Tinto Brass (Giovanni Tinto Brass) è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, montatore, assistente alla regia, è nato il 26 marzo 1933 a Milano (Italia). Tinto Brass ha oggi 91 anni ed è del segno zodiacale Ariete.
Ha una dichiarata passione per le belle donne e per il cinema erotico. Ma la tentazione cui il regista veneziano non riesce davvero a resistere sono i sigari. un amore per cui, anni fa, perse letteralmente i sensi.
«Wonderful performance». Così disse sir Arthur John Gielgud, tra i più importanti attori shakespeariani d'Inghilterra, quando vide la reazione di Tinto Brass al suo primo vero cubano. «Eravamo a cena, durante le riprese di «Caligola» racconta il regista veneziano «e mi offrirono un sigaro. Nonostante, all'epoca, fumassi quattro pacchetti di sigarette Gauloises senza filtro al giorno l', esperienza fu drammatica. Ebbene, mentre parlavo con il mio attore Malcolm McDowell, assaggiai il cubano. L'effetto fu tale che finii con la testa nel piatto, perdendo i sensi. Fortunatamente a pochi passi c'era un mio amico zingaro, una sorta di guardia del corpo che ogni tanto ancora oggi lavora con me. Ci pensò lui a soccorrermi. Mi riempì la schiena di cazzottí violentissimi e piano piano sono rinvenuto. Anche se un po' m'è dispiaciuto perdere quelle visioni di giostre e caroselli che avevo nella trance. Gielgud non aveva capito niente: pensava fosse recitazione. Macché. Quella sera è nata l'avversione per le sigarette e il mio amore profondo peri sigari con tabacco Havana. Era il 1976».
Questo il ricordo della prima volta del regista (tra gli altri) di La chiave, Miranda e Così fan tutte, che nel nuovo anno sarà sul set di Vertigini, avventura erotica tra un suocero e sua nuora: «Sarà un discorso sulla lussuria come antidoto al dolore, come aspirina contro l'horror vacui. Un'escalat on di lussuria per resistere alla società moderna, distratta, scioccamente televisiva. Ovviamente anche in questo film non mancheranno scene di sigaro, lo considero il mio tocco autobiografico».
Come al solito, dal 1976. «Non posso rinunciare alla sensualità del sigaro. Fumare soddisfa l'olfatto, quando ne senti l'aroma. Il gusto, quando l'assaggi. Il tatto, quando con le dita tocchi le foglie che ardono. È un vero piacere fisico. Io fumo i torpedo, quelli a forma di siluro. La stessa forma che usava Bill Clinton al tempo della scappatella con Monica Lewinsky».
Mai pensato di trasgredire e r. provare la pipa?
«Della pipa apprezzo il profumo che si spande nell'ambiente e che coinvolge chi sta intorno. Ma non mi piace la maniera in cui il fumo raggiunge la bocca. Preferisco quello arroventato di una boccata a contatto diretto con il tabacco. Attenzione, però, a non accendere il sigaro con accendini a benzina o zolfanelli. Meglio usare cerini da cucina, che non infettano con la loro puzza».
Non sarà che il rituale del sigaro è più potente?
«Be' sì. Il sigaro si palpeggia, si sente la sua freschezza, si apprezza la stagionatura. Puoi vedere se è chiaro o scuro. A me piace di più quello chiaro, fatto di foglie non trinciate ma arrotola` te interamente. Ecco, il tabacco delle sigarette è un tabacco morto, e certo non può dare le stesse sensazioni».
Quanto tempo assapora il sigaro prima di accenderlo?
«Dipende dal giorno, dal momento. Direi che ë fondamentale d anzitutto dare una bella leccata, per essere sicuri che le foglie che lo compongono non si rompano. In genere quelli che fumo io durano circa 45 minuti e, prima di fumarli, li assaggio per un paio di minuti. Come fossero i preliminari del fare l'amore: è importante che durino ...Vorrei aggiungere solo che, per capire se un sigaro è buono, basta vedere se produce una cenere grossa che non si stacca. Segno di una combustione lenta e prolungata».
Con quale tipo di cesoia taglia il cappuccio prima di fumare?
