•  
  •  
  •  
Apri le opzioni

Rassegna stampa di Michelangelo Antonioni

Michelangelo Antonioni è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, montatore, assistente alla regia, è nato il 29 settembre 1912 a Ferrara (Italia) ed è morto il 30 luglio 2007 all'età di 94 anni a Roma (Italia).

ROBERTO SILVESTRI
Il Manifesto

Produsse anche grande noia, come solo pochi genii sanno fare, e perfino illustre scherno critico. Francis Coppola ironizzava sui suoi primi esperimenti digitali e Carmelo Bene gli consegnò a Taormina nell''82 un virtuale «premio per la comicità involontaria», imitando, però, sarcastico, i peggiori critici della terra. Come Vincent Canby, del New York Times che, forse imbeccato dalI'Fbi, stroncò ZabriskiePoint, trovando «unintentionally funny» la grafica sessuale dell'orgia nella Death Valley o l'esplosione «assurda» della villa wrightiana. O, peggio, Penelope Gilliatt che aveva scritto sull'Avventura: « Antonioni è un socialista. ma i suoi film dimostrano che non crede troppo nelle capacità sociali dell'individuo. Nel suo mondo ieratico le relazioni sono sempre insoddisfacenti, il sesso umiliante e la conversazione è una misura d'emergenza, abitualmente condotta schiena contro schiena o attraverso una prospettiva distante di soglie». Lo poteva fare Kazan, non piu comunista, ma Antonioni no, nonostante l'esperienza con la « metodista» Betsy Blair sul set del Grido? Troppo indocile ai sacri valori lui. Blasfemo quando trattava i neon di Los Angeles come il paesaggio di Ravenna (ricostruendo un paesaggio con grinta rinascimentale) o quando disse, in conferenza stampa Usa: «Non credo che l'amore sia eterno» . Ciò che piu irritava e irrita oggi è il suo estremismo scopico.

ARIANNA DI GENOVA
Il Manifesto

Dipingevo già da bambino, ma allora erano volti: quello di mia madre, di mio padre, di Greta Garbo. Il mio mai, perchè non so vedermi. Alcuni anni fa ho dipinto altri volti, tutti sconosciuti, amici immaginari. Uno di questi l’ho tagliato in tanti piccoli pezzi e poi l’ho ricostruito. Il risultato: una montagna. È così che ho cominciato». Sarà poi la Biennale di Venezia del 1983 a presentare la sua serie sulle Montagne incantate, sorta di blow up di ciò che non si vede e deborda prepotentemente dall'inquadratura cinematografica per approdare su carta, in un mix di pittura, fotografia e collage.

SILVANA SILVESTRI
Il Manifesto

L'Italia assente dai paesi della Nouvelle Vague europee ha avuto in Antonioni (e Rossellini ad aprire la strada prima di lui) l’anticipazione dei nuovi linguaggi. La composizione del suo spazio cinematografico nasceva, prima che dal set, dalla carta stampata, dalla critica. Antonioni - era infatti una delle firme della rivista «Cinema» diretta da Vittorio Mussolini, appartenente al gruppo della fronda, si diceva anche allora, e talvolta anche in linea, come in una celebre recensione al film Suss l’ebreo di Veit Harlan, presentato al festival di Venezia del '40, anche se non entrava nel merito delle tematiche razziali, ma solo in quelle ritmiche, un po' come Della Volpe quando scriveva di «Estetica del carro armato». Ferrarese fresco di istituto tecnico, di Littoriali, con una tesi alla facoltà di Economia e Commercio su «I problemi dell'econornia politica dei Promessi Sposi», collabora al «Corriere Padano», non termina un documentario sulla casa di cura per malattie mentali a Ferrara, invece Gente del Po girato in tempo di guerra, montato con il materiale salvato, sarà presentato alla Mostra di Venezia del '47 (e poi avrà il Nastro d'argento per N. U.). Nel periodo precedente la guerra era andato in Francia come aiuto regista di Marcel Carné per la versione italiana di Les visiteurs du soir, mandato dalla Scalera su consiglio di Arata il direttore della fotografia incontrato al Centro sperimentale (un semestre frequentato) che lo inizia al grandangolo e all'uso estremo del bianco. Tra i giovani che scrivevano su «Cinema» alcuni avrebbero fatto il nuovo cinema italiano, come Giuseppe De Santis e si differenziavano dalle altre riviste per le loro prese di posizioni teoriche (come la difesa di Ossessione di Visconti). È a partire da quegli anni che Antonioni cominciò a elaborare il suo linguaggio. Il suo è un complicato processo di revisione globale dell'estetica di propaganda politica. Il nostro cinema di quegli anni, pur se aveva moltissime vie di fuga che lo rendevano sorprendente, dimostrava anche di saper costruire perfette macchine inattaccabili a ogni possibile fuoricampo (Luigi Chiarmi fu tra i primi che provò a intaccare il perfetto involucro, in Via delle cinque lune. Uno degli elementi del cinema di propaganda è il linguaggio perfettamente chiuso in se stesso così da non lasciare spazio al fuori campo. Un po' tutti i migliori registi del dopoguerra partirono in esplorazione di questo famoso fuori campo che non si poteva intaccare, chi con le tematiche proibite, chi con la scelta di personaggi lasciati fuori scena (i poveri, i pensionati, gli operi).

ALBERTO CRESPI
L'Unità

Morendo - a quasi 95 anni - il giorno dopo Ingmar Bergman, Michelangelo Antonioni lascia il mondo orfano dei due artisti che più hanno contribuito a fare del cinema un'arte adulta, un pezzo importante della cultura modema, un argomento da intellettuali. Ma se per Bergman tale definizione era al tempo stesso restrittiva ed esagerata, per Antonioni era giusta e doverosa. Michelangelo Antonioni è stato molto semplicemente il più grande cineasta italiano di tutti i tempi, assieme a Federico Fellini, Vittorio De Sica e Roberto Rossellini.
Ciascuno, però, è stato grande a modo suo. Fellini è riuscito nel miracolo di raccontare l'Italia senza distogliere lo sguardo dal proprio inconscio. Rossellini, in quella stessa Italia, si è voracemente tuffato inventando, al contrario di Fellini e Antonioni che sono artisti poco imitabili, un modello di cinema riciclabile senza il quale non sarebbero esistiti il neorealismo, la Nouvelle Vague, il Free Cinema, la Nuova Hollywood. De Sica è stato il sommo guitto, capace di girare Ladri di biciclette e, contemporaneamente, di scoprire Alberto Sordi e tener testa a Totò. Ad Antonioni, in questo Pantheon, spettava assieme a Visconti il ruolo dell'intellettuale. Con due differenze decisive. La prima: mentre Visconti guardava alla cultura a cavallo tra ‘800 e '900 (il melodramma, il romanzo borghese: Verdi & Thomas Mann) Antonioni inventava quella del nuovo secolo. La seconda: mentre Visconti usava il cinema come Verdi usava l'opera, Antonioni creava cinema in se, usava le immagini come significante puro. Visconti sarebbe potuto esistere anche senza il cinema, Antonioni no.
La vita di Michelangelo coincide con quella del «secolo breve» e la trascende. Ferrara gli aveva dato i natali il 29 settembre del 1912. Non c'era nemmeno il fascismo; doveva ancora scoppiare, pensate, la prima guerra mondiale. Antonioni è nato in un altro mondo e ci ha traghettati nel nostro, di mondo. Nella sua vita artistica si intravede, come in un ologramma, la storia culturale del '900. Lui l’ha prima anticipata, poi accompagnata, e infine guardato con un pizzico di nostalgia mentre se ne andava, superandolo. Ma per superare Antonioni, il '900 ha dovuto invecchiare, quasi sparire, e diventare Duemila.

MARIA PIA FUSCO
La Repubblica

Un completo blu, una camicia color tortora, la sua preferita, il corpo di Antonioni giace sul suo letto, il volto magro è disteso, sereno, pacificato. Alla sua sinistra è sdraiato un grande ghepardo di peluche, «l'animale più veloce del mondo. Glielo regalò un insegnante di yoga in India chiedendogli di tenerlo accanto la notte, ha sempre dormito con lui», dice Enrica Fico e accarezza con lo sguardo l'uomo con cui ha diviso 35 anni di vita e aveva sposato nell''86. «È bello, è sempre stato bello ed elegante». E sorride. Non ci sono i segni del lutto nella bella casa romana del regista affacciata sul fiume che si snoda nel verde della collina Fleming. Un'immagine che migliaia di volte Antonioni ha ammirato dalla sua poltrona nel salotto, la stessa dove lunedì sera alle 19,30 si è spento, e sul cuscino è rimasto il segno della sua presenza. Interrotta da telefonate continue e dagli abbracci degli amici che vengono a salutare il maestro, con una vitalità impressionante, Enrica Fico racconta.
«Come succede sempre ero andata nell'altra stanza a massaggiarmi i piedi. Mi ha chiamato Stella, I'assistente di Michelangelo. Sono accorsa. Michelangelo aveva la testa china, era diventata un'abitudine da quando non vedeva più, sarebbe state troppo triste alzare lo sguardo sul buio. Respirava ancora, tre respiri sommessi, poi ha alzato il capo e il respiro è stato lunghissimo, senza rumore, l'ultimo. E il corpo si è abbandonato. Libero».

ANGELA AZZARO
Liberazione

Il regista ferrarese è stato, per generazioni e generazioni di cinefili, l’autore per eccellenza, colui che ha saputo raccontare la solitudine e la sconfitta della società borghese. Dall'Avventura fino a Deserto rosso i suoi personaggi femminili sono la bussola che scombina i giochi di una società asfittica, senza più speranza. Ma non basta soffermarsi al contenuto, alla parte più esplicita. La grandezza di Antonioni è tutta nella forma, nella capacità di piegare il linguaggio cinematografico alla sua visione del mondo. La televisione è lontana non per un fatto cronologico, ma perchè messa sotto scacco da una dilatazione del tempo che rompe con la verosimiglianza imposta dall'arte borghese. È qui che si consuma la rottura più importante, insanabile con il senso comune, con il moralismo. Non si consuma, tanto è solo, nelle storie raccontate, negli abbandoni e nelle grida, nelle notti in cui le coppie si incontrano e si lasciano, non si consuma nell'algida Milano o nella barocca Sicilia, nel deserto di un fabbrica. Si consuma nella ribellione più grande: dire no alla convenzione più duratura e proibitiva che pretende un racconto lineare, chiaro, dove tutto è motivato da un rapporto consequenziale tra la causa e l'effetto. Antonioni spariglia le carte, manda in frantumi tutto. Crea il mistero di un linguaggio che non può essere spiegato. Di una sparizione che a sua volta sparisce. La solitudine è tutta qui. È la solitudine dello spettatore che si trova da solo a ricostruire una storia che non ha lieto fine, perchè non ha nessun finale. Non c'è più spazio per le grandi narrazioni che consolano. L'unica possibilità è nella rivolta personale, nel colpo di schiena del singolo spettatore che da solo trova un senso e una ragione per non arrendersi. Non è la chiamata alle armi, è al contrario la richiesta di un'assunzione di responsabilità da parte del singolo. È la partita a tennis di Blow Up: la pallina è evanescente ma il gioco continua. Se si vuole. Se si vuol credere, come i due clown che proseguono nella finzione.

