Luigi Zampa è un regista, scrittore, sceneggiatore, co-sceneggiatore, assistente alla regia, è nato il 2 gennaio 1905 a Roma (Italia) ed è morto il 16 agosto 1991 all'età di 86 anni a Roma (Italia).
Luigi Zampa preferisce da tempo far polemica in chiave umoristica, anche se uno dei film, dopo Anni facili, che più lo raccomandarono all'attenzione della critica fu La romana, ambiziosamente tratto dall'omonimo romanzo di Moravia; in genere la sua polemica è caustica, puntata, spietata, ma per la ironia di cui si veste raggiunge il bersaglio senza ferire in modo eccessivo; sia che, rifacendosi a un fatto di cronaca, tenti, come nel Vigile, una satira largamente ispirata al costume contemporaneo, sia che, come negli Anni ruggenti, parodia di un noto testo letterario, riproponga con fermezza, ma anche con gusto, la caricatura degli anni della dittatura fascista, visti in un'atmosfera che pur suscitando il riso, non sa separarsi volutamente da una nota sconsolata di amarezza; con rigore, asciuttezza, schiettezza di modi.
Non si può però dimenticare, in un campo più direttamente farsesco, quel Ladro lui, ladra lei, con cui Zampa, nel 1958 ci evocò le gesta quasi in chiave di ballata ironica, di una famiglia di ladri: con un brio, un'allegria, una malizia francamente spigliati e divertenti; in un
clima a mezza via tra l'umorismo e il grottesco che, pur facilissimo, semplice, senza sofisticherie, non è mai vieto né convenzionale; tanto sono nuove e vivaci quelle caricature di ladri, tanto sono ghiotti, esilaranti, ameni i vari « colpi » compiuti dallo scanzonato protagonista che ingenuo, fanciullone, ma anche qua e là scaltrito tenta ad ogni istante di imitare passo passo le gesta del padre e come lui, ad ogni passo, finisce sempre in prigione, tra la pacata indifferenza della madre ormai abituata a quel va e vieni per tradizione familiare.
Alternata a questi casi ameni, c'è anche una tenue storia d'amore - la « ladra lei » che alla fine diventa onesta e convola a oneste nozze - ma è la parte meno vivace del racconto, la più debole, forse la meno schietta. Quello che conta è il resto, le evoluzioni cioè di quella pittoresca tribù di ladri svolte sempre da Zampa con una spigliatissima arguzia e un impegno che, se da una parte non gli ha fatto lesinare macchiette e situazioni di festosissimo gusto, dall'altra gli ha consentito piacevoli notazioni psicologiche e dialoghi lietamente umoristici.
Da Cinema italiano 1952-1965, oggi, Carlo Bestetti Edizioni d’Arte, Roma 1966
Al contrario di Castellani, Luigi Zampa non si trova spiazzato agli inizi del nuovo decennio: anzi, senza perdere il contatto con il livello medio alto della produzione, vede germogliare elementi del suo cinema disseminati negli anni Cinquanta e lui stesso ha la possibilità di proseguire e coltivare un tipo di racconto che gli è congeniale. Zampa e chi ha lavorato con lui negli anni Cinquanta si è posto il problema della rappresentazione del ritratto dell'italiano e della misurazione dei rapporti variabili con le istituzioni. La vena della satira e del grottesco si salda in lui a una risentita consapevolezza civile (che gli viene dal sodalizio con Brancati con molta probabilità), che si manifesta non con risultati omogenei ma con discreta continuità. Il regista non parte dal personaggio, ma dal contesto, dal tema, e usa l'intreccio e il personaggio come esatta misura e reagente dei problemi del contesto. Dalla corruzione politica alla disfunzione dell'assistenza medica e ospedaliera, dalla crisi dell'identità religiosa, alla rappresentazione della mafia e delle sue ramificazioni nella società, Zampa - spostando sul piano della satira temi drammatici - ha continuato a tener vivo il senso di una grande passione e l'esigenza di lottare contro i residui parassitari e arcaici della società italiana. Tra i titoli ricordo Il vigile (1960), Anni ruggenti (1962), Una questione d'onore (1966), II medico della mutua (1968), Contestazione generale (1970), Bisturi: la mafia bianca (1973), Gente di rispetto (1975). Se Germi è andato alla scoperta dei vizi della sconosciuta provincia Veneta con Signore e signori, Zampa, con Questione d'onore, va alla scoperta dell'ancor più sconosciuta ed estranea Sardegna. Vale la pena ricordare come la voce fuori campo, in apertura del film offre un quadro dell'isola: «La Sardegna è una terra di 24.084 kmq, 967.000 abitanti, 4.500.000 pecore e 82.000 pugili e 36.250 carabinieri».
