ans lorsqu'il frappe tout le monde de stupeur (L'Âge d'or, 1930). Il en a cinquante lorsqu'il effectue son premier come-back mexicain (Los Olvidados, 1950). Soixante lorsqu'il revient choquer son pays natal (Viridiana, 1960) et soixante-dix lorsqu'il lui dit adieu (Tristana, 1970, sublime). En bonne logique, Buñuel aurait dû mourir en 1990 ou en 2000, mais l'éternité ne lui disait rien qui vaille. “Mourir et disparaître à jamais ne me paraît pas horrible, mais parfait. Par contre, la possibilité d'être éternel me terrifie vraiment.”
Sur l'œuvre de Buñuel, on a eu tout le temps de tout dire. Il y aura toujours des volontaires pour l'interpréter et des naïfs pour penser que le cinéma est fait de symboles. Sur ce qui ne cessa de l'obséder, sa vie durant, il n'y a rien à ajouter. Sur les -ismes qu'il a croisés en chemin (surréal-, commun-, fétich, catholic-, onir-) tout repose déjà dans les histoires du cinéma. Sur lui-même et ce qu 'il a bien voulu en dire, il n 'y a rien à dire: une vie rangée, un mariage réussi, un bon dosage de sérieux dans le travail et de plaisirs simples (le vin, le whisky). Sur son style, il n'y a pas tellement à épiloguer: il a toujours filmé le plus frontalement possible des situations compliquées ayant trait à l'étude de mœurs, à l'éthologie bourgeoise et à la science des rêves. Un documentariste.

DAVE KEHR
The New York Times

WHEN Luis Buñuel, as an aspiring young filmmaker, was running around with the Surrealist brat pack in the Paris of the late 1920s, he most likely participated in one of the group’s famous rituals. Its members would drop into movie theaters in the middle of the feature and stay only until the plot began to become clear, and then they would decamp — off to discover the flow of arbitrary, meaningless images at the theater next door.
Buñuel recreated this discontinuous, disorienting experience in his first two films, both of which provoked gratifying scandals: “Un Chien Andalou” (1929), and “L’Âge d’Or” (1930), both created in collaboration with Salvador Dalí.
While the outrage focused on the films’ sexual and anticlerical content, it may have been Buñuel’s refusal of the conventional link between scenes that audiences found most deeply upsetting. These were not movies that carried the spectator along through a clear train of events and logically ordered emotions, but movies that stopped and started, stuttered and repeated themselves. They didn’t move forward as much as they continually exploded in your face.