«Con quella a ghigliottina. Mi permette di calibrare quanto profondo dev'essere il taglio sulla punta del torpedo. Quando invece uso un altro tipo di sigaro 'posso anche staccarlo con un piccolo morso. Quelli che fumo io hanno tabacco Havana, ma veingorio' confezionati in Nicaragua, eppure si trovano anche in Italia.' Il mio fornitore è l'Angolo delle tentazioni a Ostia. Lì c'è un caveau sufficientemente umido per conservarli. E, come sempre fa chi ha un vizio, cerco di evitare di andarci troppo spesso. Così ne compro cinque scatole per volta e posso fumare tranquillamente cinque sigari al giorno. E non mi venga a dire che è un vizio costoso, come mi rimproverano soprattutto tutti quelli che consumano cocaina...».
Brass, meglio fumare in piedi o seduto in poltrona?
«Dappertutto, comunque. Fumo sul set, quando sono da solo, in compagnia. Il sigaro è la prolunga della mia anima, non un vezzo estetico».
Le piace accompagnarlo con un liquore?
«Se capita: non è obbligatorio. Dopo cena però è perfetto gustare un buon sigaro bevendo un bicchierino di Calvados».
Quanto piace alle donne un uomo che fuma sigari?
«Bisognerebbe chiederlo a loro. Ma so che le donne alle quali non piace l'uomo che fuma il sigaro non amano neanche fare sesso. Non sono grandi amanti».
Le sarà capitato che qualcuno le abbia detto no proprio perché fuma tanto...
«Sì, c'è stato un uomo che mi ha detto no ed è l'attore Donald Sutherland. Si è rifiutato di recitare in un mio film solo perché fumo il sigaro. Lui lo detesta ed è stato intransigente».
Da Il Venerdì di Repubblica, 25 gennaio 2008
Tinto Brass, Tinto Brass... Comincio col dire che mi piace il nome. Sono intuizioni che ben difficilmente «go wrong». Vorrei tanto sapere se è parente, figlio, nipote di Italico Brass. Brass è un pittore veneto: giuliano, anzi, come lascia supporre subito il primo nome: Italico. È nato, infatti, a Gorizia, nel 1870, è morto a Venezia nel 1943. Era un pittore, fino a una trentina di anni fa, almeno in Italia notissimo. Domiciliato a Venezia, dipingeva quasi esclusivamente paesaggi veneziani e scenette d'ambiente veneziano, con molta bravura e piacevolezza postimpressionista: con una pennellata franca, rapida, allegra, sciabolante, quasi furiosa.
Il bello è che gli stessi aggettivi potrebbero essere riferiti al modo di girare di Tinto. Anche questo primo nome, Tinto, fa pensare a un abbreviativo di Tintoretto, o di Tintor: e che, perciò, in qualche modo, gli sia stato imposto a causa di Italico. Né il presagio del nome fallì. Se mai, da quando il cinema esiste, il modo di girare, cioè il modo di usare la macchina da presa, è stato rivelatore e caratteristico di una personalità, questa è proprio la volta. A parte il valore estetico, di cui poi diremo, non esiste nessun altro film italiano e straniero, da me visto, che mostri un cinema più lontano dalla forma teatrale e più vicino a quella letteraria pura. Se fosse uscito soltanto dieci anni fa, questo film avrebbe fatto gridare dallo stupore. Ma è certo che, in questi dieci anni, a poco a poco, tutta una schiera di registi, sempre meno timidamente, ha svincolato il cinema dalla maniera rigorosamente oggettiva di un'azione drammatica che si svolga attraverso personaggi apparentemente autonomi, per avvicinarlo alla maniera di un racconto, di una divagazione, di una serie di riflessioni, che avvengano nell'animo di un personaggio che dice «io», e che è, o più o meno, assimilato all'autore medesimo del film, ossia al regista. Abbiamo visto che tale maniera, tanto in voga nella letteratura narrativa di oggi, è stata adottata anche dall'Anderson in Io sono un campione. Tuttavia, le sensazioni e i ragionamenti del protagonista, in questo film, erano organizzazioni intorno a uno schema di racconto drammatico abbastanza tradizionale: ricordiamoci che Anderson viene, appunto, dalla regia teatrale. Nel film di Brass, invece, il racconto e il dramma, che esistono, sono immersi in una forma addirittura diaristica, rotti a ogni istante dal ritmo apparentemente casuale delle divagazioni e delle associazioni personali: come non accade neppure nel più moderno dei drammi e come, invece, è prerogativa di tanti romanzi di oggi: per non fare che esempi italiani: Pavese, Vittorini, Brancati...