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007
[...] C'è stato un momento, quando Adriana e l'amica sono nella losca trattoria di campagna con Astarita e l'altro, e bevono e ballano col grammofono, e fa caldo, e c'è un'aria amara e greve e pigra, c'è stato un momento in cui proprio ho detto: - Perbacco! L'ha imbroccata! - Ero stato fino allora sul chi vive, per vedere se riusciva a ingranare, e ecco, questa scena, questa seduzione a freddo, a bocca storta, con quella sciatteria romanesca e disgustata, era il tono giusto di Moravia, d'un Moravia più recente ancora della Romana, il tono dei Racconti romani che Zampa aveva indovinato in pieno.
E poi quando andavano via in macchina e il dialogo e la recitazione procedevano stentati, legnosi - e avevamo fresca nella memoria l'immagine d'un'altra scarrozzata di due coppie vista poche sere prima, in Touchez pas au grisbi, tutta disinvoltura gergale, gioco di sfumature facili e scoperte - ancora ci dicevamo, ecco questo è lo stile del film duro e sgradevole, che ce ne importa di Grisbi e del suo mestiere: qui si vede che c'è qualcosa da dire. Poi Adriana che aveva ricevuto i soldi andò a casa e si buttò sul letto a piangere, e allora dicemmo: - Be', è tutto il contrario di Moravia. Adriana non è quella pigra e sana creatura che passa come intatta attraverso le esperienze più oscure senza che le albeggi mai un dramma, una coscienza di peccato se non sentito come condizione di natura? Qui hanno voluto moralizzarla, ricondurla al risaputo "cliché" della traviata col dramma interiore, piena di retti sentimenti ecc., ma l'importante è che stia in piedi come film; che importa che sia Moravia o non Moravia, se invece di Moravia Zampa ci ha detto un bel drammone popolare, con dentro il sapore di quell'Italia sudata, poliziesca e corrotta, ha fatto una gran cosa, più utile ancora.
Entrò in scena Mino, un personaggio preso subito di petto, dichiarato, caricato al massimo per far capire anche ai sordi che è il moralista, il giovane con i pensieri fissi a un punto, a un ideale, e con una maschera come quella di Gélin che poteva assimilarsi a un certo tipo d'intellettuale anche italiano. E dicemmo: - Ecco, Zampa non è uno che va per il sottile, le sue caratterizzazioni saranno magari sforzate, però di personaggi come questi il cinema italiano ne ha bisogno, quest'immagine dell'antifascista moralista non è entrata nella tipizzazione popolare, è ancora sconosciuta ai più, e Zampa la volgarizza, la acquisisce alla conoscenza del pubblico, a una sistemazione storica spicciola. Col professore di Anni facili l'antifascista moralista è ancora una macchietta, qui comincia a diventare, anche se un po' rozzo, un po' stridente, un personaggio.
Così cercavo di secondare il film, di scavargli la sua via un po'- dalla parte di Moravia, un po' dalla parte di Zampa, di rimontare le secche in cui procedeva a fatica. Arrivai fino alla scena in cui Mino, liberato, confessa il suo tradimento: e allora dovetti pur a malincuore arrendermi, lasciare che andasse avanti come voleva lo spettatore non poteva aiutare più, non aveva più gli elementi in mano. In quel punto, qualcosa s'era definitivamente rotto, e s'era rotto perché non er~~abbastanza solido da prima: quei personaggi non erano abbastanza saldi sulle gambe, e adesso giunti al punto d'un grosso cambiamento, d'una specie di acrobazia, in cui il coraggioso e fanatico e moralista ci dichiara invece d'essere un debole, un incerto, un ,pavido,. ce lo dichiara a parole in una lunga battuta, senza che noi siamo preparati, senza che ci sia stato dato di accumulare sul suo conto sospetti e ansietà, di vederlo alla prova senza che vediamo niente di lui, se non la sua faccia che racconta con una acre sfiduciata crudeltà autodenigratoria la sua viltà, allora il personaggio si spezza e si spezza tutta la fiducia che avevamo riposto nella vicenda.