ADELIO FERRERO
Cinema Nuovo

1. Il tentativo di rifondazione della critica cinematografica in senso materialistico, avviato dopo il 1968 da alcune riviste francesi con varia e contrastata fortuna, mentre riapriva questioni importanti, dissotterrava anche, soprattutto nel ripensamento storico-attuale di momenti di rottura e di svolta nella storia del cinema (e di altro), un archivio di schemi e sospetti duramente riduttivi. Ovviamente, l'esperienza investita con maggior severità, da queste accigliate riletture fu quella delle "avanguardie" storiche. Il "sospetto" aveva e ha le sue ragioni: in Francia, all'opposto di quanto è avvenuto e avviene da noi, il contributo dell'"avanguardia" al rinnovamento o, persino, alla fondazione del linguaggio cinematografico è stato a lungo enfatizzato, e spesso destoricizzato e distorto, nell'indistinto apprezzamento dei suoi "valori" di novità e di rottura. E, dopo il '68, il rapporto avanguardia-rivoluzione è stato riproposto da alcuni in termini assai confusi, talvolta "viscerali", senza alcun serio riscontro nella teoria e nella prassi delle classi in lotta, e a proposito di esperienze dalle quali veniva se mai, attraverso la letterarietà del "gesto", una confessione di impotenza piuttosto che un ritrovato antagonismo.
Questi, e altri, motivi non autorizzano tuttavia ad accogliere senza profonde e radicali riserve le applicazioni di un riesumato marxismo del "livore", che non porta sul volto la brechtiana "maschera del cattivo", con la sua non-allegra consapevolezza della necessità/relatività della "cattiveria", ma il pince-nez del sacerdote/burocrate dell'ortodossia. Quando poi queste lenti vengano accostate all'opera bunueliana, l'ingrandimento della "ambiguità" dell'oggetto al quale esse si applicano, non potendo produrre decifrazioni a senso unico ma soltanto moltiplicazione dell'ambiguità", induce il sacerdote/burocrate a un accanimento tanto più nevrotico quanto più l'opera continua a riluttare a certe strettoie della classificazione. Così Jean-Paul Fargier, in un articolo senza dubbio interessante e comunque molto "sintomatico", dopo aver cercato di mostrare, attraverso un volonteroso "tour de force" esemplificativo, che in L'âge d'or «la lotta contro la borghesia si dissolve nel mito di Edipo sino a non essere altro che una peripezia dell'assassinio del Padre», è poi costretto ad ammettere che «l'istanza castratrice è designata allo stesso tempo come religione cristiana (qualsiasi religione) e borghese». Ma per concludere: «la forma di avanguardia che è qui in discussione indica, in coloro che la riconoscono e vi si riconoscono, una frazione della piccola borghesia e della borghesia intellettuale che può riavvicinarsi al proletariato. Ma questo riavvicinamento esige una trasformazione radicale, l'abbandono delle posizioni dell'idealismo soggettivo [...], un mutamento di campo» 43.
Se Fargier («Cinéthique») riconduce il Buñuel all'"idealismo" surrealista («... al posto della coscienza di classe è l'Amour (Fou) che si pone quale motore della lotta delle classi, della Storia»), Bonitzer («Cahiers») ammira il Buñuel 1974 non nascondendo impazienze e irritazioni che sottintendono, ancora, sospetto e avversione nei confronti della matrice surrealista (il peccato d'origine?), dalla quale tendono infatti a staccare il regista: «Il fantasma della libertà è infinitamente più surrealista di Les Valseuses» [sic!]; «parlare delle origini surrealiste di Buñuel» significa soltanto «dire niente, delle sciocchezze». Salvo poi abbandonarsi a valutazioni («egli ci dà il desiderio della sovversione, sovversione gioiosa delle convenzioni sociali oppressive di cui siamo, nello stesso tempo, i riproduttori e le vittime...», ecc.) che riconducono proprio alla "continuità", problematica certo e fin dall'inizio messa in forse, come vedremo, di quella "matrice".
2. Nel ricordare, in un colloquio del 1934, i suoi molti progetti irrealizzati, Buñuel confessava anche il più impossibile: «Posso parlare del film che sogno perché non lo girerò mai: ispirandomi alle opere di Fabre, inventerei personaggi altrettanto realistici di quelli che animano Un chien andalou e L'âge d'or, ma che avrebbero le caratteristiche di certi insetti: l'eroina si comporterebbe come l'ape, l'eroe come lo scarabeo, ecc. » ma noi sappiamo che questo film "impossibile" egli l'aveva già fatto, in gran parte, nel 1930.
Un chien andalou si chiudeva sull'immagine della coppia sepolta nel deserto e divorata dagli insetti, L'âge d'or si apre con il "documentario" sugli scorpioni. La scansione delle immagini e del commento, secca e oggettiva, confessa una volontà di approccio "scientifico" che ritroveremo in tutta l'organizzazione intellettuale del film. La bellezza e l'orrore, inestricabili, che promanano dai movimenti avventati e sicuri dello scorpione, l'inarcatura enfatica che incrina l'oggettività della didascalia («che rapidità e virtuosismo fulminante nell'attacco!»), contengono già uno dei nuclei portanti dell'opera: la lotta feroce e mortale dell'istinto e della "natura" per la propria sopravvivenza e affermazione. La lettura del film (riproposta anche da Fargier) come espressione massima della rivendicazione surrealista dell'"amour fou" trova antiche conferme da parte di Buñuel: «emerge l'eccitante conflitto di tutta la società umana fra il sentimento dell'amore e qualunque altro di ordine religioso, patriottico e umanitario; anche qui i personaggi e i paesaggi sono reali, però l'eroe è animato dall'egoismo che rende desiderabili tutte le azioni, escludendo il controllo o altro sentimento. L'istinto sessuale e il sentimento della morte formano la sostanza del film. È una pellicola romantica realizzata con tutta la frenesia del surrealismo». E da questa interpretazione non si discosteranno altre contemporanee (ma anche molte successive) sino alla entusiastica "investitura" di Breton: «Questo film resta, a tutt'oggi, la sola impresa di esaltazione dell'amore totale quale io lo considero, e le reazioni violente scatenate dalla sua proiezione a Parigi non hanno potuto che consolidare in me la coscienza del suo incomparabile valore. L'amore, in tutto ciò che può avere, per due persone, di assolutamente circoscritto a esse, di isolante dal resto del mondo, non si è mai manifestato con tanta libertà, con così tranquilla audacia» ".