MIRELLA POGGIALINI
Avvenire

Spazio e silenzio, nei film di Michelangelo Antonioni, cui una malattia aveva tolto la parola ma non la capacità creativa, e che ora è scomparso verso una delle sue «montagne incantate», quei dipinti quasi metafisici che sono esposti nella sua città natale, Ferrara, in un museo a lui dedicato ini occasione dell'attribuzione dell'Oscar alla carriera. E nelle opere pittoriche emerge con nitidezza il dato distintivo della figurazione che ha caratterizzato i film del regista: elemento qualificante di un modo di intendere i rapporti con il mondo, non solo con l’immagine filmica. Il senso di uno spazio in cui l’osservante – l’obiettivo della cinepresa fa le sue veci - si pone a distanza da ciò che osserva, con una sorta di riguardo che è volonta di oggettivazione e distacco emotivo. La tanto citata «incomunicabilita» di Antonioni e forse questo rispetto davanti a ciò che il suo occhio-obiettivo vede e rappresenta: quello spazio che lascia alla cosa vista la sua autonomia assoluta che diventa di per se significativa espressione, al di là delle parole. Dal grigiore ostile e disperato de Il grido, con la sua desolazione accorata, al paesaggro scabro de L’avventura; dalla Milano indifferente de La notte ai colori lancinanti e astratti di Deserto rosso; dalle eleganze raffinate degli zoom in Blow up, che creano inquadrature iperrealiste, ai fervori cromatici e allusivi di Professione reporter, sino alla scala elicoidale di Identificazione di una donna, che racchiude e innalza il senso stesso della vicenda e le tensioni dei personaggi Antonioni, che fin dal suo Nettezza Urbana aveva disegnato una città di ombre e di spazi, dimostra quanto sia essenziale, per descrivere, restare in disparte e creare rapporti e dimensioni tutte nuove, che non investano il personaggio ma lo rendano libero. E in questi spazi calcolati e strutturali domina il silenzio che si coglie anche nei suoi scritti. Nella raccolta einaudiana Quel bowling sul Tevere, per esempio, nel racconto intitolato Verso il confine Antonioni scandisce la narrazione con a parola «silenzio» come motivo guida: e il silenzio è parte integrante della sua narratività filmica, è espressione significativa di quanta non è detto ma comunque appare e si dichiara attraverso l' immagine. «I suoni sono scivolati via senza lasciar traccia - scrive a un certo punto - e il silenzio torna a essere quello che deve essere un buon silenzio, pieno di rumori leggeri come scricchiolii del legno e il ticchettio del pendolo». È il cinema, tuttavia, a riassumere e a identificare in un tutto unico sensazioni e percezioni: come il ricordo di un film, dice, «che avrei sempre voluto fare e non ho mai potuto, non un meccanismo di fatti ma dei momenti che di quei fatti dicano le tensioni segrete, come i fiori svelano quelle di un albero». Così l’Antonioni regista è debitore di Antonioni pittore e scrittore, in una sorta di sinestesia di complessa radice, ma di limpido effetto, che configura il suo inimitabile stile. «Quando non so cosa fare - scrive - incomincio a guardare. C'è una tecnica anche per questo, o meglio ce ne sono tante. lo ho la mia. Che consiste nel risalire da una serie di immagini a una stato di cose. L'esperienza mi insegna che quando una intuizione è bella, è anche giusta. Non so perchè. Wittgenstein lo sapeva».

GIAN LUIGI RONDI
Il Tempo

Nel 1955 Michelangelo Antonioni, che doveva diventare uno degli autori più significativi del cinema italiano - un autore di pensiero e di stile - presentò alla Mostra di Venezia Le amiche, un film cui la critica, pur con talune riserve, riconobbe un'insolita forza di linguaggio e un'asprezza di racconto rigorosa ed autentica.
Considerati ad uno ad uno, gli stati d'animo dei personaggi e la logica interna dei loro atteggiamenti sono in genere messi in rilievo con asciutto rigore; nel loro insieme, però, le vicende delle quattro protagoniste della storia - tratta, con una certa libertà, dal racconto Tra donne sole compreso nel volume La bella estate di Cesare Pavese - non si equilibrano compiutamente; il loro alternarsi, spesso, è un po' frammentario, quando non diventa addirittura episodico; e così il mondo in cui vivono: non sempre visto in funzione propriamente critica.
L'impegno stilistico del film comunque, è indiscutibile, ed anche la sua ferma ambizione drammatica: tutte doti che già fanno prevedere l'evoluzione di un autore sempre più attento e cosciente.
Due anni dopo, Il grido: suo protagonista è un uomo che da vario tempo vive con una donna da cui ha avuto una figlia. Non si possono sposare perché la donna ha un marito andato via molti anni prima. Un giorno, però, arriva la notizia che questo marito è morto. Ora tutto si potrebbe sistemare, ma la donna ha un altro amante, non ama più il primo e, pur avendo mentito fino a quel momento, non ha coraggio, adesso, di mentire di fronte al matrimonio; così dice tutto.
L'uomo ne è sconvolto, perde di colpo ogni ragion d'essere e scappa via con la figlia per paesini e città, lungo il fiume (siamo sul Po, in una di quelle regioni affogate di nebbia in inverno e sempre sotto l'incubo delle alluvioni in autunno); nel suo girovagare incontra altre donne: in ognuna cerca lei, la fedifraga, e ognuna, perciò, presto o tardi lo delude. Così eccolo di nuovo al paese, sorretto da una assurda speranza. Ma è l'ultima: l'amante si è sposata e ha anche un altro figlio. E lui allora si uccide.
Una moderna tragedia della solitudine, dunque, e un tentativo, nello stesso tempo, di reinserire l'amore fra i temi drammatici (e non più romantici) della realtà contemporanea.
Antonioni, però, ha espresso qui quelli che sarebbero poi diventati i suoi motivi fondamentali di poesia, più attraverso la cornice e l'ambiente che non attraverso il disegno psicologico e l'evoluzione drammatica dei personaggi. Le pagine più vive e poetiche del film, così, sono quelle in cui il doloroso taedium vitae del protagonista scaturisce da quei tetri panorami fluviali, da quella neve, da quel fango, da quelle grigie e desolate campagne; oppure quando si ritrova, sotto altre forme in figure di secondo piano, incontrate per caso, in situazioni di contorno, in uomini e donne visti quasi di sfuggita, ma tutti più o meno dilaniati dalla stessa pesante solitudine, dall'identico clima di livida sfiducia: la prostituta nella baracca sul fiume, ad esempio, la vita metà agiata e metà insoddisfatta nella casa dove c'è il distributore di benzina (la figlia insaziata, il vecchio padre bistrattato e singolare, più vivo forse della maggior parte degli altri personaggi), la bambinetta che per un po' di tempo il padre si trascina con se, i suoi giochi, le sue infantili parole poetiche, i suoi occhi che vedono più di quanto non dicano...

FURIO COLOMBO
L'Unità

Eravamo insieme sul treno della Cina, vecchi vagoni che sbattevano da una parte e dall'altra, arnesi malandati di prima della guerra e di prima della rivoluzione. Eravamo in un vagone vuoto che correva all’impazzata. Era tutto vecchio ma anche tutto nuovo e mai visto, come nella fantascienza di Jules Verne, il passato che svela il futuro. Tu eri in piedi nel corridoio fra le panche. Guardavi quello strano paesaggio familiare e ignoto che era la Cina ai tempi della rivoluzione culturale. Non volevi perdere neppure un dettaglio. Con l’aria tranquilla e assente che avevi sempre quando stavi preparando un film (ti ho visto nei giorni della Avventura, della Eclisse, di Deserto Rosso, di Zabriskie Point e quando abbiamo lavorato insieme, con Calvino e Tonino Guerra) compilavi mentalmente un tuo percorso di cose da fare che avrebbe provocato una rivolta per troppo lavoro persino tra le guardie rosse.

ANGELA CALVINI
Avvenire

«È venuta meno una personalità luminosa, uno dei più grandi registi del mondo». Ha la voce commossa, dall'altro capo del telefono, Tonino Guerra. Si capisce quanto sia grande il vuoto lasciato da Michelangelo Antonioni, di cui è stato amico e collaboratore per quasi cinquant'anni.
Era il 1960 quando lo sceneggiatore e il regista iniziarono il loro cammino artistico comune con un titolo profetico: L'avventura. Seguirono altre undici pellicole indimenticabili, tra cui La notte, L'eclisse, Deserto Rosso, Zabriskie Point. «In tutto il mondo i suoi film sono guardati con ammirazione, soprattutto Blow Up e L'avventura - racconta Guerra con orgoglio -. I suoi insegnamenti sono stati seguiti da tutti i registi, soprattutto su come girare le immagini. Il piano sequenza, per esempio è un'invenzione sua». Ma, ricorda lo scrittore, Antonioni fu rivoluzionario anche nei contenuti delle sue pellicole. «Eravamo nel dopoguerra, e mentre nel cinema c'era un grande interesse per la povertà e gli operai, lui guardò per primo alla borghesia e alle donne. Portò, insomma, sullo schermo quel mondo che dalla guerra era uscito più perdente degli altri».

FRANCESCO BOLZONI
Avvenire

Poche ore dopo Bergman, se n’è andato anche Michelangelo Antonioni. Quasi una sceneggiatura. Due simboli, due giganti del cinema e della cultura del Novecento. Il grande regista ferrarese è spirato nella serata di lunedì, avrebbe compiuto 95 anni il 29 settembre. Stamane verrà allestita in Campidoglio la camera ardente, domani alle 9.30 le esequie a Ferrara, nella basilica di San Giorgio fuori le Mura.
Prima di perdere l’uso delle proprie membra e della parola per l’ictus che lo colpì nel 1985, Michelangelo Antonioni fece molte cose oltre a dirigere film. Disegnò, fotografò, scrisse molto. Articoli per quotidiani e riviste, saggi, copioni di film, racconti. Ma non credo possano servire come guida diretta per intendere il suo cinema. Non si cerchi in questi scritti, anche se non d’occasione, frammenti di vita, propositi o confessioni al modo di Ingmar Bergman i cui libri ci svelano o ci aiutano a intendere meglio la sua opera. Vi si rinvengono piuttosto intuizioni, prime ipotesi di poetica.

DINA D'ISA
Il Tempo

Il mondo intero piange il nostro «gigante del cinema» che si è spento serenamente con accanto la moglie Enrica Fico. Messaggi di cordoglio hanno riempito le pagine della stampa internazionale, mentre oggi è stata allestita (dalle 9.30 alle 12.00) la camera ardente in Campidoglio, fino a giovedì, quando la salma di Michelangelo Antonioni verrà portata per i funerali a Ferrara, sua città natale, dove sarà intitolata una piazza o una via in sua memoria. E oggi pure il festival di Locarno gli dedica la sua storica Piazza Grande. Per il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, Antonioni «ha improntato tutte le sue opere a una profonda indagine sulle tensioni individuali e le difficoltà nelle relazioni interpersonali che segnano la società contemporanea. Con un linguaggio fortemente innovativo ha elaborato una incisiva critica all’indifferenza e alla mancanza di coesione». Mentre per Walter Veltroni, «con Antonioni scompare non solo uno dei più grandi registi viventi, ma anche un maestro della modernità del cinema, che perde un autore senza il quale non sarebbe stato lo stesso, ma anche le arti figurative e la narrativa più penetrante restano prive di una voce inimitabile. Grazie al cinema di Antonioni anche la realtà acquista un significato diverso». Il ministro per i Beni e le Attività Culturali, Francesco Rutelli, lo ha definito un «osservatore acuto del male del Novecento in tutte le sue espressioni. Riflette il malessere delle nuove generazioni legate alla contestazione, ai dubbi e alle speranze del cambiamento sociale». Ieri sul set di "Tutta la vita davanti" il regista Paolo Virzì lo ha definito «un riferimento importante per il cinema e la cultura, e soprattutto un innovatore del linguaggio. Ha introdotto nel cinema l’interiorità, rendendo questa arte più adulta. Prima è morto Bergman, il giorno dopo Antonioni, una coincidenza importante, entrambi avevano un percorso in comune, quello di dare rilievo all’animo dei caratteri femminili. Antonioni per me è stato uno dei registi più femministi che abbiamo avuto». Il press agent Enrico Lucherini ha ricordato quando in "Deserto rosso", «Monica Vitti dice la famosa frase, "mi fanno male i capelli". E tutti dicevano che era meglio tagliarla, ma lui non volle farlo. Era una persona particolare, a volte andando a casa sua trovavo lui e Monica Vitti che parlavano con i mobili». Per il pungente e brillante Dino Risi è scomparso «un monumento del cinema, anche se non eravamo fatti l’uno per l’altro, lo trovavo un po’ cervellotico. La morte insegue i grandi registi - ha poi aggiunto riferendosi a Bergman -. Ho sempre detto che non ero uno dei fanatici di Antonioni. Alcuni film mi sono piaciuti, molti altri meno, uno tantissimo, "Blow Up"». Non è un caso se Risi fa dire al protagonista del Sorpasso, (interpretato da Vittorio Gassman) una corrosiva battuta sul collega-rivale ("Hai visto "L’Eclisse"? Io c’ho dormito... però, gran regista Antonioni"). Paolo Taviani, «al di là della tristezza del momento», vede il senso di una scomparsa che segue a quella di altri due protagonisti del cinema mondiale come Michel Sarrault e Ingmar Bergman: «Quello di Antonioni è il cinema più imitato nel mondo ancora oggi, specie in Oriente». Rammarico infine da parte di Ornella Muti per non aver lavorato con «un maestro che ha regalato sfumature uniche alla sua cinematografia, con emozioni, ombre, cuore e stato d’animo».

BARBARA LEONE
L'Avanti!