Anche in Anni facili il moralismo del professore aveva una "défaillance" che lo perdeva: ma prima di arrivarci potevamo assistere a un lento, tenace logoramento nella resistenza di quel brav'uomo in un mondo di corruzione e di facile guadagno: potevamo pesare tutti gli elementi che l'avevano determinato. Qui invece tutto è gratuito. Mancato sul piano dell'adesione all'opera letteraria, il film si rivela mancato anche come autonoma rappresentazione drammatica di costumi contemporanei, perché le ragioni della sua vicenda non sono immediate e suggerite spontaneamente dallo sviluppo stesso dei fatti, ma rimandano continuamente alle ragioni del romanzo, senza le quali restano arbitrarie. Neanche di quel tanto di "romanzaccio" che c'è in Moravia verso la fine, e, che poteva essere colto al volo da Zampa per scantonare sul piano dell'abilità di mestiere, si è voluto approfittare. Frenato dall'impostazione "grigia" data alla sua regia, Zampa ha voluto restar misurato anche dove un po' più di calore sarebbe stato necessario.
Ora la domanda che dobbiamo porci è questa: potevamo aspettarci di più? L'incontro Moravia-Zampa poteva darci frutti migliori? Certo se c'è scrittore poco cinematografico è Moravia: la sua forza è tutta in un particolare rapporto con l'umanità; gli ambienti, i sentimenti, senza il quale dei suoi romanzi e racconti non resta nulla. Soldati con La provinciale ci aveva dato qualcosa che era diametralmente l'opposto di Moravia, cioè un Moravia fogazzariano. A Zampa si doveva chiedere altro: c'era una storia d'una popolana dalla carne sana e dalla coscienza torbida, con intorno il cattolicesimo lassista della Roma barocca e la volgarità cinica della Roma ministeriale; c'è il funzionario fascista, c'è un giovane intellettuale paralizzato da una coscienza troppa complicata, c'è un bruto al di qua della coscienza. Poteva Zampa prendere questa materia e rimpastarla usandola spregiudicatamente, dirci qualcosa di semplice e di fondamentale sugli italiani, com'è capace a fare lui, qualcosa delle cose che sente lui sul piano della moralità comune, dell'uomo della strada, e che e tanto importante fissare, esprimere in caratterizzazioni precise?
Zampa è un regista che ci interessa sempre, proprio per questa sua capacità di dare immagini tangibili agli umori, al moralismo pessimista dell'italiano medio, al suo giudizio su epoche recenti, e creare maschere contemporanee comiche o drammatiche, dall'Onorevole Angelina col marito poliziotto al funzionario di ministero di Annifacili con la moglie ex donna fatale del regime. Il suo incontro con Brancati è stato particolarmente fortunato, ma la formula delle commedie d'attualità non è il solo registro di Zampa: lo si è visto in Processo alla città rappresentare un drammatico e complesso nodo di rapporti sociali con grande sicurezza. Nel cinema italiano che trae il suo maggior vigore dalla formazione letteraria e culturale dei suoi artisti migliori, Zampa ha un contatto con la realtà che non è di tipo letterario; è un regista che viene dalla parte del pubblico, non seguendolo passivamente ma interpretando e in qualche misura dirigendo le sue opinioni con un intento di moralità un po' scettica, un po' romanesca, ma che è anch'essa un fatto reale.