FRANçOIS TRUFFAUT

Mi domando a volte se Ingmar Bergman trova davvero la vita così disperata come ce la mostra nei suoi film in questi ultimi dieci anni. Certo, Bergman non ci aiuta a vivere, Renoir sì. A torto o a ragione, ci sembra che un artista ottimista – a condizione che non si tratti di un ottimista oltremodo soddisfatto ma piuttosto di una sorta di pessimista superato – ci sembra dunque che questo artista sia più grande, o più utile ai suoi contemporanei, che il nichilista, il disperato.
Luis Buñuel trova forse il suo posto tra Renoir e Bergman. Credo che Buñuel pensi che la gente sia imbecille ma che la vita sia divertente; ci dice questo con una grande dolcezza e mai direttamente, ma lo dice e questo risulta, comunque, in molti dei suoi film. Se, nonostante la sua scarsa simpatia per i messaggi, Buñuel ha potuto azzeccare uno dei rari film veramente antirazzisti, The young one (Violenza per una giovane, 1960), il suo solo film girato in lingua inglese, è che ha saputo con una grande abilità aggirare la nozione di personaggi simpatici e antipatici e mescolare le carte del gioco psicologico tenendo un discorso perfettamente chiaro e logico.
Lo sviluppo antipsicologico della sceneggiatura buñueliana funziona sul principio della doccia scozzese – alternanza di notazioni favorevoli e sfavorevoli, positive e negative, logiche e insensate – e si applica alle situazioni come ai personaggi.
Anti-borghese, anti-conformista, sarcastica come quella di Stroheim ma più leggera, la visione del mondo di Buñuel è sovversiva, spesso anarcoide.
Prima del 1968 – le cose si sono complicate dopo il mese di maggio di quell'anno –, il cinema di Buñuel piaceva a quelli che reclamano un cinema impegnato e tuttavia André Bazin aveva avuto ragione a scrivere, dopo Los olvidados (I figli della violenza, 1950) che “Buñuel è passato dalla rivoluzione al moralismo”. Buñuel, pessimista allegro, non è dunque un disperato ma un grande spirito scettico. Osservate che non fa mai film per ma sempre dei film contro e che nessuno dei suoi personaggi è mostrato come positivo. Lo scetticismo di Buñuel si esprime contro tutti quelli che hanno un ruolo sociale troppo preciso, tutti quelli che sono animati da una convinzione qualunque. Come gli scrittori del Settecento Buñuel ci dà lezioni di dubbio e credo che Jacques Rivette abbia ragione nel paragonarlo a Diderot. Sullo stato d'animo di Buñuel dietro la cinepresa la testimonianza di Catherine Deneuve nel suo articolo Lavorando con Buñuel ci sarà preziosa: “L'ottica di Buñuel, anche quando filma una storia sgradevole, resta quella dell'humour nero. Buñuel è volentieri canzonatorio, malizioso e ama ridere. Grazie a lui ci si divertiva molto sul set ed era evidente che attraverso il personaggio di Don Lope, magnificamente interpretato da Fernando Rey, costruiva una sintesi di tutti gli uomini di cui ha già fatto il ritratto nei suoi film da Estasi di un delitto a Viridiana, attraverso l'accumulazione di dettagli crudeli, divertenti e spesso intimi”. Sospetto che in effetti Buñuel, quando inventa un personaggio maturo, non un giovane, si diverta ad attribuirgli le idee che giudica le più stupide controbilanciate da pensieri veri, profondi e coerenti, i suoi propri pensieri. È questo che produce il paradosso, distacca dalla psicologia e avvicina alla vita, una fusione di notazioni critiche e notazioni autobiografiche.
In Tristana (id., 1969) due amici di Don Lope vengono a chiedergli di fare il testimone in un duello; quando apprende che il combattimento cesserà alla prima ferita, alla prima goccia di sangue versato, li congeda: “Signori, non tornate più a cercarmi per simulacri di duelli in cui l'onore vale così poco”.