Per uno strano scherzo del destino, Ingmar Bergman e Michelangelo Antonioni, i registi che meglio hanno indagato la profondità dello spirito umano rivoluzionando per sempre la storia del cinema, si sono spenti a poche ore di distanza. Il grande regista ferrarese - che avrebbe compiuto novantacinque anni tra poco più di un mese - si è spento lunedì sera a Roma, verso le ore venti, su una poltrona, con accanto la moglie Enrica Fico. Con la morte dell’ultimo grande Maestro del cinema italiano si chiude un’epoca. Nato a Ferrara il 29 settembre 1912, Michelangelo Antonioni, definito il regista dell’incomunicabilità, frequentò il Centro sperimentale di cinematografia e negli anni Quaranta collaborò ad alcuni progetti di Roberto Rossellini e Luchino Visconti. Nel 1950 dirige il suo primo lungometraggio, “Cronaca di un amore”, in cui descrive la crisi di una coppia e dà il via a quella raffinata indagine delle problematiche più diffuse del mondo contemporaneo, come l’incomunicabilità e l’angoscia del vivere. Nel 1955 dirige “Le amiche”, tratto da una raccolta di racconti di Cesare Pavese, e l’anno successivo “Il grido”, viaggio attraverso la Pianura padana, dolente racconto della crisi esistenziale di un uomo. L’insuccesso commerciale del film costringe il regista a dedicarsi brevemente al teatro. Tornò al cinema nel 1960, con la celebre trilogia composta da “L’avventura”, “La notte”, “L’eclisse”. E nel 1964 con il suo primo film a colori, “Il deserto rosso”, analizza il difficile rapporto tra ambiente sociale e individuo. In questi quattro, Antonioni film porta all’estremo la sua indagine su alienazione e incomunicabilità. Una tematica che diventa pessimismo e rifiuto della realtà in “Blow-up”. Con “Zabriskie point” (siamo nel 1969), il Maestro racconta a suo modo la contestazione giovanile, e con “Professione reporter” nel ‘74 affronta l’impenetrabilità della realtà attraverso un repentino cambio di identità del protagonista. Dopo aver girato “Identificazione di una donna”, nell’82, viene colpito da ictus cerebrale, che lo priva quasi completamente dell’uso della parola. Nel 1995 torna dietro la macchina da presa assistito da Wim Wenders con “Al di là delle nuvole”, dove traduce in immagini alcuni racconti del suo libro “Quel bowling sul Tevere”. Tutto il cinema di Antonioni è percorso dall’ossessione per la ricerca formale, dal culto dell’immagine, dall’attenzione allo “sguardo”. Ancora di recente, lo scrittore e regista francese Alain Robbe-Grillet, che aveva pensato al regista ferrarese per il suo film “La fortezza” (mai realizzato), dice di Antonioni: “Non ho mai capito come abbiano potuto definirlo il cineasta dell’incomunicabilità: i suoi film sono tutta una festa, un invito, una scuola di sguardi”. Autentici protagonisti “metafisici” dei suoi film sono gli stati d’animo, i vissuti interiori dei personaggi (quasi sempre borghesi di età compresa tra i 20 e i 40 anni), i riflessi dei fatti sugli individui, più che i fatti stessi. È così nelle crisi di coppia raccontate nella trilogia “L’avventura”, “La notte” e “L’eclissi”; è così per l’alienazione descritta in “Deserto rosso”; per l’inquietante scoperta di un delitto fatta in “Blow up” (grazie all’elaborazione di un’immagine, non a caso); per l’“incontro” con il cadavere di uno sconosciuto in “Professione reporter”. E le inquadrature lunghe, che hanno fatto parlare di cinema “lento” e “noioso”, servono in realtà a seguire i moti interiori in un tempo che sembra fermo, in uno spazio dilatato ed enigmatico. Anche i luoghi, gli oggetti, le cose, protagonisti del cinema di Antonioni tanto quanto gli uomini, contribuiscono a rappresentare l’ineffabile della condizione umana (l’isola de “L’avventura”, la Milano algida e futuribile della “Notte”, le fabbriche inquinanti di una città industriale del Nord in “Deserto rosso”, il deserto, quello vero, in “Professione reporter”, la nebbia di “Identificazione di una donna”). In questo miracolo di rigore e introspezione, sta l’autorità di un regista che ha segnato un’epoca e fatto proseliti entusiasti conquistando molti premi importanti. Sono due Leoni d’oro a Venezia (nel 1964 per “Deserto rosso” e nel 1983 alla carriera) e una Palma d’oro a Cannes (nel 1967 per “Blow up”). Pur limitato dalla malattia, Antonioni, dopo il definitivo accantonamento del progetto della “Ciurma”, un soggetto conradiano ispirato ad un suo racconto, “Quattro uomini in mare”, ha diretto, a dodici anni di distanza da “Identificazione di una donna”, il nuovo film “Al di là delle nuvole” accanto al suo grande estimatore e collega Wim Wenders: un film che aveva dovuto superare traversie produttive e polemiche, che avevano anche portato alle dimissioni di Felice Laudadio da amministratore delegato dell’Istituto Luce, colpevole, secondo Laudadio, di ritardare la decisione sui finanziamenti al film, poi realizzato col contributo di Vittorio Cecchi Gori. “Sento quest’impegno come fondamentale - aveva detto Wenders -. Aiutare Michelangelo a realizzare un film che insegue con straordinaria determinazione: devo a lui, primo ‘pittore dello schermo’, se sono diventato regista”. Antonioni era poi tornato sul set due volte: prima per un documentario sul Mosè di Michelangelo restaurato (presentato a Cannes) e poi per realizzare uno dei tre episodi (“Il filo pericoloso delle cose”) che compongono “Eros”, presentato a Venezia 2004. Ed era riuscito ancora a far parlare di sé, più che per la consueta eleganza e la rarefazione delle immagini, per il fatto che, proprio dal più anziano dei tre (gli altri sono Steven Soderbergh e Wong Kar-Wai) fosse arrivato l’episodio più osé, tanto da spingere il produttore francese a tagliare tre minuti di una scena in cui la protagonista femminile si masturba. La scomparsa di Michelangelo Antonioni ha provocato grande dolore, nel mondo della cultura e della politica. A cominciare dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, secondo cui “il nostro Paese perde uno dei più grandi protagonisti del cinema e della ricerca espressiva del Novecento, che nella sua lunga e feconda esperienza artistica ha dato vita a creazioni tra le più significative anche sul piano internazionale. Attraverso un linguaggio fortemente innovativo e una straordinaria capacità interpretativa, ha elaborato una incisiva critica all'indifferenza e alla mancanza di coesione, rivelando sensibilità umana e suscitando riflessioni sul dramma della solitudine”. Con Michelangelo Antonioni scompare “un monumento del cinema”, anche se “non eravamo fatti l’uno per l’altro, lo trovavo un po’ cervellotico”. È brillante e pungente come sempre Dino Risi, vecchio maestro della commedia all’italiana, nel ricordare l’illustre collega scomparso (“È la morte che insegue i grandi registi”, sospira, pensando anche a Bergman). “Ho sempre detto che non ero uno dei fanatici di Antonioni - spiega Risi -, alcuni film mi sono piaciuti, molti altri meno. Uno tantissimo, “Blow Up”. Un rapporto di reciproca stima, dunque, ma con differenze ben marcate. Non per niente Risi fa dire al protagonista del “Sorpasso”, Bruno Cortona (interpretato da Vittorio Gassman) una celebre e corrosiva battuta sul collega-rivale: “Hai visto l’Eclisse? Io c’ho dormito, una bella pennica...Gran regista Antonioni”. “Era una mia piccola frecciatina - ricorda oggi Dino Risi - ma la battuta non è mia, è del protagonista, un cialtrone che non sa nulla di arte, e a cui certo i film di Antonioni non possono che far dormire”. Lo stesso Antonioni, rivela Risi, “era il primo a riderne, era molto spiritoso. So che “Il Sorpasso” gli era piaciuto, e si era divertito alla battuta”. Una “morte densa”, quella di Michelangelo Antonioni. In primo luogo per come è maturata: “Sotto una spinta creativa che portava l’uomo a scrivere e dipingere, fino all’ultimo momento”. In seconda istanza per “la resistenza alla morte del regista, che è il simbolo stesso della forza del cinema italiano e non solo”. In questi due elementi il regista Paolo Taviani, “al di là della tristezza del momento”, vede il senso di una scomparsa che segue a quella di altri due protagonisti del cinema mondiale come Michel Sarrault e Ingmar Bergman. I due si incontrarono, da giurati, a Venezia: “Fu qualche anno fa - ricorda Taviani - e, con mia sorpresa, ci scoprimmo complici nei giudizi ai film”. Due modi di fare cinema molto diversi ma, d’altra parte, “la grandezza del cinema italiano stava proprio in questa varietà di generi e di stili: convivevano Risi e Fellini, Antonioni e Visconti. E tutti contribuivano a fare grande il cinema italiano”. E quello di Antonioni è, per Paolo Taviani, “il cinema più imitato nel mondo ancora oggi, specie in Oriente. Ci troviamo spesso, con amici e colleghi, a guardare un film asiatico e a dire: toh, sembra Antonioni”. “Fu il primo a descrivere, nell’immediato dopoguerra, le storie della borghesia”. Così il poeta e sceneggiatore Tonino Guerra, ricorda, commosso, l’amico Michelangelo Antonioni con cui ha scritto la sceneggiatura di diversi film. “Di lui - racconta - ho un ricordo molto bello. Nel film non voleva una musica prepotente; preferiva una musica che nascesse dai rumori. Di insegnamenti ne ha dati tanti, ma questo è uno di quelli che maggiormente mi ha colpito. La mia collaborazione con Antonioni - ricorda Guerra - nacque a Roma: ci siamo conosciuti, abbiamo instaurato subito un gran feeling e insieme abbiamo scritto ‘L’Avventura’ Attraverso il cinema Michelangelo parlava al mondo, descrivendolo in tutte le sue sfaccettature. È stato uno dei più grandi registi al mondo non solo per le storie che raccontava, ma soprattutto per gli insegnamenti che ha dato a tutti sul modo di girare e di adoperare le luci”. “Essere morto un giorno dopo Ingmar Bergman sembra quasi un segno del destino. Sono due grandi maestri che se ne vanno. Ho avuto il piacere di conoscere Michelangelo Antonioni e di frequentarlo soprattutto negli ultimi anni, quelli dei grandi silenzi dove riusciva a comunicare soltanto attraverso gli occhi”. Così l’attore Massimo Ghini ricorda il regista ferrarese: “Conservo con grande affetto una fotografia che mi ritrae con lui in un campo di calcio in Abruzzo, scattata dall’amico comune che ci ha fatto conoscere e soprattutto - ricorda l’attore - ho un bellissimo ricordo sul set dell’unica pubblicità che ho fatto dove vestivo i panni dello Sceicco Bianco. La regia era di Francis Ford Coppola e lui, che era l’autore del soggetto del film di Federico Fellini, venne a dare la sua testimonianza. Inutile dire - conclude Ghini - che è stato uno dei maestri che ha composto il nostro cinema, noi abbiamo purtroppo soltanto la funzione di commemoratori”.

FABIO FERZETTI
Il Messaggero

COME sarebbe stato il mondo senza Antonioni? Che immagine avremmo delle nostre città, delle nostre vite, delle “storie” d’amore o disamore che tutti viviamo o crediamo di vivere se dalle nebbie di Ferrara non fosse emerso un regista ostinato, geniale, intransigente fino allo spasimo, capace di rivoluzionare con una manciata di titoli il modo di fare e guardare i film fino a trasformare, attraverso quei film, la nostra stessa percezione del mondo?
E’ difficile rispondere a questa domanda perché è difficile immaginare qualcuno più lontano di Antonioni da ciò che il pubblico, ieri, oggi e domani, tacitamente si aspetta nel buio di una sala. Eppure Antonioni c’è stato, eccome. Anzi, si può dire che con Rossellini e Fellini, ma perfino più a lungo e profondamente di loro, nessun regista italiano abbia avuto più influenza nel mondo.
E’ Antonioni che ci ha insegnato a guardare oltre la “pelle” del visibile con i suoi film, in testa naturalmente Blow Up, ma anche con i suoi racconti e con le sue inquietanti pitture “molecolari” («Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto questa un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realta, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà»). E’ Antonioni, con le sue ossessioni filosofiche tradotte in immagini indimenticabili, che ha demolito il gusto del romanzesco, dei personaggi pieni, delle passioni forti, degli intrecci ben costruiti, portando il nostro occhio prima sgomento poi incantato a esplorare tutto ciò che il cinema-cinema rifiuta, i vuoti, i silenzi, le assenze, l’insensato. Finendo per trovare in quella mancanza di senso l’immagine più aderente a un presente a una condizione umana che cambiava troppo in fretta.

MICHELE TAMBURRINO
La Stampa

Mario Monicelli ha di Antonioni un ricordo tutt'altro che plumbeo e problematico. E quando sente che Dino Risi ha definito l'autore di Blow up «palloso» non può trattenere una risata dissociativa.
Monicelli, lei come giudica il cinema di Antonioni?
«Tutt'altro che palloso. Ha raccontato i rapporti tra la gente, tra uomini e donne e ha saputo rappresentare l'irrappresentabile, l'incomunicabilità solo per immagini; la sua grande qualità di cineasta sta proprio in questi sentimenti non facilmente recepibili. Grande lo era anche nella cura dell'inquadratura, dell'immagine, maestro della lunga sequenza. Appunto, era innamorato dell'immagine e della sequenza, teneva ben presente che tutto era concatenato, il momento che aveva filmato prima dipendeva dal momento che avrebbe filmato dopo. II finale di Professione reporter è magistrale con quegli otto minuti di macchina fissa. La cura e la serietà gli sono serviti per analizzare tutti i temi difficili che poi ha trattato. Con Blow up ci ha restituito una Londra che neanche gli inglesi avevano mai saputo descrivere. E poi non dimentichiamo che è stato uno scopritore di talenti. Ha creato Monica Vitti e Lucia Bosè».