E il modo di girare è perfettamente conseguente a questa concezione diaristica, soggettiva, corsiva del cinema. Chi è l'operatore? Anche se l'operatore è una persona distinta dal regista, è come se non lo fosse, data l'incessante frenetica mobilità di panoramiche e carrelli: sembra che non esista, l'operatore, e neppure il fonico, né gli altri tecnici: il regista sembra solo con la sua materia, tanto vi si immerge e assottiglia dentro. La macchina da presa guizza in mano di Brass più veloce di qualunque penna e, caso mai, come un pennello: un pennello, però, che non ferma sulla tela le immagini ma, al contrario, le esprime proprio nello spa-smodico moto con cui cerca di rincorrerle.
E devo dire che, in questa estrema mobilità della macchina da presa di Brass, è proprio il suo limite. Intendiamoci. Se pensiamo a Ford, al Ford di My darling Clementine, dove non c'è neanche un carrello, neanche una panoramica: ma soltanto, dal principio alla fine del film, inquadrature ferme e bloccate, con un rigoroso montaggio che le lega, le une alle altre, scattando di volta in volta sull'oggetto, l'azione, il gesto che nell'attimo del taglio è più importante e più visibile: se pensiamo alla maniera classica dei quadri fermi, Chi lavora è perduto è addirittura una mostruosità inguardabile. Riconosciamo, invece, che Brass è un artista proprio perché muove sempre la macchina, quasi seguendo il serpeggiare stesso del pensiero e dei sentimenti del protagonista. Spinge questo rigore a raffinatezze estreme: per esempio, dovendo inserire, tra due delle mille sue panoramiche, un primo piano che, normalmente, sarebbe immobile, ne fa, contro ogni apparente logica, un piccolo carrello avanti o indietro: appunto perché la macchina non si fermi mai: perché la realtà scorra, scivoli, sgusci senza tregua, o almeno sussulti, ondeggi, oscilli. Non a caso Brass è veneziano: e non si sbaglia a citare Noventa: Co fa barche che, ligàe, pur se move per un gnente...
Ma, a tutto questo, abbiamo detto, c'è un limite: ed è quando il movimento della macchina da presa da la nausea, il mal di testa, il mal di mare allo spettatore. Purtroppo, capita molto spesso. Altrimenti, avremmo un film meraviglioso! Brass, tutto immerso nella propria ispirazione, non si accorge di essere non dico incomprensibile (è sempre chiarissimo) ma inguardabile. E come uno scrittore che scriva un romanzo in forma di diario: e, questo diario, lo presenti come buttato giù «non perché qualcuno lo legga, ma soltanto perché colui che scrive si sfoghi». Evidentemente si tratta di una finzione. Brass, troppe volte, si dimentica che si tratta di finzione: scrive davvero soltanto per sé: appunti, scarabocchi veloci, allusioni fuggenti... e il lettore, o lo spettatore, per via della mobilità, fatica a seguire.
Un altro paragone. Dal finale dell'Ulysses in poi, quanti scrittori hanno creduto di dovere fare a meno delle virgole, dei punti, degli a capi! Il modo è valido: alla condizione, però, che gli a capi, i punti, le virgole, sebbene non segnati, e anche se meno importanti del solito, ci siano lo stesso, nella prosa: siano dentro la serie medesima delle frasi, così che il lettore possa capire e respirare. Insomma, non c'è arte che si sviluppi nel tempo, come la musica, la letteratura, il cinema,e
che non abbisogni di una «scansione» più o meno palese. Tinto Brass ha creduto, troppe volte, di poterne fare a meno: e quando la sua macchina continua a danzare mentre lo spettatore sente un impellente bisogno che si fermi, allora lui ha sbagliato, e la sua opera è imperfetta.