FERNALDO DI GIAMMATTEO

Origine borghese rurale, educazione cattolica, studi letterari, frequentazioni intellettuali (Garcia Lorca, Dalí, Alberti), emigrazione in Francia per unirsi al movimento surrealista: di qua parte il regista che trasferirà nel cinema, senza colpo ferire e ricevendo consensi sempre più ampi, il suo furore e il suo sarcasmo antiborghese, quasi che l'industria e l'establishment altro non attendessero. Questo paradosso governa tutta la attività di Buñuel, dapprima eversore di forme e di morali con i mediometraggi Un chien andalou (1929), e L'âge d'or

ANDRé BAZIN

Il caso di Buñuel è uno dei più curiosi della storia del cinema. Dal 1928 al 1936 Buñuel non realizza che tre film, di cui un solo lungometraggio, L'âge d'or; ma questi tremila metri di pellicola sono integralmente dei classici di cineteca, senza dubbio, con Le sang d'un poète, ciò che è meno invecchiato nell'avanguardia e, in ogni caso, la sola produzione cinematografica di qualità superiore e d'ispirazione surrealista. Con Las Hurdes, «documentario» sulla miserabile popolazione delle Hurdes, Buñuel non rinnegava Un chien- andalou; al contrario, l'oggettività, l'impassibilità del reportage superavano l'orrore e i poteri del sogno. L'asino divorato dalle api raggiungeva una nobiltà di mito mediterraneo e barbaro che val bene i prestigi dell'asino morto sul pianoforte. Così Buñuel si stacca come uno dei grandi nomi del cinema della fine del muto e degli inizi del parlato - al quale può essere paragonato solo quello di Vigo - nonostante la rarità della sua produzione. Ma da diciotto anni Buñuel sembrava essere definitivamente scomparso dal cinema. Non lo aveva portato via la morte come Vigo. Semplicemente lo sapevamo vagamente inghiottito dal cinema commerciale del Nuovo Mondo, dove, per guadagnarsi da vivere, faceva in Messico oscuri lavori di terz'ordine.
Ed ecco d'un tratto che ci arriva da laggiù un film firmato Buñuel. Oh! peraltro un film di serie B! Una produzione girata in un mese per diciotto milioni. Ma, finalmente, in cui Buñuel era stato libero della sua sceneggiatura e della sua realizzazione. E il miracolo si è compiuto: a 18 anni e 5000 km di distanza è lo stesso, l'ineguagliabile Buñuel, un messaggio fedele a L'âge d'or e a Las Hurdes, un film che sferza lo spirito come un ferro rovente e non lascia alla coscienza alcuna possibilità di riposo.