VITO ATTOLINI
La Gazzetta del Mezzogiorno

Scompare con Antonioni un altro grande regista del cinema, fra i più grandi delle sua storia. II caso ha voluto che le sua morte sia avvenuta il giorno dopo quella di un altro maestro Ingmar Bergman, quasi a suggello della conclusione di une straordinaria stagione della settima arte. Ed ë un motivo di orgoglio annoverare il nostro cineasta fra le più alte espressioni del cinema, alla cui opera molti studiosi fanno risalire la nascite di quello che si suole definire il cinema moderno, come la critica unanime proclamò al fin domani della presentazione al festival di Cannes del 1960 de L'avventura, straordinario primo capitolo di un'impareggiabile tetralogia che comprende anche La notte. L'eclisse e Deserto rosso.
Come gli autentici innovatori, Antonioni aveva elaborato pian piano i motivi stilistici e tematici che sarebbero diventati predominanti nel suo cinema futuro, fin da quando nel 1950 esordì, non giovanissimo, con Cronaca di un amore, che sembrò subito come un'eccezione, quasi una deviazione dalla linea maestra del nostro cinema postbellico, caratterizzato dalla grande stagione neorealista. Antonioni, dopo un breve apprendistato registico con il francese Marcel Carné e un più duraturo esercizio critico sulle pagine della nostre maggiori riviste cinematografiche degli anni Quaranta, mostrava con la sua opera prima di voler battere altre strade, aprire, nuovi orizzonti, non già in contrapposizione al neorealismo ma da questo quasi originati per spontanea germinazione, segnandone nuovi tracciati lungo un percorso che avrebbe fatto della borghesia, la nostra borghesia che si stava emancipando dai modelli tradizionali, il suo campo privilegiato d'osservazione.

OSCAR IARUSSI
La Gazzetta del Mezzogiorno

«Sono contento di essere qui e di aver potuto finalmente visitare Michelangelo Antonioni». A Taormina, un'estate di qualche anno fa. Il maestro, ammutolito da tempo per colpa del maledetto ictus eppure loquace grazie agli occhi dolcissimi, è seduto in prima fila al fianco della moglie Enrica Fico nella magica cornice del Teatro Greco. La frase di saluto è di un regista russo che, prima di ritirare un premio del Festival, la pronuncia in italiano. Con affettuosa premura, l'interprete lo corregge: «Lei forse vuol dire conoscere Michelangelo Antonioni...». Ma il russo, serafico sebbene commosso: «No, no... Volevo proprio dire visitare».
Consapevole o meno del significato del verbo, il giovane collega venuto da lontano in fondo non sbagliava: «visitare Antonioni». Come se Antonioni fosse ciò che in effetti era: un pianeta cui approdare con rispetto ed emozione, un astro lucente e impenetrabile che riesce a orientare nella notte, un frammento di cosmogonia sfuggito alla genesi per palesare alcune leggi ineffabili della vita, a cominciare dalle relazioni tra gli uomini e le donne. Le donne alle quali - lo sappiamo - può capitare che facciano «male i capelli» (Monica Vitti in Il deserto rosso, 1964). O come se Antonioni fosse, in Terra, un paese misterioso della geografia dell'anima, ben più enigmatico della Cina che egli percorse per girarvi lo, storico documentario sulla rivoluzione culturale maoista, insieme con un signor giornalista, Andrea Barbato (Chung Kuo,1972).

MASSIMO PANDOLFI
Quotidiano Nazionale

IN UNA SCENA del «Sorpasso», Vittorio Gassman dice a Trintignant. «Ho visto quel film La notte ... Me so' fatto 'na dormita!». Ma poi segue: «Bel regista, Antonioni! ln macchina va forte. Sulla fettuccia di Terracina m’ha fatto girare il collo!».
Era un mio film, e io prendevo in giro, spero garbatamente, Michelangelo Antonioni. Ci incontrammo, poi: e lui non se la prese affatto per questo sfottò. Era una persona simpaticissima, divertente, spiritosa. Mi verrebbe da aggiungere: diversa dai suoi film, che erano amati moltissimo dalla critica, ma che io non riuscivo ad amare completamente. C'era chi andava a vedere i suoi film perché era, in un certo senso, un gesto chic. Andare a vedere un film di Antonioni voleva dire essere «intelligenti». Andare a vedere un film mio, no. Ma non ci ho mai sofferto troppo.

MAURIZIO CABONA
Il Giornale

Con la morte a novantacinque anni di Michelangelo Antonioni, il giorno dopo quella d'Ingmar Bergman, è un tipo di regista, intellettuale e problematico, a estinguersi (...) di colpo. Simultaneo, l’addio degli esponenti: più settentrionale e più meridionale dell'incomunicabilità. assume - e forse a loro sarebbe piaciuto - dimensione simbolica.
Bilancio dopo questi due giorni di lutto cinematogralico: Il settimo sigillo e Il posto delle fragole Cronaca di un amore e Blow Up appartenevano a un mondo equilibrato, dove lo spettatore poteva scegliere. Oggi non più: il declino della qualità media dei film è così consolidato da parere irreversibile. Quindi non è un caso se a giorni uscirà Idiocracy, il film brillante scritto da Ethan Coen, dove s’immagina che un militare, poco intelligente, si svegli dall'ibernazione, scoprendo che il grande successo del 2506 s’intitola Culo e solo quello mostra, in ogni atdvity. Morale: in un mondo di abbrutiti, l'ex ibernato pare un genio...

MASSIMO BERTARELLI
Il Giornale

Pace all'anima sua, naturalmente. Ma Michelangelo Antonioni, parlandone ,da vivo, non l'ho mai potuto sopportare. Certo ci sono fior di critici, la maggior parte, che si divertono soltanto quando si annoiano e con Antonioni dunque era uno spasso continuo: C'è chi si compiace, perché fa fino, nel fingere di aver capito tutto, mentre è lo stesso autore a spiegare, ad opera compiuta, che effettivamente, sì insomma, non è tutto chiaro quel che gli è uscito dalla macchina da presa. A lui. Figuriamoci a noi, comuni mortali. E tra costoro, gli spettatori naïf della settima arte, c'è anche qualche recensore di seconda schiera. Come il sottoscritto, ché, sarà sicuramente un caso, nel suo poco celebre e ancora meno venduto 100 film da evitare, di capolavori michelangioleschi ne ha inseriti a occhio e croce una decina. Con un voto medio attorno al 3.

TONI JOP
L'Unità

Film come «stargate», come porte su altre realtà, non necessariamente «altrove» nello spazio ma in un tempo, il nostro, anche minimamente differito. Film come cancelli in cui i sensi si intrecciano volentieri oltre i tracciati di regia, oltre i percorsi delle sceneggiature. Non sono molti, anzi, e in genere sembrano sfuggire di mano ai loro artefici, quasi a sfidarne la patria potestà, inventando una vita molto più ricca e complessa di quella che i registi hanno loro impresso. Blow up è uno di questi dirigibili della mente che se ne stanno in aria da soli, senza elio, senza pilota dopo che hanno sfruttato tutti i sensi del regista per venire, letteralmente, alla luce. Chissà cosa pensava Antonioni del suo film più famoso. Per molti di noi è stato una frattura salutare, ha inventato un «prima» e un «dopo». C'erano i Beatles, c'era Londra, c'era la swingin' London, c'era il pop che stava abolendo il bianco e nero mentre «svitava» la compostezza sociale, c'erano i «giovani» non ancora ridotti al ruolo di custodi del consumo di massa; erano la fantasia o piuttosto la stanchezza immensa di dover vivere in quella caserma che andava loro troppo stretta. Aspettavamo, senza saperlo, un inno, uno spartito di immagini che ci rappresentasse, capace di contenere tutta l'energia che, ne eravamo convinti, stavamo imprimendo al corso delle cose.

IRENE BIGNARDI
La Repubblica

L'omaggio più giusto e serio che si possa rendere a Michelangelo Antonioni, morto l'altra sera a Roma a 94 anni, e al suo cinema - al di là delle commemorazioni di rito, al di là del lutto autentico di chi ha conosciuto quest'uomo elegante e gentile, schivo e sensibile, intelligente e sottile, al di là del dolore di chi gli è stato vicino con amore, pazienza e acume negli anni di una lunga, difficile, strana infermità che ha fatto di Antonioni la metafora paradossale del silenzio e dell'incomunicabilità da lui cantati -- la vera celebrazione, credo, sta non già nel ricordarlo formalmente per poi archiviare la pratica sotto la generica etichetta del genio, ma nel riaprire il dibattito spesso acceso, sempre appassionato, talvolta virulento, di cui Antonioni è stato a più riprese il protagonista e l'oggetto. Di non dare per scontata la sua grandezza, o, al contrario, di non impallinarlo con l'ironia facile dei franchi tiratori o con le due o tre risicate stellette che gli concede una giovane critica assurdamente feroce, ma di tornare, in questa occasione, a discutere anche criticamente il suo cinema, come ai tempi (leggere "Spari nel buio" di Gian Piero Brunetta per vedere) in cui accadeva che si riunissero attorno a una tavola rotonda a discettare di L'eclisse delle belle teste come Carlo Salinari, Galvano Della Volpe, Luigi Chiarini eAlberto Carocci, o come quando Alberto Arbasino, con brillante bastiancontrarismo, osava «parlar male» del maestro dell'alienazione. E in. questo gruppo di bastian contrari metto, buon'ultima, nel 1995; anche me stessa, colpevole, per taluni, di aver osato criticare negativamente (per quanto rispettosamente) l'ultime film di Antonioni, Al di là delle nuvole.

LIETTA TORNABUONI
La Stampa

È un dispiacere che Michelangelo Antonioni (Michele, per gli amici) se ne sia andato a 95 anni: era un grande regista, ma anche un uomo molto simpatico. Chi non lo conosceva poteva immaginarlo severo, pensoso, tetro. Invece era un vero ragazzo emiliano, spiritoso, divertente, bravissimo tennista, sensuale, ghiotto, amante del vivere: persino dal 1985 quando il male gli aveva tolto la parola e gli rendeva faticosi i movimenti.
Un eccezionale uomo di cinema, da sempre estraneo alle «regole» e alla banalità, in cerca di modi nuovi dell'espressione; un protagonista dei meno enfatici del rinnovamento del cinema italiano dopo la seconda guerra-mondiale e uno dei registi italiani internazionalmente più premiati e celebri; l'erede deluso d'una cultura illuminista. Dotato di una rara moralità d'artista. La fedeltà a se stesso e al proprio mondo, la tenacia nel dire quanto voleva con i mezzi che voleva, nell'affrontare la lunga lotta sempre sostenuta per fare i suoi film, - soltanto quei film e non altri. Insomma, il coraggio calmo e ostinato con cui affrontava ostacoli costanti: le perenni difficoltà di trovare finanziamenti per i suoi film considerati impopolari; gli interventi della censura (il più distruttivo fu per I vinti, 1952); gli scandali, i fischi, le risate, i processi per oscenità (per L'avventura, 1959, a causa di «sette metri di bacetti sul collo»): la grossolanità di irrisioni, vignette o sketches radiofonici che lo sfottevano come «profeta dell'incomunicabilità», che lo prendevano in giro per il gran camminare di Jeanne Moreau ne La notte (1961),che. avevano trasformato in un numero comico fisso la sua decisione di verniciare in grigio un paesaggio, di far dire a Monica vitti «Mi fanno male i capelli».

FULVIA CAPRARA
La Stampa

C’erano i film, c'era l'amore, c'erano i mille mondi esplorati insieme. C'era, alla fine, quel «legame di amicizia profonda e stima reciproca» che non si era mai spento, neanche negli ultimi tempi, neanche nei silenzi imposti dalle malattie. Ma c'era stato, prima e più di tutto, lo sguardo, quello di Michelangelo su Monica, quello che aveva creato una coppia irripetibile di vita e di lavoro: «Mi ascoltava e mi guardava vivere con un'attenzione che non avevo mai avuto. Sono così orgogliosa se sono servita ai suoi film». Così la musa Vitti parlava e scriveva del grande autore, devota, appassionata, intrecciando vita privata e vita di set, i sentimenti più intimi con le storie che hanno fatto la «Storia» del cinema: «Michelangelo mi faceva molte domande ed io mi divertivo a rispondere. Capivo di stupirlo. Era incuriosito da quello che facevo e dicevo». Dal primo incontro, nel `57, durante il doppiaggio del Grido, Antonioni aveva notato quella ragazza insolita: «Michelangelo mi aveva vista a teatro, diceva che ero moderna, vera. Ne ero felice». Un commento dell'autore le rimase impresso: «Lei ha una bella nuca». Così nacque l'alchimia, l'intesa, il mistero dell'attrazione. E non era solo il meccanismo classico, quello di un autore che proietta se stesso su un attore. C'era di più, c'era lo scambio: «Il loro rapporto - commenta Roberto Russo, compagno dell'attrice - è stato importantissimo per tutti e due, Monica è stata. l'interprete in grado di esprimere i sentimenti che Antonioni voleva esprimere e lui è stato il regista più grande della sua carriera».