Ma l'episodio d'amore, tutto, com'è riuscito! Il pezzo di Ginevra! E l'avvilupparsi mobile dei due amanti che più non si amano, e si accarezzano angosciosamente a vicenda, come cercando di ritrovare la scintilla, ormai perduta, del piacere! E il cimitero! E lo spirito inesauribile delle battute, per cui tutto il pubblico, anche il meno sofisticato, si diverte e ride!
Bravo, bravissimo Brass: sono sicuro che il suo prossimo film sarà «una cannonata». Solo, stia più attento alla musica. Lei, che componendo la sua colonna sonora ha dimostrato tanta sensibilità, e nel dialogar veneziano, e nei rumori, e stupendamente nell'atroce, pauroso, lacerante rombo delle auto che passano davanti ai due amanti quando litigano all'uscita della clinica di Ginevra, lei, per piacere, dica a Piero Piccioni, un'altra volta, di scavare più a fondo nella materia musicale dell'ambiente, prima di ricorrere a soluzioni convenzionali. Piccioni, che è intelligentissimo, e lo ha dimostrato anche nel galop iniziale e finale, non doveva accontentarsi di ripresentare, come tema del film, una contaminazione del Terzo uomo. Non doveva fermarsi alla prima osteria. C'era l'ultima osteria. Era la buona. Era la musica di una canzone popolare giuliana che sembrava fatta apposta: Chi che lavora no gà mai gnente, xé mejo passegiar: chi che passegia, no gà mai gnente, xé mejo lavorar.
Sei versi che contengono tutta la storia, e tutta la morale del film. Ecco qua l'aria, che è bellissima, e perfettamente intonata a questo perplesso, trasognato inno alla vita oziosa: bisogna immaginarla cantata da un ubriaco che avanza, ondeggiando lento su una salizzada, a notte alta: 29 marzo 1964
Da Cinematografo, Sellerio Editore, Palermo, 2006
L'aggettivo che la critica adotta in maniera concorde per definire l'opera prima di Tinto Brass, Chi lavora è perduto, del 1963, è «anarchico»: il film pare contenere una rabbia, uno spirito di rivolta e di rifiuto di ogni forma di stabilizzazione sociale, ideologica, istituzionale, da apparire diverso da tutta la produzione degli altri esordienti. C'è chi però tenta di capovolgere il discorso comune, per vedere come il film metta in opera una quantità di atti di mediazione superiori a quelli di rottura. La rottura, in pratica, non sarebbe altro che scelta di un punto di vista esterno alla dinamica del mondo contemporaneo: «Da Venezia questo film guarda il mondo - scrive Michelangelo Notarianni - il capitalismo, il comunismo, la Svizzera, il proletariato, la borghesia, la Chiesa, lo Stato, la fabbrica e il manicomio, le contese ideologiche del nostro tempo». Sullo sfondo della prima opera di Brass restano effettivamente questi e altri temi, mentre in primo piano c'è una storia fatta di tanti segmenti in parte irrelati tra loro, come scomposta è la vita del protagonista. Brass, a suo modo, cerca di raccontare come l'alienazione sia ormai un male diffuso e lo fa sorridendo e seguendo il suo protagonista che deambula per le calli di Venezia ripetendo la frase «Che stanco che so'».
Le opere successive sono destinate a deludere le attese di una critica che avrebbe puntato, non solo sulle capacità professionali di Brass, ma anche sul mondo da esprimere che il suo primo film racchiudeva e prometteva.
Lo sfondo non è scomparso, ma ha assunto un ruolo sempre più indefinito e il regista ha sfumato la sua carica di protesta, firmando non poche cambiali in bianco e ipotecando gran parte della sua intelligenza in cambio dell'ascesa nei cicli della produzione. Il secondo lungometraggio (Il disco volante, 1964) è tuttavia opera di tutto rispetto per molti versi inquietante e profetica, per altri dotata di umori e aromi sconosciuti nello stesso calderone della commedia ed è uno dei film più significativi per capire i mutamenti prodotti dall'avvento del miracolo economico sull'Italia contadina e in particolare sul Veneto colpito da un benessere che ne sconvolge tutti i paradigmi morali, religiosi ed economici. E Sordi regala a questo film quattro ruoli diversi quasi volendosi confrontare con il grande Guinness.