UGO CASIRAGHI

Eppure La via lattea è anche un'opera di libertà assoluta e di incantevole fantasia. Basta vedere con quale sinuosa grazia, con quale stupefacente naturalezza il regista si muove nella vastissima materia, lungo la via maestra dell'intuizione di fondo: il pellegrinaggio di due "barboni" dei giorni nostri, l'anziano Pietro che si dice credente e il giovane Giovanni che si proclama ateo, da un sobborgo di Parigi al santuario di San Giacomo di Compostella in Spagna. A piedi o con l'autostop, riempiendosi la pancia dove e come possono, chiedendo la carità o lanciando maledizioni, i due evocano sul loro cammino ogni sorta d'incontri. Essi rimangono sempre gli stessi, affamati e lasciati ai margini dalla società cristiana, che in duemila anni non ha cambiato le loro condizioni. Sulle autostrade corrono le macchine, ma i pellegrini hanno la bisaccia a tracolla e le scarpe rotte, come gli eroi - cari al cuore di Buñuel - della novellistica picaresca del Rinascimento spagnolo.
Hanno però, come quelli, lo stesso potere d'immaginazione e di racconto. Il panorama storico si alterna a quello geografico, spazio e tempo vengono continuamente rivoluzionati, il Cristo e gli apostoli battono i medesimi boschi, dal buio Medioevo al secolo dei lumi il salto è leggero, le scene del passato cui i pellegrini assistono potrebbero essere reali oppure svolgersi davanti ai loro occhi come in una mascherata, c'è sempre un sospetto di magia in tutto quanto accade. È la magia del regista, che avvolgendo il tutto di sottile ironia e, insieme, di comprensione serena, non ha praticamente limiti di creatività: il suo stile padroneggia la materia dall'alto di una concezione razionale che ricorre a tutti gli elementi irrazionali in grado, secondo i dettami del surrealismo, di più compiutamente illuminare la realtà.
Il film ha, come sempre in Buñuel, una durata normale, ma l'intensità della sintesi che l'artista ottiene anche nelle scenette più brevi rende estremamente arduo il compito di raccontarlo. Non che l'opera sia difficile né come linguaggio (è anzi limpida come acqua sorgiva) né come contenuti. Solo è tremendamente, diabolicamente ricca. È una specie di corsa a ostacoli in cui ogni ostacolo potrebbe essere rappresentato da un articolo di fede, che il corridore scavalca senza toccarlo né abbatterlo, ma mostrandolo nelle sue sfaccettature, nei suoi pericoli, o nelle sue conseguenze. Con lievità squisita, con il sorriso continuamente presente e
senza alcuno sforzo da parte dell'atleta; gli svariatissimi frammenti sono legati insieme dal filo rosso e nero (di cui è cucita la bandiera degli anarchici) di una contestazione ad alto livello, eseguita da un cinema che è nello stesso tempo tradizionale ed estremamente moderno; che incessantemente ricrea nel proprio interno continue zone di libertà, episodi in sé compiuti, rifiniti, classici, e tuttavia non sciolti dall'idea di base, che è il rapporto tra dogma ed eresia e, attraverso esso, l'amaro, allucinante bilancio di due millenni di violenze, di costrizioni, di ingenue e sanguinose fedi, o di eleganti e vacui scetticismi.
Tuttavia l'autore non fa affatto il tragico. Ciascun eretico, ciascuna eresia porta in sé negazioni o revisioni di qualche dogma, e giù botte, roghi, impiccagioni, massacri. Ma Buñuel trasvola (anche se certi dettagli suggeriscono tutto) perché ciò ch'egli vuol mettere in rilievo è altro. Da una parte l'assurdità di quelle disperate e grottesche contese, e dall'altra il permanere, nel lungo corso dei secoli, di uno stesso potere costituito, molto più stabile del mutare delle sfumature ideologiche. Una religione gestita ad uso e consumo del popolo, credente o meno, ma sempre sottoposto a quel potere "politico". Cosicché ogni tentativo di unire il popolo, anche attraverso i credenti di diverse fedi, viene ritenuto eretico si, ma soprattutto pazzesco: come si vede nel divertente aneddoto del prete matto, che appena detto «tutti siamo cattolici, i musulmani sono cattolici, gli ebrei sono cattolici», è immediatamente riportato in manicomio.