MARTIN SCORSESE
The New York Times

NINETEEN-SIXTY-ONE ... a long time ago. Almost 50 years. But the sensation of seeing “L’Avventura” for the first time is still with me, as if it had been yesterday.
Where did I see it? Was it at the Art Theater on Eighth Street? Or was it the Beekman? I don’t remember, but I do remember the charge that ran through me the first time I heard that opening musical theme — ominous, staccato, plucked out on strings, so simple, so stark, like the horns that announce the next tercio during a bullfight. And then, the movie. A Mediterranean cruise, bright sunshine, in black and white widescreen images unlike anything I’d ever seen — so precisely composed, accentuating and expressing ... what? A very strange type of discomfort. The characters were rich, beautiful in one way but, you might say, spiritually ugly. Who were they to me? Who would I be to them?
They arrived on an island. They split up, spread out, sunned themselves, bickered. And then, suddenly, the woman played by Lea Massari, who seemed to be the heroine, disappeared. From the lives of her fellow characters, and from the movie itself. Another great director did almost exactly the same thing around that time, in a very different kind of movie. But while Hitchcock showed us what happened to Janet Leigh in “Psycho,”Michelangelo Antonioni never explained what had happened to Massari’s Anna. Had she drowned? Had she fallen on the rocks? Had she escaped from her friends and begun a new life? We never found out.

STEPHEN HOLDEN
The New York Times

Decades before it was given a name, Michelangelo Antonioni recognized the malady we now call attention deficit disorder. In his great 1960s films, “L’Avventura,”“La Notte,”“Eclipse” and “Red Desert,” but especially in “L’Avventura,” his masterpiece, it wasn’t diagnosed as a chemical imbalance, but as a communicable social disease.
Spawned in a psychological petri dish in which idleness, boredom and dissatisfaction with the material rewards of life combined to create and spread a chronic, generalized, mild depression, it was an ailment peculiar to the upper middle class. What made audiences susceptible was the glamour that attached to it. As I watched the attractive aristocrats and climbers in his films mope through their empty lives, a part of me wanted to be just like those people: self-absorbed and miserable, perhaps, but also fashionable and sexy.
The ever-acute critic Pauline Kael recognized this contradiction in a famous essay, “Come-Dressed-as-the-Sick-Soul-of-Europe Parties,” which aroused the ire of Antonioni devotees like me. More than four decades later, that contradiction remains unresolved in popular culture. Such is the power of film and television imagery that glamour and sex, no matter how tawdry or morally bankrupt, command our attention and whet our fantasies.

RICK LYMAN
The New York Times

Michelangelo Antonioni, the Italian director whose chilly depictions of alienation were cornerstones of international filmmaking in the 1960s, inspiring intense measures of admiration, denunciation and confusion, died on Monday at his home in Rome. He was 94.
His death was announced yesterday by Walter Veltroni, the mayor of Rome. No cause was given. In 1985, Mr. Antonioni had a debilitating stroke that left him partly paralyzed, though he continued to make films sporadically for two more decades.
Earlier on Monday, another great director of the 20th century, Ingmar Bergman, died, at 89, at his home on a remote Swedish island.
Tall, cerebral and serious, Mr. Antonioni, like Mr. Bergman, rose to prominence at a time, in midcentury, when filmgoing was an intellectual pursuit, when purposely opaque passages in famously difficult films set off long nights of smoky argument at sidewalk cafes, and when fashionable directors like Mr. Antonioni, Alain Resnais and Jean-Luc Godard were chased down the Cannes waterfront by camera-wielding cinephiles demanding to know what on earth they meant by their latest outrage.
Mr. Antonioni is probably best known for “Blowup,” a 1966 drama set in swinging London about a fashion photographer who comes to believe that a picture he took of two lovers in a public park also shows, obscured in the background, evidence of a murder.
But Mr. Antonioni’s lasting contribution to film came earlier, in “L’Avventura” (1960), “La Notte” (1961) and “L’Eclisse” (1962), a trilogy that explored his tormented central vision that people had become emotionally unglued from one another.
It was a vision expressed near the end of “La Notte,” when his frequent star Monica Vitti observes, “Each time I have tried to communicate with someone, love has disappeared.”
In a generation of rule breakers, Mr. Antonioni was one of the most subversive and venerated. He challenged moviegoers with an intense focus on intentionally vague characters and a disdain for conventions like plot, pacing and clarity. He raised questions and never answered them, had his characters act in self-destructive ways and failed to explain why, and sometimes kept the camera rolling after a take in the hope of catching the actors in an unscripted but revealing moment.
It was all part of his design. As he explained, “The after-effects of an emotion scene, it had occurred to me, might have meaning, too, both on the actor and on the psychological advancement of the character.”
Many of Mr. Antonioni’s cuts, scene lengths and camera movements were idiosyncratic, and he frequently posed his characters in a highly formalized way.
“What is impressive about Antonioni’s films is not that they are good,” the film scholar Seymour Chatman wrote. “But that they have been made at all.”

Boos and Plaudits at Cannes
Perhaps the defining moment in Mr. Antonioni’s career came the night “L’Avventura” was screened at the 1960 Cannes International Film Festival. Unsure what to make of the film’s obscure story, many in the audience walked out. There were boos, catcalls and whistles. The director and Ms. Vitti thought their careers were over.

A. O. SCOTT
The New York Times

BY an awful and uncanny coincidence — the kind of occurrence that, in a movie, would have to be taken as symbolic lest it seem altogether preposterous — Michelangelo Antonioni and Ingmar Bergman died on the same day. Since Mr. Bergman was 89 and Mr. Antonioni 94, neither man’s death came as much of a shock, but the simultaneity was startling. Not only because they were both great filmmakers, but more because, in their prime, Mr. Antonioni and Mr. Bergman were seen as the twin embodiments of the idea that a filmmaker could be, without qualification or compromise, a great artist.
Not that everyone agreed or saw them both in equally glowing light. There will always be those who scoff at the idea of cinema as a form of art. And those who do embrace the notion have always been notoriously prone to quarrel and dissension. In “Anticipation of ‘La Notte,’ ” for instance, his touching, self-aware memoir of youthful cinephilia, Philip Lopate recalls being part of an undergraduate claque of film buffs in the early 1960s who worshiped Mr. Antonioni and disdained Mr. Bergman.
The title of Mr. Lopate’s essay records a giddy state of waiting for Mr. Antonioni’s “sequel” to “L’Avventura” — before he went to see it on opening night, the author recalls, “I began dreaming, for several nights in a row, preview versions of ‘La Notte.’ ” It seems that he experienced no such ecstasy at the prospect of Mr. Bergman’s “Virgin Spring.” (Not that ecstasy would necessarily be an appropriate response to that bleak, brutal film about rape and revenge in medieval Sweden.) Mr. Bergman was, as far as Mr. Lopate and his friends were concerned, “the darling of the suburbs.”

GIAN LUIGI RONDI
Il Tempo

Una malattia da anni lo aveva privato della parola. Ma non della volontà di vivere né, lui che era stato il poeta dell’incomunicabilità, del bisogno invincibile di comunicare. Sia scrivendo testi finissimi e colti, sia, continuando a fare del cinema, proprio rifacendosi a uno di questi. Come, appunto, con Al di là delle nuvole. La somma, forse, di quasi tutto quello che ci aveva dato nel corso della sua preziosa carriera. Non solo delle cronache di amori quasi impossibili all’insegna, come sempre, della incomunicabilità, ma quel suo costante rifiuto di «narrarli» per mettere gli accenti soprattutto sulla loro «rappresentazione». Luoghi, facce, momenti intensi e raccolti che, con la ben nota magia del suo cinema, arrivavano a manifestare dal loro interno perfino gli stati d’animo. Riuscendo a fargli fare di ogni immagine, o tra le nebbie o al sole o nelle compiute prospettive di insoliti panorami, degli autentici capolavori. In linea con quella sua pittura che, con forte ispirazione, lo aveva visto felicemente cimentarsi negli Ottanta, quando, avendogli tenuto a battesimo, in occasione di una mia Mostra del Cinema a Venezia quella sua «personale» intitolata alle Montagne incantate, Paolo Portoghesi, allora presidente della Biennale, aveva potuto vedervi la continuazione «con altri mezzi e con altra tecnica, di quelle sue memorabili riflessioni sul tema dell’ingrandimento fotografico che ebbero in Blow-up il loro clamoroso esordio». Cinquant’anni di cinema, da quel 1942 quando, appena trentenne, aveva collaborato con Rossellini alla sceneggiatura di Un pilota ritorna, fino a quel 1995 in cui io avrei avuto l’onore e la gioia di presentargli alla Mostra di Venezia il suo affascinante Al di là delle nuvole. Una carriera di certo fra le più alte e le più colte del nostro cinema e anche di tutto il cinema mondiale perché Antonioni, anche quando si era fatto direttamente ispirare dal nostro quotidiano, geograficamente e idealmente era andato sempre oltre pur sapendo che, dopo la tappa inglese, con Blow-up dopo quella americana con Zabriskie Point, quella spagnola e africana, con Professione reporter, e quella cinese con Chung Kuo, gli era sempre necessario tornare a ritrovare stimoli nuovi là dov’era nato. Perché - come disse qui a me nel ’75 - «siamo tutti radicati a una lingua, a una cultura, a un ambiente storico». Precisando subito dopo: «Girando in altri paesi ho finito per assimilarne certi aspetti, perdendo qualcosa di quello da cui provenivo. Un po’ come quegli scrittori che vivono sei mesi negli Stati Uniti e sei mesi in Europa. A un certo momento non sanno più che cosa raccontare. Per questo, spesso, io sento il bisogno di ritrovare le mie radici. Come adesso, che penso di raccontare la storia di persone nate e vissute in Italia. Magari all’ultimo momento questo Paese, che ci dà già i brividi se lo si guarda bene, improvvisamente ti respinge e ti fa cambiare idea. Lo so, non è una critica molto originale ormai, ma può forse essere originale cercare di amarlo lo stesso, questo Paese, pur disprezzandone una parte. E quando dico «una parte», intendo proprio una gran parte di gente, quella che vediamo nelle strade, nei locali...». Antonioni e noi, perciò, fin dagli inizi, quando con la sua opera prima Cronaca di un amore (1950) aveva mostrato subito il suo interesse primario nei confronti della nostra borghesia, tanto spesso trascurata, soprattutto allora, dai nostri autori più seri. Con un cinema che già lo rappresentava e che era lui: in quel primo film e dopo in tutti quelli che lo avrebbero seguito. Mi disse infatti un giorno: «Il mio cinema è quello che è perché io sono quello che sono. C’è chi dice che io sono un regista tipicamente di èlite. La verità è che io ho, nei confronti delle faccende artistiche, un atteggiamento più sciolto, meno impegnato di quanto si pensi. Sono sempre degli interessi personali che mi muovono. I personaggi dei miei film sono tutti inventati, ma nello stesso tempo sono anche reali perché è la realtà a suggerirmene i modelli. Basta una battuta ascoltata, un gesto, una faccia, un’espressione, un fatto, un racconto che qualcuno mi fa. Questo punto si allarga, diventa una sequenza, la sequenza un blocco di sequenze e si arriva alla storia completa. Non si sa mai bene come questo avvenga. Forse c’entra anche una mia esigenza di fare un film ogni volta per qualcuno. No, non il pubblico, una persona precisa, un amico, una donna. È sempre stato così. Come quando da giovane giocavo a tennis. Se avevo un pubblico giocavo meglio. Una volta, a Bologna, nella finale di un torneo non c’era nessuno e ho perso i primi due set. A poco a poco è venuta gente e ho vinto gli altri tre». Un cinema suggerito dalla realtà, dunque, un cinema dedicato agli altri - singoli non masse - e un cinema nello stesso tempo personalissimo e non di rado chiuso in se stesso; per analizzare, sempre dall’interno, il cammino di un’epoca e, attraverso gli anni, l’evoluzione o l’involuzione di una classe, la nostra borghesia appunto. Cronaca d’un amore era già questo, con uno sguardo sulla coppia, con l’analisi di un rimorso e la rappresentazione, anche tecnicamente già perfetta, di una frattura nei sentimenti. Subito dopo I vinti - che avrebbe dovuto intitolarsi I nostri figli andando a fondo nei guasti di quegli anni - finì invece per limitarsi, a causa di varie controversi censorie, a darci un quadro, comunque veritiero, della gioventù bruciata d’Europa, in Italia, in Francia, in Inghilterra. Ma ecco La signora senza camelie che, con l’occasione di un’indagine spesso spietata nell’ambiente dello spettacolo, doveva cominciare a farci sentire la nota dominante di tutto il cinema di Antonioni: l’assenza di speranza e di speranze nei confronti del mondo che osservava e ci proponeva. Il nostro mondo, il suo. È stato da quel giorno, da quel film che io, come critico, avevo cominciato ad adoperare il termine «disperazione» per un autore che, andando controcorrente attraverso le finte o superficiali euforie dei Cinquanta, metteva invece in evidenza il vuoto e la disgregazione di una società che inutilmente si interrogava su sé stessa. Come subito dopo, nelle Amiche (1955), dove quella stessa disperazione si alimentava a quella analoga di Cesare Pavese nel suo racconto Tre donne sole, e come dall’osservazione della borghesia passando intenzionalmente a quella del mondo operaio, nel Grido (1956), dove la crisi esistenziale, da filosofica e sociale, si faceva drammatica. Con echi alti di tragedia. Per arrivare all’incomunicabilità, l’approdo alla grande poetica del silenzio forzato, forse la più esemplare di Antonioni. Tre film nella stessa chiave, L’avventura (1959), La notte (1960), L’eclisse (1962), con il sostegno di un volto femminile - quello intensissimo di Monica Vitti - che precisarono sempre di più in lui la sua attenzione per la donna come figura emblematica di un’epoca senza più certezze e, non solo senza più speranze, ma senza più neanche la possibilità di trovare conforti attraverso una «comuncazione» via via sempre più negata: dalla società e dai mutamenti nella psicologia dell’uomo (e soprattutto della donna) all’interno di questa stessa società. Dall’incomunicabilità alla sua forma «malata», la nevrosi, attraverso le arsure di Deserto rosso. Con invenzioni nuovissime sul colore. Quindi, nell’arco di dieci anni, i suoi due film stilisticamente più ardui, con l’autorità dei capolavori assoluti, Blow-up (1966), Professione reporter (1975). Ai quali, in virtù delle sue continue ricerche sul cinema e sull’immagine, doveva seguire quel Mistero di Oberwald (1980), che sarebbe rimasta la prima sperimentazione dell’elettronica applicata al grande schermo. Per approdare alle ricerche sofferte di Identificazione di una donna (1982). Ancora un’analisi fine e dolente di un personaggio femminile. La sua cifra maggiore. Rivisitata, appunto, nel suo ultimo film veramente d’autore, Al di là delle nuvole. Il suo estremo saluto e, nello stesso tempo, la riconferma della sua rigorosa fedeltà a sé stesso, alla sua arte, alla irripetibile vitalità del suo cinema.