Il terzo film è un lavoro di montaggio e documentazione di tutti i grandi fenomeni rivoluzionari di questo secolo, dal titolo Ça ira (II fiume della rivolta). Il fiume di immagini trasmette l'idea di fondo del regista sul concetto di rivoluzione, ma lo fa trascinando materiali ideologicamente assai limacciosi.
Poi la carriera del regista segue un suo cursus produttivo, mescolando ideologia, erotismo, violenza, facendo emergere una curiosità crescente per motivi sado-masochisti. Dal western del 1966 (Yankee) si passa al giallo Col cuore in gola (1967), al film in cui Brass tenta di tradurre sullo schermo l'eroe dei fumetti di Crepax, Philiph Rembrandt o Neutron (Nerosubianco), per poi mutare ancora prospettiva con La vacanza del 1971, Salon Kitty del 1976 e Io, Caligala del 1979. Queste due ultime opere - pur non essendo colpevoli di aver inaugurato ignobili filoni sulla scia del loro successo - mostrano, da parte del regista, un assorbimento pressoché totale nella sfera erotica e nelle sue perversioni. Per quanto da lui ampiamente giustificata come un'operazione liberatoria e di trasgressione di molti tabù, questa fase del suo lavoro lo porta (nonostante viaggi col suo bagaglio di alta professionalità e col bagaglietto di giusti alibi ideologici) a diventare il regista per eccellenza del cinema erotico italiano.
Le sue tutt'altro che trascurabili capacità di regista vengono nuovamente messe in luce nella trascrizione del romanzo del giapponese Tanizaki, La chiave, opera che ottiene un grande successo di pubblico perché fa compiere, al filone comico-erotico di tipo voyeuristico-masturbatorio dei film con Edwige Fenech e Renzo Montagnani, Gloria Guida, Lino Banfi e Alvaro Vitali, un salto di qualità stilistico-culturale. La dimensione soft-porno è legittimata dalla qualità dell'opera di riferimento e dall'impegno registico, che si nota non solo nelle scene degli incontri ravvicinati dei corpi ma nelle riprese en plein air di Venezia che ci appaiono tra le più affascinanti e sofisticate del cinema che ha portato la macchina da presa nella città dei Dogi. Brass è il profeta e la guida verso i paradisi dell'eros del cinema italiano e tutta la sua filmografia degli anni Ottanta si specializza sempre più e subisce un processo di progressiva fecalizzazione su primi piani e dettagli di seni prosperosi e incontri sempre più ravvicinati con gli organi sessuali e le prospettive di giganteschi sederi femminili la cui superficie deborda regolarmente dai limiti dello schermo. Per lui Venere è solo Pandemia. Miranda, Capriccio, Snack Bar Budapest, Paprika possono essere anche visti come varianti dei sermoni domenicali da parte di un missionario della libera religione sessuale se non risentissero e non fossero vere e proprie operazioni di nostalgia e inni alla civiltà scomparsa delle case chiuse. Brass realizza un tipo di soft-porno che si può considerare l'equivalente sofisticato delle riviste in carta patinata per soli uomini. I corpi femminili vengono disposti all'interno della scena non tanto avendo come modelli i menù della nouvelle cuisine, quanto adottando una formula casalinga, qualcosa di mezzo tra i fast-food e la trattoria per camionisti. Brass, soprattutto a partire da Miranda, gioca sulla quantità e non dissimula un proprio divertimento personale. La sua concezione del sesso rimane comunque una delle poche rigorosamente laiche e libertarie e delle meno vissute all'ombra dei confessionali e dell'idea di peccato, di confessione, pentimento e ciclica ricaduta. Inoltre va riconosciuto a Brass il merito - non secondario - di concepire i suoi film unicamente per un pubblico cinematografico. Se anche questa fosse la sua sola virtù sarebbe sufficiente a suscitare se non l'ammirazione e il plauso almeno un piccolo doveroso atto di simpatia. Certamente la sua visione del sesso maschilista e gioiosamente post-goliardica appare tra quelle meno vissute all'ombra del confessionale e meno toccate da sintomi patologici, che invece traspaiono nella morbosità della rappresentazione di molti altri registi del dopoguerra, anche se il suo rimanere su una linea di confine rispetto alla dilagante pornografia fa sì che il suo cinema appaia sempre più come un prodotto di nicchia e sempre più anacronistico rispetto al mainstream pornografico. Tra le sue ultime opere Monella del 1998 e soprattutto Senso '45 (2001) che pare segnare un ritorno delle sue ambizioni registiche che vengono esibite nell'irriverente e quasi blasfemo confronto con Rossellini (di cui viene citata la scena della morte della Pina di Roma città aperta), Visconti, Kubrick, Pellini, ma anche la cura nella ricostruzione dell'ambiente veneziano negli ultimi mesi di Salò, la ridefinizione visiva del contesto in cui ambienta la sua rilettura della novella di Boito, reintegrandone la forte componente erotica originaria che era invece stata pressoché eliminata da Visconti.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007
Nato da una severa famiglia di origine giuliana, e nipote del pittore Italico Brass, Tinto Brass si trasferì giovanissimo a Venezia. Nel 1957 si laureò in Giurisprudenza a Padova. Appassionato di cinema più che di giurisprudenza, sul finire degli anni Cinquanta trascorse un biennio come archivista alla "Cinémathèque" di Parigi, avvicinandosi agli ambienti della nascente Nouvelle Vague. In seguito tornerà in Italia come aiuto-regista di Alberto Cavalcanti.