UGO CASIRAGHI

Si può raccontare un poema surrealista? L'âge d'or lo è, e il suo autore è Luis Buñuel trentenne. I suoi interpreti sono Gaston Modot, poi prediletto da Renoir e da Becker, e Lya Lys scomparsa come una meteora. Buñuel aveva già fatto Un chien andalou (titolo che non ha alcun significato) con Salvador Dali, e la borghesia reagì con applausi. Fece da solo L'âge d'or, e la borghesia non glielo perdonò.
Il film si apre come un documentario sugli scorpioni e si chiude su un'invettiva antireligiosa in puro stile marchese de Sade. Tra scheletri onorati di vescovi e scheletri dimenticati di ribelli, si fonda una moderna Roma imperiale (il potere della Chiesa, il potere del capitale) e due amanti si avvoltolano nel fango in piena cerimonia. L'uomo e la donna vengono divisi a stento dalla forza pubblica, ma la forza della loro passione (la forza eversiva dell'amour fou) travalica spiritualmente ogni barriera autoritaria, ogni tabù. Materialmente, però, il mondo borghese cui gli amanti appartengono, blocca la consumazione del desiderio. Non resta che il grido di rivolta, tanto più necessario quanto più degradante e immorale è il persistere d'una società repressiva.
Questa povera sintesi a introduzione di un film di un'ora, che si può solamente vedere e che è tutto fatto di momenti folgoranti. Se si svolge un ricevimento in villa, chi si accorge dell'incendio che scoppia in un locale della servitù? Chi, tra gli invitati che sorseggiano cocktails, nota un carretto con cavallo e contadini che bevono vin rosso, anche se traversa il salone? E chi si meraviglia che il guardacaccia uccida con una fucilata il figlio, quando lui spiega che la sbadataggine del ragazzo, irrispettoso dell'autorità paterna, gli ha rovinato la sigaretta che stava arrotolandosi?
L'età dell'oro è evidentemente quella che si potrebbe raggiungere, se non ci fossero le schiavitù che ci sono. Un'utopia, dunque. Ma anche il film come tale divenne qualcosa di irraggiungibile, di mitico, almeno fino al 22 gennaio 1987, quando la televisione italiana colmò finalmente un vuoto storico, mostrandolo al pubblico più largo, con cinquantasei anni ai ritardo, in una memorabile serata su RaiTre. In precedenza, per le ragioni che diremo, c'erano state soltanto rarissime proiezioni culturali private. Eppure il film maledetto di Buñuel, il suo più libertario e più boicottato, era l'opera-chiave per la comprensione stessa dell'intero cammino artistico di un genio del cinema come lui. Senza L'âge d'or, quello sbalorditivo percorso era mutilato del suo tassello essenziale.
Ma sull'opera pesava da sempre una selva di divieti. A partire dall'anno stesso in cui fu girato e presentato, il 1930, che non fini senza il suo sequestro. Il prefetto di Parigi Chiappe lo tolse di mezzo ai primi di dicembre, prendendo volentieri a pretesto le violente aggressioni clericali e fasciste allo "Stadio 28" che lo programmava, e accogliendo gli appelli pressanti della stampa reazionaria. Buñuel se ne ricorderà nel 1963, nel finale del Diario di una cameriera, quando a gridare «viva Chiappe!» sarà lo stupratore assassino.
Al veto dell'autorità costituita - contro la quale, religiosa o militare, politica o poliziesca che fosse, il film del resto si sbizzarriva con durissimo sarcasmo - si aggiunse poi il veto legale, giuridico, che va raccontato perché ha un sapore anch'esso "buñueliano". Bisogna sapere che l'intera "trilogia surrealista" si dovette a finanziatori eccezionali: la madre del regista per il cortometraggio Un chien andalou (1928); un operaio anarchico spagnolo, fucilato nel 1937 dai franchisti, che offrì il danaro vinto a una lotteria per il documentario Terra senza pane (1932); mentre L'âge d'or, punta di diamante del trittico, ebbe un mecenate nella persona del visconte Charles de Noailles. Costui mise a disposizione un milione di franchi e non batté ciglio neppure quando Buñuel rifiutò la sola condizione da lui posta: che fosse Stravinskij a comporre le musiche. «Mi dispiace molto - replicò il regista - ma come potrei collaborare con un tizio che si butta in ginocchio battendosi il petto? Non deve neanche pensarci».
Il generoso aristocratico fece buon viso a questo rifiuto e, quando il film fu realizzato, non si scompose nemmeno allo scandalo che ne derivò. Buñuel gliene serbò per sempre gratitudine, com'era suo costume e come provano le sue memorie. Ma qualche tempo dopo il nostro visconte si convertì al cattolicesimo, e la sua novella coscienza impose anche a lui di non far vedere in giro un'opera così eretica. Fatto sta che neppure in climi più democratici, dal Fronte Popolare in avanti, il film poté essere sbloccato. Non solo, ma chi volle pubblicare la sceneggiatura - come la rivista l'Avant-Scène nel 1963 o il volume Einaudi del 1974, dedicato a Sette film buñueliani di cui il primo era appunto L'età dell'oro - non poté ricostruirla fedelmente passando il film in moviola, ma dovette accontentarsi del testo antecedente alle riprese.

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