GIORGIO TINAZZI

Cinema. Arte fundamentalmente figurativa, il cinema come la pittura ha il suo mezzo di rappresentazione formale nell'apparenza estema della natura e degli individui, perché lasci chiaramente trasparire la loro interiorità. Si badi bene: apparenza, non materia; perciò si rende indispensabile un rapporto preciso tra spirituale e sensibile, l'ottenimento del quale coincide: da un lato con la trasfigurazione dell'aspetto reale del mondo in pura illusione d'arte, dall'altro con il colore, i cui passaggi, differenze e sfumature consentono la trasfigurazione medesima...

GLORIA SATTA
Ciak

Un Kim Rossi Stuart ventiquattrenne, dodici anni fa, fu scelto dal maestro per interpretare Al di là delle nuvole. «E’ stata un’esperienza indimenticabile», racconta il bravissimo attore e regista. «Pur avendo lavorato in precedenza con maestri del cinema, mi trovai per la prima volta al cospetto di un mito. E appena misi piede sul set, rimasi impressionato dal carisma e dalla forza di Antonioni: non poteva parlare, ma riusciva a mettere sotto tutti. Non aveva perso la sua forza di domatore di leoni, che esercitava con gentilezza e ironia…Indimenticabili le scaramucce con Wenders, l’angelo custode che cercava di aiutarlo in tutti i modi». Aggiunge, Kim: «In quel cast di interpreti straordinari, mi resi subito conto di rappresentare l’ideale di attore secondo Antonioni: fragile, esposto, portatore di un disagio che traspariva e che in qualche modo era lui stesso a provocare…Era il suo modo di trattare gli attori maschi: forse voleva rappresentare lo sperdimento dell’uomo nei confronti delle donne. Faceva così con tutti. Solo Jack Nicholson gli teneva testa».

MICHELE ANSELMI
Ciak

Inés Sastre, 34 anni, da Valladolid. Luisa Ranieri, 32 anni, da Napoli. Entrambe belle, sia pure di una bellezza diversa. Sofisticata e altera, quasi distante, la spagnola; solare e sorridente, molto carnale, la seconda. Antonioni volle l'una, nel più autobiografico e platonico degli episodi di Al di là delle nuvole (1995), l'altra nel più nudo e sensuale dei frammenti di Eros (2004). Per entrambe è un giorno triste.
Sospira al telefono l'attrice iberica. «Domenica Serrault, ieri Bergman, oggi Antonioni. Ma che sta succedendo? Tre talenti enormi che se ne vanno così, l'uno dietro l'altro. Ricordo con molto piacere le riprese a Ferrara, la città di Michelangelo. lo nei panni di Carmen, Kim Rossi Stuart in quelli di Silvano. Un amore immaginato dal regista, sospeso tra desiderio vibrante e rinuncia fisica. Si vedeva che Antonioni metteva in gioco qualcosa di sé». L'attrice, reduce da La cena per farli conoscere di Avati, si esprime nel suo incantevole italiano punteggiato di coloriture spagnole e francesi. «Non parlava, Antonioni, per via della malattia, ma ci si capiva benissimo sul set. Comunicava meglio di tanti registi chiacchieroni che non hanno niente da dire. Quel film segnò il mio ritorno al cinema. Mi consegnai completamente a lui». Esperienza cruciale, accanto ad attori del calibro di Malkovich, Mastroianni, Ardant, Morceau. «Per certi versi era un omaggio alla donna, come lui la vedeva, Due anni dopo fui invitata a Cannes, insieme a Jeanne Moreau e Vanessa Redgrave, per consegnargli un premio alla carriera. E l'emozione si raddoppiò». Il suo Antonioni del cuore? «Forse L'avventura, con quella Vitti così misteriosa, sensibile, intensa».

EMANUELA MARTINI
Il Sole-24 Ore

Undici lungometraggi, da Cronaca di un amore (1950) a Identificazione di una donna (1982), la magnifica, stupefatta immersione nella Cina della rivoluzione culturale (Chung Kuo, Cina, più di 4 ore), i cortometraggi, da quelli noti e apprezzatissimi della fine anni Quaranta (come N.U., Gente del Po, L’amorosa menzogna) a quelli più recenti e rari, come Ritorno a Lisca Bianca, girato nell’83 sui luoghi de L’avventura, e un piccolo documentario girato nel 1977 in India, Kumbha Mela. In pratica, trent’anni della nostra vita, della nostra società, attraverso lo sguardo acuto, tormentato e sempre stimolante dell’autore più anomalo e isolato del nostro cinema. Sempre stimolante: anche quando fa un brutto film (Il mistero di Oberwald del 1980), su un registro melodrammatico che non gli si addice, usandolo però quasi come un gioco emotivo per esplorare le possibilità cromatiche e suggestive della nuova tecnica dell’alta definizione; o quando si lascia suo malgrado affascinare dalla magia e dal mito dello sterminato spazio americano (in Zabriskie Point, 1970) e finisce per trarne più poesia che rabbia; o torna, vent’anni dopo L’avventura, al percorso introspettivo puro ed enigmatico, spiazzando gli spettatoti da effetti speciali anni Ottanta con una riflessione tutta interiore e i critici con una bellissima impennata della fantasia (Identificazione di una donna).

EMANUELA MARTINI
Il Sole-24 Ore

"Mi sono sempre domandato se sia giusto dare un finale ai racconti, letterari teatrali o cinematografici che siano. Una volta chiusa in un suo alveo, una storia rischia di morirvi dentro, se non le si dà un’altra dimensione, se non si lascia che il suo tempo si prolunghi in quello esterno dove siamo noi, protagonisti di tutte le storie. Dove non c’è niente di concluso. "Datemi dei finali nuovi - disse una volta Cechov -, e io vi riinvento la letteratura". È la conclusione di Tanto per stare insieme, uno dei 33 racconti pubblicati nel 1983 da Michelangelo Antonioni in Quel bowling sul Tevere. Sono piccole storie abbozzate, spesso di poche righe, sempre costruite più di immagini che di parole, spunti per film mai realizzati, che riflettono con un’intensità quasi dolorosa le situazioni e gli stati d’animo dei film diretti dal regista in quarant’anni di carriera. Storie di abbandoni, solitudini, incomprensioni e silenzi. Dai primi cortometraggi documentari girati a metà degli anni Quaranta (Gente del Po e il bellissimo Nettezza urbana) all’ultimo lungometraggio diretto nel 1982, Identificazione di una donna, le sue storie senza finale sono sempre state interminabili rebus per gli occhi, dove il rigore e l’acume dell’inquadratura potevano aprire una tormentosa breccia di comprensione nella sensibilità dello spettatore.

LUDINA BARZINI
Vanity Fair

Enrica aveva 18 anni, Michelangelo Antonioni 59 quando si sono conosciuti. Sono insieme da 32 anni. Vivono da sempre nello stesso piccolo attico. Era lo studio di Michelangelo, che non si vuole muovere da lì. «È l‘unico uomo che potrei sopportare qui, perché è silenzioso, indipendente. Lo amo», dice con tenerezza Enrica seduta sul divano blu, davanti alla grande vetrata con vista sul Tevere, accanto al tavolo con i colori e i quadri dove Michelangelo passa i pomeriggi a dipingere. Qui Antonioni ha scritto la sua ultima opera, Eros, film a tre episodi (di uno ha firmato anche la regia) che poteva - doveva - rappresentare l‘Italia a Cannes. Se non fosse scomparso all‘ultimo momento dal programma del festival, misteriosamente ma non tanto, sarebbe stato accompagnato da un film-documento di 15 minuti di cui Michelangelo era regista e attore in coppia con il Mosè, la statua di Michelangelo Buonarroti fresca di restauro. Michelangelo e Michelangelo: «Si è creato un legame speciale, fatto di attenzione ed emozione. Ha voluto girare secondo le regole del suo cinema, dando a se stesso un ruolo muto, in un film che parla con immagini e musica». Enrica sapeva che avrebbe funzionato. Lo sapeva perché Antonioni lo conosce bene. Lo conosceva prima di conoscerlo.

BRUNO FORNARA
Film TV

Di un maestro come Antomoni si possono prendere poche immagini e trovarci l’invenzione della modernità. Prendiamo due sequenze memorabili. Quella di Lisca Bianca nell'Avventura (195g) e quella che chiude L'eclisse (1962). L'avventura fu una vera e propria, fatícosa e pericolosa “avventura“: il produttore che si ritira, la troupe in sciopero, mesi alle Eolie senza un soldo, tutti bloccati come naufraghi per giorni e notti su Lisca Bianca che è poco più di uno scoglio, senza coperte, senza niente da mangiare e con il mare forza nove. La lavorazione del film è roba da forzati. L’avventura, al contrario, è una storia borghese: un gruppo di benestanti in gita su un’isola con lo yacht, chiacchiericci su amori e capricci, la messinscena, anche frivola, dell'incomunicabilità. E Anna (Lea Massari) scompare. Così. Il fidanzato Sandro (Gabriele Ferzetti) e una sua amica, Claudia (Monica Vitti) la cercano senza troppa convinzione, anche perché tra i due nasce una relazione (una relazione “alla Antonioni“: che non si bene cosa sia, se ci sia mai stata, se ci sarà ancora...).

ADRIANO APRà

Il silenzio a colori si intitola l’ultima opera di Michelangelo Antonioni: una mostra di dipinti, realizzati a partire dal 2002, vista al Tempio di Adriano a Roma dal 28 settembre al 22 ottobre 2006. Centinaia di immagini, per lo più astratte, che colpiscono per la profusione dei colori e delle forme: tutto l'opposto, si direbbe, del rigore monotematico delle precedenti Montagne incantate, assai più facilmente comparabili ai suoi film. Stavolta ci troviamo di fronte a un «nuovo» Antonioni, come se l'anziano artista avesse scoperto nelle limitazioni fisiche della malattia una incredibile giovinezza della fantasia. Faceva parte della mostra anche un video realizzao dalla moglie Enrica Fico, con Michelangelo, dove lo si vede comporre con entusiasmo e infinita pazienza i suoi collage: come un bambino che gioca, viene voglia di dire.
Antonioni era tutt'altro che un artista in ritiro. Va detto con chiarezza che i film realizzati negli ultimi anni sono integralmente «suoi», nonostante gli impedimenti fisici. Al di là delle nuvole (1995) e il cortometraggio Lo sguardo di Michelangelo (2004) possono essere annoverati, anzi, tra i suoi capolavori; e sul primo vale la pena di leggere la testimonianza di Wim Wenders (in Il tempo con Antonioni. Cronaca di un film, Socrates, 1995) per capire quanto la sua mediazione fosse integralmente al servizio dell'artista.