Già assistente di maestri del cinema del calibro di Roberto Rossellini e Joris Ivens, esordì nella regia con il lungometraggio In capo al mondo (1963), anarchico apologo sul disagio giovanile, del quale curò anche la sceneggiatura e il montaggio. Con una sorta di "anarchismo umoristico" il film narrava circa i disagi di un giovane che stenta ad integrarsi nella società, ma questa insofferenza verso il potere e le sue istituzioni non venne apprezzata dai censori dell'epoca, che gli imposero di rigirare la pellicola da capo. Per tutta risposta Brass gli cambiò solo il nome (lo denominò Chi lavora è perduto), rendendo ancora più esplicito il messaggio politico-sociale.
Dopo essere stato coinvolto, con alterni risultati, in alcune produzioni di carattere commerciale (la fiaba "fantascientifica" Il disco volante del 1964; La mia signora con Alberto Sordi del 1964, un film collettivo del quale firma due episodi accanto a Luigi Comencini e al suo estimatore Mauro Bolognini; lo spaghetti-western Yankee del 1966), il regista tornò a moduli espressivi più intimi con i successivi Col cuore in gola (1967), L'urlo (1968), Nerosubianco (1969; nella cui locandina il regista, scrivendo in stampatello le lettere dalla seconda alla quinta, creava un emblematico gioco di parole), Dropout (1970) e La vacanza (1971), ultimo film brassiano in cui l'erotismo non la fa da padrone.
Il sesso ed il suo particolare rapporto col potere e col denaro diventa invece tema centrale di Salon Kitty (1975), film impregnato di atmosfere che ricordano quelle di Luchino Visconti e Liliana Cavani, e della ricostruzione storica Io, Caligola (1980), che ebbe una produzione ed un montaggio travagliati. La propensione per il grottesco contraddistingue Action (1979), beffarda ed autobiografica riflessione sul rapporto che lega arte e pornografia.
Deciso ad abbandonare il cinema "serio" (o "serioso", come dice lui) per dedicarsi alla commedia erotica all'italiana, nel 1983 Brass girò La chiave (con Stefania Sandrelli, tratto dal romanzo dello scrittore giapponese Tanizaki Jun'ichir), spostandosi poi gradatamente verso una trattazione sempre più disinvolta dei tabù dell'erotismo. Questa pellicola, che ebbe un buon successo di pubblico e di critica (cosa più unica che rara nella sua filmografia), fece entrare Tinto Brass nell'olimpo di tale particolare genere cinematografico, rendendo però molto controversa la sua figura specialmente tra le femministe (che gli rimproveravano una certa considerazione della donna come oggetto) e le classi sociali più tradizionaliste. Puntualmente accompagnati da un alone di scandalo escono infatti Miranda (1985, con Serena Grandi, rivisitazione de "La Locandiera" di Goldoni), Capriccio (1987, con Francesca Dellera), Paprika (1991, con Debora Caprioglio). Le piccanti discussioni e le roventi polemiche che i suoi lungometraggi suscitano contribuiranno a rendere famose le sue attrici protagoniste.
