Vsevolod Pudovkin (Vsevolod Ilarionovic Pudovkin). Data di nascita 28 febbraio 1893 a Penza (Russia) ed è morto il 30 giugno 1953 all'età di 60 anni a Riga (Lettonia).
Mosca, 1935. Il primo Festival cinematografico sovietico, il «Kinofestivalia», raduna ogni sera i massimi registi russi, i maestri del periodo eroico. Eisenstein è il più tormentato. Sotto l'altissima fronte, sormontata da un ciuffo arruffato, il suo sguardo s'infossa, sembra a ogni istante adirarsi; e se parla ha qualche scatto di precipitose parole, seguite da un corrucciato silenzio. Dovcenko, invece, il più giovane, è assorto, quasi trasognato; il suo volto roseo, poco più che trentenne, rischiarato da uno sguardo dolce, s'incornicia di una chioma ad aureola, soffice e candida, quasi da albino. Mentre Pudovkin è la certezza fatta persona, tutto in lui esprime una sicurezza un po' altera e un po' lieta, che non ammette il minimo dubbio.
Alto, ossuto, due occhietti nerissimi e lucenti sotto una fronte sbozzata da un duro legno, il naso vorrebbe puntare all'insù, ma è ricondotto verso le labbra sottili, guardate dagli zigomi un po' mongoli. Parla martellando le sillabe, in un francese un po' lento, metallico. Quando il suo pensiero ancora non gli pare evidente, china il capo, preme la palma di una mano contro la palma dell'altra, come due esatti strumenti che debbano coincidere; fin quando, con un, secco «C'est ça», si raddrizza di scatto, e stabilisce, enuncia. È stato anzitutto un uomo di tecnica, un ingegnere; e dalla fabbricazione della pellicola è giunto a infervorarsi di cinema, al quale ha dato alcuni film che resteranno, e fra questi un capolavoro, La madre. Soggettista, sceneggiatore, tecnico, regista, attore, teorico, il suo nome è giustamente celebre in tutto il mondo; e se ne sta in quest'angolo con le mani dietro la schiena, il capo eretto, lo sguardo fisso dinanzi a sé, come un ingegnere può stare per qualche minuto all'ingresso del suo stabilimento, mentre entrano i suoi operai.
I suoi principi sul montaggio sono ormai fondamentali, da due mesi è uscito il suo volume sull'interpretazione, per l'anno venturo sarà tradotto in inglese e in giapponese: Assurdo studiare un film - mi dice - e poi prendere attori, anche bravissimi, e cominciare senz'altro. Gli attori sono strumenti nelle mani del regista; ma devo no prima essere, come dire, c'est ça, perfettamente accordati. Se il regista non è un ottimo accordatore ben difficilmente sarà un regista. Lei sa che mi piace dire: tradurre un film. Tradurlo dal soggetto, in pellicola. Ebbene, prima di tradurre un film, faccio subire ai miei attori due, tre mesi di prove. Ma non con frammenti, episodi del film. Con i personaggi. Sono due strade molto diverse. Il film, di quei personaggi, sarà una sintesi in una determinata vicenda e in determinati ambienti; ma come quegli stessi personaggi reagirebbero in altre circostanze, in altre vicende? L'attore non deve ciecamente ubbidire a un regista-padrone più o meno nevrastenico; deve invece esattamente sapere «chi» ha da vivere. Il personaggio deve ossessionarlo, non è possibile creare sullo schermo un personaggio vitale senza, c'est ça, aver appreso a odiarlo e ad amarlo, con ogni energia. È soltanto allora, che si può cominciare. Io facevo già così, per conto mio, quando ero attore. E poi, in fretta. Il film è maturo. Bisogna coglierlo. Non è più il tempo di scrivere la sinfonia; siamo in orchestra, bisogna farla eseguire.
Così lo ricordo, così mi pare ancora di ascoltarlo. Aveva allora quarantadue anni, era nel massimo suo vigore. In quei giorni era assai fiero, l'illustre tovarisc-maestro era stato appena insignito dell'ordine di Lenin, la rossa stella gli sbocciava all'occhiello. E ora è morto, a sessant'anni, dopo aver vissuto, lui sempre così sicuro, qualche ora di dubbio, forse di sconforto. (Non molto tempo fa, in seguito a una spietata autocritica, si era indotto a rinnegare alcune delle sue predilette teorie). Ma probabilmente, in questi ultimi mesi, aveva potuto sentire attorno a sé come una nuova atmosfera, quasi una diversa comprensione. Con lui scompare una delle massime figure che il cinema abbia avuto, una delle pochissime alle quali debba di essere un'arte.
(1953)
Da Film visti. Dai Lumière al Cinerama, Edizioni di Bianco e Nero, Roma, 1957
Frequenta a Mosca, dove la famiglia del padre commerciante si è trasferita, la facoltà di ingegneria, si specializza in chimica. Ferito e fatto prigioniero dai tedeschi durante la guerra, evade, torna a casa e trova lavoro come chimico. Si iscrive alla scuola di cinema, collabora con Vladimir Gardin e, soprattutto, con Lev Kulesov, dove apprende in concreto i rudimenti del linguaggio. Dopo un paio di film trascurabili, si rivela regista di grandi qualità tecniche con tre opere che si succedono senza interruzione nel corso di un triennio: La madre (1926), da Gorkij, La fine di San Pietroburgo (1927) e Tempeste sull’Asia (1928). Sono storie della rivoluzione e della successiva guerra civile, incalzanti e solide, pervase certo di entusiasmo sociale (nonché di indignazione contro lo zarismo) ma meno manichee di quelle di altri registi sovietici. Pudovkin rivolge lo sguardo non tanto alla struttura in trasformazione quanto agli individui che ne sono i protagonisti.
Cosi tenterà di fare anche in seguito. Non sempre vi riuscirà, sia per la scelta di temi artificiosi e schematici - come nel caso dell'enfatico Il disertore (1933), storia della emigrazione di operai tedeschi in URSS - sia per i vincoli insuperabili fissati dal potere politico, come quando è chiamato a cantare glorie patriottiche (L'ammiraglio Nakimov, 1946). Non è un oppositore, è semplicemente un uomo di cinema che cerca di applicare i canoni storiografici del marxismo alla materia viva della ricostruzione filmica dei fatti e degli ambienti, quando più che la teoria conta la verità. Del problema s'è occupato anche in alcuni saggi preziosi, sulla tecnica del film e sulla recitazione (in Italia Umberto Barbaro li raccolse nel volume La settima arte). E sempre ha dovuto lottare per non tradire né l'arte (e se stesso) né il marxismo cui totalmente aderisce. La felicità espressiva dei tre grandi film muti (del primo, in particolare) la ritroverà alla fine, in quel 1953 che vede la sua morte e la scomparsa di Stalin. Con Il ritorno di Vasilij Bortnikov anticipa il «disgelo» che verrà, analizzando le ragioni e i sentimenti di uno sconfitto che deve arrendersi, soffrendo, alla ineluttabilità di un amore da ricomporre, nel segno della vita e dell'avvenire.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995