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Rassegna stampa di Michael Cimino

Michael Cimino è un regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, è nato il 3 febbraio 1939 a New York City, New York (USA) ed è morto il 2 luglio 2016 all'età di 77 anni a Los Angeles, California (USA).

EDOARDO BRUNO

Una calibro 20 per lo specialista segna l'inizio di un percorso filmico, fatto di fughe, di violenza, di amicizia tra uomini (Clint Eastwood e Jeff Bridges) e soprattutto di aria e di luce, in un rapporto preciso tra spazi e memorie. Michael Cimino apre così questa nuova pagina del cinema Usa, debutta, con Scorsese, Coppola, in quello che è stato chiamato il secondo tempo del cinema di Hollywood e con Il cacciatore (The Deer Hunter) continua questo 'ritorno al genere', in una oscillazione tra revival e cronaca, riallacciandosi a quel 'gran romanzo' che Douglas Sirk, Elia Kazan, Vincente Minnelli, Georges Stevens, William Wyler avevano lentamente costruito sul tronco della commedia classica. Ripropone la narrazione come elemento preminente, la dilagazione dei fatti, la durata nel tempo e si ricollega, in un certo modo, al Padrino di Coppola, che a sua volta riscopriva l'importanza analitica di un lungo sguardo che trasferisce i segni espressivi sulla durata e sulla ripetizione. E qui occorre ripensare all'importanza, in un cinema diegetico, del ruolo giocato dagli attori, (Marlon, Brando, Robert De Niro) proposti come dati significanti, in una struttura quasi continua e sul valore dell'accadimento, della tenerezza e del sogno. Gli emigrati, la famiglia, l'amarezza (e il ricordo degli emigrati dall'Armenia in America America di Kazan) si saldano a questi emigrati russi de Il cacciatore, alla loro vita collettiva, in fabbrica, in casa, in guerra e dopo. È strano come non si sia afferrato, da parte della critica, questo aspetto melico del discorso di Cimino, questo ritorno alla saga, alla storia come storia di ognuno, alla tenerezza dei sentimenti. Come nei film di Douglas Sirk (e penso soprattutto a Tempo di vivere e tempo di morire) lo spazio e la durata acquistano spessore e rilevanza, divengono struttura portante, mentre l'intreccio si estende per tutto il tessuto che ricompone l'ottica persistente della diegesi americana. Non è tanto la violenza della guerra (una guerra per di più lontana e non sentita come la guerra nel Vietnam) che ha rilevanza, nel film, quanto la dimensione del crescere dentro, di muoversi nel tempo con un senso inarrestabile e una profonda malinconia per il lento degradarsi delle cose: si pensi alla visione di Hanoi distrutta, fuori e dentro, dal fuoco, dallo sfruttamento, dal consumismo importato, dall'indifferenza. Metafora di un malessere profondo, del vivere nella paura e nel rimorso, il ritorno del protagonista nell'inferno di Saigon, la sua discesa all'inferi per riprendersi l'amico senza il quale "non poteva più andare a caccia', e la sua morte suicida, disperata ed inutile, come l'ultima pallottola sparata nella guerra di secessione nella Tortura della freccia di Fuller, risolvono in una dimensione fantastica il mito di Orfeo.

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