EDOARDO BRUNO

C'è una lunga sequenza non montata nel film L’Avventura che Antonioni e la Vitti hanno mostrato in un'intervista filmata, trasmessa in televisione anni fa, con alcuni «si gira» a Lisca Bianca, intitolata «Il ciabattino» che fornisce alcuni elementi di considerazione. Più o meno siamo nel momento in cui Sandro (Gabriele Ferzetti) e Claudia (Monica Vitti), in macchina stanno raggiungendo Noto. Qualcosa è mutato tra loro nonostante la reticenza di lei, i dubbi, i falsi pudori. Per la strada un uomo fa segno di fermarsi e propone loro il gioco del ciabattino. Un momento di pausa nell'intrigo dei loro scambi di umore, una parentesi in una tensione che potrebbe anche sembrare arbitraria. Ma arbitraria non è. Il gioco consiste nell'invito a sedersi per terra, sul ciglio di una strada solitaria e nel battere, con il tacco della scarpa della donna, sulle mani del ciabattino ogni volta che questi, mimando i gesti del suo lavoro, con rapida sveltezza tocca terra. l due accettano il gioco, divertendosi, allentando la tensione emotiva, abbandonandosi allo scherzo con una allegrezza che non sembra forzata. La molteplicità delle loro voci e la sottomissione all'abilità del giocatore suggerisce il gioco della partita il coup de dés mallarmeano e questo richiamo non ha un significato casuale, perché nella prospettiva decostruzionista del cinema di Antonioni sembra legittimarsi proprio per la sua arbitrarietà. Così, in modo apparentemente paradossale, possiamo dire che l’episodio del ciabattino può essere visto come la radicale. consapevolezza dello stesso Antonioni, in una prospettiva ermeneutica della voluta incertezza dei personaggi, una «spia» della casualità delle loro storie.

ROCCO GIURATO

È morto Michelangelo Antonioni. Il regista era nella sua casa romana, accanto a lui c'era la moglie, Enrica Fico. Erano le 20. Aveva 94 anni. Da domani, nella protomoteca del Campidoglio, sara allestita la camera ardente. Successivamente la salma sarà trasferita a Ferrara, città natale di Antonioni, e giovedì saranno celebrati i funerali.
Ormai non aveva piu parole il Maestro, non ne aveva mai avuto bisogno, per evocare in immagini, emozioni senza tempo. La complessità della vita, le relazioni umane, gli sguardi sul mondo. Michelangelo Antonioni lascia noi ma non il cinema, con fotogrammi immortali, dalle prime sperimentali opere, da quel N.U., che sta per nettezza urbana, un lavoro giovanile che indaga con occhio poetico e spirito da cronista su un mestiere della notte, come tanti, quello del netturbino.
Arrivato al cinema dopo lunghe e significative esperienze negli anni '50, alla sua scuola si sono riferiti importanti registi quali Akira Kurosawa, Martin Scorsese, Francis Ford Coppola e Wim Wenders.

MORANDO MORANDINI

Anche Antonioni se ne è andato. In vita mia è la prima volta che una notizia luttuosa di questo genere mi trova spaesato, in uno stato d'animo così contraddittorio: in bilico tra la pena, per me, e la liberazione, per lui.
Non è soltanto una questione di età (la morte lo ha colto lunedì sera a Roma, all'età di 94 anni), ma di salute fisica: a metà degli anni 80 fu colpito da un ictus che non gli toccò la testa, la lucidità mentale, ma gli rese difficile la comunicazione orale. Passano quattordici anni tra Identificazione di una donna (1982) e Al di là delle nuvole (1995) e altri dieci prima dell'episodio, uno dei tre,di Eros ( 2004), film vicino, ma già dimenticato perché dimenticabile.
In un certo senso – e lo si dice con desolata tristezza – vent'anni fa per Antonioni di Ferrara la vita finì e cominciò la sopravvivenza, almeno sul piano professionale, per noi, suoi spettatori e ammiratori.

FRANCESCO ROSI

Voglio dire che sono molto addolorato. Provo un dolore che si rinnovava ogni volta che incontravo Michelangelo, impedito dalla malattia ma sempre attraversato da una grande energia e dalla voglia di fare. Infatti, nonostante tutto ha lavorato, ha fatto film: il cinema era la sua vita. Aveva addosso questa carica di voler fare, di volersi esprimere, si era messo anche a dipingere malgrado l'immensa difficoltà nei movimenti. Mi offriva la dimostrazione di una forza di resistere alla malattia e di dominarla; faceva parte del suo carattere. Io ho fatto l'assistente per un suo film, I vinti, girato in Francia, Italia e Gran Bretagna; tre episodi di cronaca che vertevano attorno alla angoscia esistenziale nei giovani del Dopoguerra. L'episodio inglese è un vero gioiello, esempio illuminante di come Antonioni riusciva a caricare la narrazione di emozioni e significati che andavano al di là delle immagini. Era questa, è questa la grande forza di Antonioni: il linguaggio del cinema è l'immagine, che però lui animava attraverso i movimenti di macchina di cui è stato e rimane maestro assoluto, attraverso un dettaglio, un silenzio; un concerto di segni che esprimevano significati al di là di quel che vedevi. Il dialogo a volte non doveva comunicare quello che Antonioni esprimeva attraverso l'immagine, nell'inchiesta che svolgeva nei pensieri più segreti dell'animo umano. Questa, in fin dei conti, è la famosa incomunicabilità di Antonioni, la incomunicabilità dei sentimenti che non riescono, attraverso la complessità dell'animo umano, a esprimersi nella libertà e nella verità. Invece, ecco che ti conduceva nel mistero di questa incomunicabilità e della complessità dell'animo umano: i suoi film sono tutti fondati su questa relazione apparentemente impossibile, negata. L'immagine usata come parola; in fondo, ciò che il cinema stesso è e deve essere, riuscire a fare a meno della parola. Ricordo in Blow up quella sequenza famosissima e bellissima in cui due giocatori mimano una partita a tennis. Ora, questo gioco di mimare l'incontro senza strumenti ci fa pensare a quello che noi vediamo e insieme a quello che si nasconde sotto ciò che vediamo. Credo che Antonioni sia stato uno dei più grandi, anzi, togliamo quel «credo»: Antonioni è stato uno dei più grandi narratori di cinema da quando il cinema esiste. Mi chiedono chi ne raccoglierà il testimone. Bisogna avere fiducia nei giovani. Hanno attraversato un periodo difficile, vent'anni di terrorismo folle nel nostro paese durante i quali si ammazzava un professore, un giornalista; questo terrorismo ha lasciato un vuoto terribile e naturalmente lo hanno riempito come hanno potuto, si sono rifugiati nel cinema delle «due camere e cucina», si sono ritirati nei sentimenti. Ma mi pare che oggi ci sia la voglia di tornare a un cinema che approfondisca i rapporti dell'uomo con la società, con la realtà che lo circonda.

VANESSA REDGRAVE

Le figure centrali del nostro cinema dagli anni cinquanta in avanti non sono state, come fu per molto tempo abituale teorizzare a sinistra, quelle di Zavattini, Visconti, De Sica, De Santis e altri – pur rispettabilissimi – autori “impegnati”, bensì quelle dei più spericolati e azzardanti Rossellini, e poi Fellini, e poi il “borghese” Antonioni (e più tardi Pasolini) che furono tra gli autori meno imitabili e i più originali, in grado di reggere il confronto e spesso di superare registi più o meno coetanei che, in giro per il mondo, da Bergman a Kurosawa, da Bunuel a Mizoguchi, da Kubrick a Wajda (e più tardi a Godard e a Tarkovskij, e più tardi ancora a Fassbinder, e oggi a Lynch, Cronenberg, Tsai Ming Liang e pochissimi altri) imposero una figura di regista che poteva essere più importante, nel campo della produzione artistica e dell’influenza culturale, di quelle di grandi scrittori, di grandi pittori, di grandi artisti in campi espressivi più riconosciuti. Senza affatto esagerare, insomma, di rilievo paragonabile a quello dei Faulkner e dei Picasso, degli Strawinsky e dei Le Corbusier.

TONINO GUERRA

«Ho scritto con lui una dozzina di film. Michelangelo ha cambiato il mio lavoro, la mia vita, perfino il mio modo di vestire: come tutti quelli che vengono dal paese, quando lo conobbi portavo abiti di velluto...E aveva una chiarezza stordinaria, ha dato un’arrangiata anche ai miei pensieri». Tonino Guerra è affranto, parla con la voce rotta. La notizia della morte di Antonioni gliel’ha datta Enrica chiamandolo a Pennabilli, in Romagna, dove il poeta vive da sempre. «Domani andrò a Ferrara, per i funerali», racconta lo sceneggiatore dei capolavori del maestro, da L’avventura a La notte, da Blow Up a Zabriskie Point, Identificazione di una donna, Al di là delle nuvole, Eros. «E’ giusto che Michelangelo riposi là. Era un po’ che non ci vedevamo: lui non stava benissimo, io che ormai ho 87 anni non mi muovo facilmente...». Un ricordo, fra tutti: «Qualche anno fa navigavamo insieme sulla Modaria, un fiume dell’Ubzekistan. Sopralluoghi per un film mai fatto, L’aquilone. Procedevamo a zig-zag e quando la barca s’infilò in una zona d’ombra. E lui disse: mi pare che dobbiamo arrivare a Ferrara. Sono sicuro che in quel momento pensava alla morte».

CARLO LIZZANI

NEGLI anni Sessanta, il mondo del cinema (e anche il pubblico) si spaccò in due: da una parte c'erano i "felliniani", dall'altra gli ammiratori di Michelangelo Antonioni. lo, da regista ma soprattutto, come storico del cinema, non presi partito. Mi limitai ad analizzare il fenomeno, a studiare da vicino il rapporto strettissimo che i due maestri avevano con il neorealismo. E arrivai alla conclusione che, sia pure in forme diverse e attraverso percorsi del tutto personali, entrambi affondavano le radici in quel movimento che, subito dopo la guerra, aveva rappresentato un'autentica rivoluzione, formale e di contenuti, nel modo di concepire e di fare il cinema.

ALBERTO BEVILACQUA

ANTONIONI è stato la nevrosi della coscienza italiana, il conflitto inconscio fra l'individuo e l'ambiente, un fiume controcorrente in un dopoguerra in cerca di una logica. Un dopoguerra che cercava. spesso in modo illusorio, di ricomporre una logica della vita lungo i binari di possibilità prevedibili: il benessere economico, la pacificazione borghese, il superamento del diverbio delle classi sociali. Della nevrosi, che lo portava a giudicare le apparenze. Antonioni non è stato soltanto interprete, ma anche l'elemento incarnante, a scapito dei sogni collettivi, delle buone speranze. Potremmo parlare di nevrosi precognitiva, vibratile come l'inquietudine degli animali della giungla quando avvertono che lo tsunami non ha esaurito la sua forza distruttrice, ma ha solo preso pausa, in attesa di tornare a infierire. Col suo istinto o religio rovesciata, Antonioni ha sofferto le piaghe che i santi portano nei palmi per immedesimarsi col golgota cristiano, ossia si è lasciato abitare da quel disagio delle libre ultime che la guerra aveva profondamente inciso nell'uomo. in tutti gli uomini che pensavano di essere usciti vincitori dal cataclisma bellico, ma in realtà erano infettati e "vinti". Vinti anche se non sconfitti, perché quel disagio sarà, attraverso gli anni, la' piaga mai guarita che tornerà a dettare la sua legge impietosa. E oggi, proprio nel nostro tempo, sappiamo bene quanto quel disagio sia esploso. I titoli stessi dei film testimoniano la verità di una diagnosi "psichico-artistica" che. per questa doppia origine, resta di una singolarità sofferta e stupefacente. Blow-up è del 1966: ebbene, pochi altri film si confermano. Più di questo,il calco esatto della nostra contemporaneità estrema, della sua asimmetria morale e cognitiva. Un fotografo di moda. convinto di aver casualmente fissato nell'obiettivo un caso di omicidio, arriva alla fine a dubitare dell'effettiva esistenza del crimine. Le apparenze ingannano, è vero. ma oggi è anche peggio: le apparenze convincono. "Sii quello che sembri" per dirla con il Lewis Carrol di Alice. Antonioni intuisce questo "passo nel peggio". rispetto alle sue convinzioni di base, e tenta di esprimerlo, dopo il suo ritiro a causa di una malattia, con le sue ultime, irrisolte prove. Resta assoluta la coerenza d'artista. L'intima frattura. con l'esperienza neorealistica, ovviamente lontana dalla sua sensibilità, Antonioni la testimonia, a mio avviso, con Il grido, nel 1957, dove già si disegna l'errare dell'uomo in crisi, senza meta, senza nemmeno l'alibi, alle spalle, della glorificazione di un passato. La trilogia dell'incomunicabilità. (L'avventura, La notte; L'eclisse), rimasta ed equivocata come un marchio di produttività, è in realtà una fissazione programmatica e intellettualistica di ammorbidite folgorazioni che qui abbiamo esposto nell'essenza, assai più essenziali e drammaticamente vive. Chiudo con un ricordo strambo. Mi capitava di andare, con Antonioni, a qualche proiezione ufficiale, anche di pellicole rispettabili. Durante la proiezione, lo vedevo a tratti cedere al sonno, per poi riprendersi, fingere attenzione, tornare a ciondolare con la testa. Gli dissi: "Hai dormito". Aveva dormito, sì, ma in un caso mi rispose con una giustificazione, falsa, di poetica vera: "Era per dimostrare, a me stesso che un film può e deve prescindere dalla schiavitù alla trama, Infatti, mi sono svegliato nei momenti essenziali".