Dei fatto che Zampa in questo film s'esprima in modi che non sono i suoi naturali, la colpa va data innanzitutto alla sceneggiatura: mi dispiace per Moravia e Bassani ma il difetto è tutto nella loro impostazione così sguarnita e schematica. In un testo siffatto poteva forse ritrovarsi un regista che punti su un'intensità fredda e disadorna come Antonioni, ma Zampa ci gelava. (Per non dire degli errori, degli inciampi: quel tentativo di partita a carte tra Mino e Adriana in un momento di tensione, che si giustificherebbe solo in un contesto tutto intellettualizzato e nervoso). Però e un fatto che Zampa nella sceneggiatura ci ha creduto: e ha voluto fare il film così, ha voluto castigare la sua vena. Niente Roma, che legando la storia a un paesaggio ne avrebbe dato una giustificazione ambientale; niente fascismo, ridotto alla burocratica apparizione d'un ritratto di Mussolini nello studio di Astarita e a una "cimice" all'occhiello del medesimo; scarsa descrizione di costume della società italiana.
Astarita, questo personaggio che nel romanzo porta con sé tutto il greve odore di polizia di secoli di servitù italiana, nel film ha conservato solo la tristezza sensuale con cui Moravia ce lo fa comprendere e al di là del disprezzo storico umanamente compatire. è un melanconico signore (ottimamente impersonato da Raymond Pellegrin) annoiato del potere che ha nelle mani, che porta con dignità il peso della sua passione tra lussuriosa e sentimentale, e che si comporta con grande umanità: come già è stato detto, è l'unico personaggio che ci fa bella figura. Sarà tutta colpa della censura, questo sbiadimento? Io credo che questo tenersi lontano dagli aspetti più facili di descrizione di costumi dell'epoca poteva essere un criterio sano, ma doveva servire a mettere in primo piano la rappresentazione morale, quel volto dell'autorità poliziesca e burocratica italiana che era fascista prima che il fascismo nascesse e lo è restata dopo che il fascismo è morto.
Altra occasione perduta è l'autista (un Franco Fabrizi in cui la bolsaggine morale che vorrebbe impersonare resta allo stato di impreciso pallore), che doveva aprire uno spiraglio sui quartieri ricchi di Roma, sul mondo delle ville: quella visita di Adriana alla villa vuota poteva essere una gran cosa, e non lo e. Così Sonzogno (il lottatore Tontini) staccato da un minimo di cornice popolare che lo sostenga, resta ancor più che nel romanzo, puro espediente dell'intreccio. Alla fine ci dovrebbe essere un inseguimento e morte sui tetti; e si direbbe che Zampa; intimidito dai tanti precedenti americani, non ci si metta nemmeno, se la sbrighi più alla svelta che può.
Sono giunto fin qui senza nulla dire della Lollobrigida, cuore del film, sua ragione prima, lustro e vanto dei produttori e del pubblico fanatico che quasi la linciò dall'entusiasmo davanti al Palazzo del Cinema. Ne ho taciuto perché ne penso male? No, ne penso tutto il bene che merita, pur senza levarla alle stelle, e appunto per questo voglio parlarne con la serietà e anche la modestia che essa ha dimostrato impegnandosi in questa difficile parte. Gina Lollobrigida vuole diventare una brava attrice, vuole lavorare bene; sono doti tanto rare oggi, in tempo di sfoggio astratto di venustà e di superficiale improvvisazione. In Pane, amore e fantasia era una pastorella d'Arcadia; qui ha voluto essere una vera donna: pare abbia imposto, anche a costo di alterare il personaggio moraviano, determinate scene che, a suo parere, lo rendevano più "umano" e "popolare". I suoi criteri saranno discutibili, ma l'esigenza che la muove è comprensibile. La sua bellezza un po' irreale pare respingerla verso figure di convenzione; lei invece cerca il suo personaggio ben preciso nella realtà sociale italiana.
Pensiamo che l'interpretazione della Romana le abbia servito molto a precisare il tipo di popolana italiana che lei può riuscire a comprendere e a definire, e la situazione umana in cui può farlo muovere, tra l'accettazione passiva d'una sorte tradizionale e la presa di coscienza risentita e generosa. Non possiamo che incoraggiarla su questa via.
Da Cinema Nuovo, a. III, n. 43, 25 atttembre 1954