Più recentemente però la ripetitività di schemi e situazioni pare aver progressivamente affievolito l'interesse e la curiosità che il pubblico aveva nei confronti delle sue opere. Dopo Così fan tutte del 1992, che rese celebre Claudia Koll, Brass sfornò nell'ordine L'uomo che guarda (1994, liberamente tratto da un romanzo di Alberto Moravia) forse il suo film più crudo, l'autobiografico Fermo posta Tinto Brass (1995, in cui era anche attore), Monella (1998),Tra(sgre)dire (2000) e Senso '45 (2002, con Anna Galiena), rilettura in chiave erotica ambientata a Venezia nel 1945 di Senso, il racconto di Camillo Boito dal quale Luchino Visconti aveva tratto nel 1954 l'omonimo film.
A 70 anni gira anche Fallo! (2003, con Sara Cosmi e Raffaella Ponzo), film a episodi d'ispirazione boccaccesca che in quanto a trama non si differenzia molto dagli altri, mentre il successivo Monamour del 2005,con protagonista Anna Jimskaya attrice russa, e Nela Lucic, esce direttamente in DVD l'anno successivo.
Nell'aprile 2007 Tinto Brass aveva annunciato il soggetto di un nuovo film, Vertigini: la storia di un anziano professore veneto che, caduto in depressione, ritrova la vitalità quando scopre di avere una forte attrazione erotica verso la giovane nuora. Il progetto però non parte. Agli inizi del 2008, Brass dichiara di voler girare un altro film, dal titolo Ziva, l'isola che non c'è: è la storia di una donna che vive su un'isola croata con il marito durante la seconda guerra mondiale. Conosce alcuni soldati di varie nazionalità, e li convince a disertare la guerra.
Per il ruolo della protagonista Brass sceglie Caterina Varzi, una avvocatessa che il regista veneto ha incontrato per caso (la Varzi curava gli interessi legali di una società di distribuzione che voleva preparare ed editare un dvd dedicato alla carriera di Brass).
Le riprese del film partiranno (dopo un rimando a giugno 2008) nella primavera 2009. Per le location esterne la Croazia e Venezia.
Intanto, tra dicembre 2008 e gennaio 2009, Tinto Brass cura la regia di una serie di cortometraggi erotici destinati a SKY, riuniti nella collana tv "Il favoloso mondo di Tinto Brass". Tra le attrici di uno degli episodi figura anche Caterina Varzi, la protagonista dell'imminente Ziva, l'isola che non c'è.
Un esperimento simile c'era già stato nel '99, quando Tinto Brass supervisionò 12 cortometraggi erotici, dal titolo "Corto-circuiti erotici", distribuiti tra la fine del '99 e gli inizi del 2000. E che avevano visto tra le protagoniste: Silvia Rossi, Francesca Nunzi, Yulia Mayarchuck, Raffaella Ponzo, Loredana Cannata.
Tinto Brass ha anche collaborato con la rivista Penthouse ed è stato solo attore nei film La donna è una cosa meravigliosa per la regia di Mauro Bolognini (1964) e Lucignolo diretto da Massimo Ceccherini (1999). Nel 1964 ha inoltre diretto il suo unico documentario politico: Ça ira - Il fiume della rivolta.
Nel giugno 1971 firmò la petizione del settimanale "l'Espresso" contro il Commissario Luigi Calabresi ed altri funzionari della questura e del tribunale di Milano. Nell'ottobre 1971 fu tra i firmatari di un'autodenuncia pubblicata su Lotta Continua in cui esprimeva solidarietà verso alcuni militanti e direttori responsabili del giornale inquisiti per istigazione a delinquere a causa del contenuto violento di alcuni articoli, impegnandosi a «combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato»[1][2].
Ha presentato nel settembre 2006, a Napoli, un libretto di 22 pagine, Elogio al culo, in cui vi sono molte perle di saggezza, come: «il culo è lo specchio dell'anima»; «mostrami il tuo culo e ti dirò chi sei»; ecc. Il libro è stato distribuito su ampia scala nell'aprile 2007. La moglie di Tinto Brass, la veronese Carla Cipriani (detta Tinta), sua assistente e collaboratrice in quasi tutti i suoi film, è deceduta a Merano il 9 agosto 2006.