FRANCO CORDELLI

La Roma di Antonioni… Vogliamo dire che era la Roma dell'ambiguità? Ricordo il titolo di un libro di Pio Baldelli, pubblicato nel 1969 da Samonà e Savelli e dedicato a chi? A Bergman e Antonioni. Quel libro era intitolato «Cinema dell'ambiguità» e recava nel sottotitolo i nomi dei due grandi registi! Ma se davvero la Roma di Antonioni si possa racchiudere in una formula che ha perduto strada facendo la sua pregnanza, noti so. Bisogna stare ai fatti. Alla Roma che realmente appare nell'opera del regista ferrarese.
Comincio non già dal cinema ma dal suo libro di storie che avrebbe voluto tradurre in immagini: «Quel bowling sul Tevere» del 1983. «Ero dunque a Roma fermo con la macchina sul lungotevere che fiancheggia la zona dove sorge il villaggio olimpico Cercavo qualcosa che avevo perduto (io passo gran parte del tempo a cercare). Alzando gli occhi vidi un uomo uscire dall'edificio dove si gioca al bowling. Il suo modo di raggiungere la macchina. Di aspettare prima di aprire lo sportello di salirvi erano insoliti. E così lo seguii. Quello che segue è il racconto del mio fantasticare su di lui».

CARLO LIZZANI

«HO CONOSCIUTO Antonioni metta redazione di Cinema, la storica rivista diretta da Vittorio Mussolini, quando evocando la grande letteratura ed esercitando la critica cinematografica sognavamo un cinema nuovo e diverso, il Neorealismo. Ricordo poi la fase in cui dal Neorealismo emerge uria idea nuova di cinema che Antonioni ha propugnato prima di altri e di cui tutti noi in misura diversa sentivamo l'urgenza.

TONINO GUERRA

Ho incontrato Michelangelo Antonioni moltissimi anni fa a Roma. Io venivo da Santarcangelo di Romagna, da una civiltà agreste e vestivo di velluto. Lui pian piano mi ha fatto smettere quegli abiti troppo contadini per introdurmi nel mondo del cinema: dovevo pur presentarmi con una certa forma per incontrare attori e produttori.
Quando ci incontravamo prima di tutto inventavamo un gioco, cose da nulla.
Gettavamo una palla di carta dentro un cestino alla distanza di due o tre metri, ma erano sfide terribili, perché uno controllava l'altro in maniera implacabile. Oppure con dei bastoncini spingevamo una palla che doveva andare a battere contro una colonna o una gamba del tavolo. Era quasi una specie di golf.
Ci cimentavamo anche nelle corse, ma lui, in questo caso, mi batteva sempre. Quando arrivavamo sotto casa mia, abitavo al quinto piano, gli consegnavo le chiavi. Io salivo in ascensore e lui a piedi.

UGO CASIRAGHI

100 o 10 film da salvare, tra gli infiniti girati in ogni tempo e in tutto in mondo, non fa differenza: ammesso che questi esercizi abbiano qualche significato, in ciascuna delle liste che si possono proporre entrerà sempre un film di Michelangelo Antonioni.
Almeno uno. L’opera privilegiata è di solito, per unanime consenso, L’avventura. Ma il consenso su questo capolavoro non fu affatto immediato. Al festival di Cannes del 1960, dove apparve la prima volta, il film venne fischiato. Quel pubblico borghese, tuttavia appartenente alla borghesia meno ignorante d'Europa, lo ridicolizzò. Era profondamente irritato perché non riusciva a capire dove fosse finita la ragazza scomparsa. Ciò che Hitchcock gli avrebbe spiegato per filo e per segno, Antonioni glielo sottraeva. Una provocazione intollerabile.
Ci volle una specie di manifesto firmato dai migliori cineasti e critici presenti a Cannes per ristabilire l'equilibrio, restituire dignità alla competizione e probabilmente influenzare la giuria perché non si facesse scappare L’avventura e il suo autore nei premi. Poi, quando il film stava per uscire in Italia, a Milano vigilavano i due famigerati procuratori della Repubblica che avevano già imposto all'esercente di "oscurare" Rocco e i suoi fratelli di Visconti. Nell'ovattata sala sotterranea del Mignon, Antonioni dovette lottare con tutto il suo spirito, che è grande, per strappare alle grinfie degli improvvisati censori anche un solo minuto del metraggio complessivo. Ci riuscì quasi per intero: i tagli che fu costretto ad accettare per uscire da quella situazione umiliante e grottesca si misurano forse in una manciata di secondi.
Il 29 settembre scorso Antonioni ha compiuto settant'anni e pochi se ne sono accorti, anche perché nessuno, vedendolo di persona o vedendo i suoi ultimi film, si sognerebbe di attribuirgli l'età che ha raggiunto tra il perfetto silenzio della cultura accademica. Eppure il suo nome è tra quelli che ancora ci danno voce fuori confine; all'estero l'entusiasmo può giungere al punto di vedere in lui il Michelangelo del nostro tempo. Nessuno è profeta in patria anche se Antonioni, col suo lavoro, è stato il più profetico dei nostri cineasti.

FERNALDO DI GIAMMATTEO

Giovane, elegante intellettuale, cresciuto in una raffinata città di provincia, si laurea, stranamente, in economia e commercio. Si esercita nella critica cinematografica, prima al Corriere padano, poi a Roma nella redazione di Cinema. A Parigi è assistente, nel 1942, di Marcel Carnè per L'amore e il diavolo. Nel 1943 avvia un documentario (Gente del Po) che terminerà quattro anni dopo. Partecipa ad alcune sceneggiature, scrive soggetti (anche per Visconti), realizza alcuni brevi, suggestivi documentari (N.U. , L'amorosa menzogna), e giunge nel 1950 al lungometraggio, procedendo controcorrente rispetto al neorealismo (lui che ha scritto un saggio puntualissimo su La terra trema). Narra di due «amanti impossibili», a Milano, invischiati in un giallo: Cronaca di un amore. L'ambiguità è il suo terreno di regista. Fra le tappe successive da ricordare La signora senza camelie (1953), Le amiche (1955) dal racconto pavesiano Tra donne sole, II grido (1957), film di transizione, L'avventura (1959), con il quale si conclude il periodo, per così dire, sperimentale.

MARIO SOLDATI

Facciamola fuori una buona volta, con Antonioni! Era questo il mio pensiero, qualche giorno fa, una splendida mattina di sole e di vento, mentre in macchina con Filiberto Lodi passavo la frontiera francese, tra mare e roccia, per il nuovo valico di San Ludovico. Andavamo all'aeroporto di Nizza, a prendere Bassani in arrivo da Roma. Era un pensiero naturale, Antonioni, Lodi e Bassani sono tutti e tre ferraresi, e coetanei... Un momento! Siccome di maligni ce n'è tanti, e siccome Antonioni è sollecitato, dalla propria natura mesta e suscettibile (quasi una mania di persecuzione), ad ascoltare i maligni, è forse prudente che io precisi. Pensando «facciamola fuori con Antonioni!» non pensavo affatto «facciamo fuori Antonioni! » neanche figurativamente; ma soltanto: facciamo una buona volta i conti con Antonioni, risolviamo finalmente, se ci è possibile risolverlo, il problema della sua arte, che ogni film da lui firmato torna a presentarci, e che l'ultima opera, il recentissimo sketch da lui girato per I tre volti di Soraya, e da lui intitolato Prefazione, propone con la chiarezza, addirittura, di un paradigma. E di nuovo, subito, devo preoccuparmi dei maligni, e del conseguente pericolo che Antonioni mi fraintenda. Non voglio, Michelangelo mio, Michelangelo nostro, Michelangelo dei nostri tempi, non voglio dire che Prefazione sia un'opera schematica, fredda, fatta su commissione: uno sketch alimentare, e basta. Per carità. La credo, a oggi, una delle tue opere migliori, se non la migliore tout court: la più perspicua, la più esemplare. Forse perché il soggetto è il più esile che mai tu abbia immaginato e che qualunque regista possa immaginare: il provino di una nuova attrice. Se ben ricordi, del Deserto rosso ti avevo detto questo: che tu avresti dovuto cercare, appunto, un soggetto estremamente rarefatto: per poterlo riempire, appunto, come volevi e finché volevi, fino all'orlo della sua capacità, fino alla sua saturazione, col fluido irrazionale, informale, viscerale del tuo strapotente lirismo. Ecco che il provino di Soraya ti ha dato, non so se per tua fortuna o per tuo calcolo, e non so con quanta consapevolezza da parte tua, questa straordinaria e forse irripetibile possibilità. Senza contare che il paragone inevitabile con i due sketches seguenti, l'elegante Amanti celebri del pur bravissimo Bo-lognini, e il decoroso Latin lover dell'esordiente Indovina, questo paragone aiuta noi ancora meglio a capire te fino in fondo, Michelangelo: così come l'impegno, per te nuovo, di una siffatta concorrenza (non ti offendi per l'espressione commerciale?) può avere aiutato te a essere il più sfrenatamente possibile soltanto te stesso.

ROLAND BARTHES

Nella sua tipologia, Nietzsche distingue due figure: il prete e l'artista. Di preti, ne abbiamo oggi da vendere; di tutte le religioni e anche senza religione; ma di artisti? Vorrei, caro Antonioni, che tu mi prestassi per un attimo qualche tratto della tua opera per permettermi di fissare le tre forze, o se preferisci, le tre virtù che ai miei occhi costituiscono l'artista. Le dico subito: la vigilanza, la saggezza e la più paradossale di tutte, la fragilità.
Contrariamente al prete, l'artista ammira e si stupisce; il suo sguardo può essere critico, ma non è accusatore: l'artista non conosce risentimento. Proprio perché tu sei un arti sta la tua opera è aperta al Moderno. Molti prendono il moderno come una bandiera di combattimento levata contro il vecchio mondo, i suoi valori compromessi; ma per te, non è il termine statico di una facile opposizione; anzi, al contrario, il Moderno è la difficoltà attiva di seguire il mutare del Tempo, non più solamente a livello della grande Storia, ma all'interno di quella piccola Storia di cui è misura l'esistenza di ciascuno di noi. Cominciata all'indomani dell'ultima guerra, la tua opera si è così rivolta, di momento in momento, secondo un doppio movimento di vigilanza, al mondo contemporaneo e a te stesso; ognuno dei tuoi film è stato, a livello personale, un'esperienza storica, l'abbandono cioè di un problema vecchio e la formulazione di una domanda nuova; il che significa che tu hai vissuto e trattato la storia di questi ultimi trent'anni con sottigliezza, non come la materia di un riflesso artistico o di un impegno ideologico, ma come una sostanza di cui tu dovevi captare, di opera in opera, il magnetismo. Per te, il contenuto e la forma sono storici allo stesso modo; i drammi, come tu hai detto, sono indifferentemente psicologici e plastici. Il sociale, il narrativo, il nevrotico, non sono che livelli, pertinenze, come si dice in linguistica, del mondo totale, che è l'oggetto di ogni artista: c'è una successione, non una gerarchia degli interessi. Per essere precisi, contrariamente al filosofo, l'artista non evolve; come uno strumento molto sensibile, egli percorre le successioni del Nuovo che la propria storia gli presenta: la sua opera non è un riflesso fisso, ma una moire su cui passano, secondo l'inclinazione dello sguardo e le sollecitazioni del tempo, le figure del Sociale o del Passionale, e quelle delle innovazioni formali, dal modulo narrativo all'impiego del Colore.

GIAN PIERO BRUNETTA

La medesima inquietudine stilistica che lo aveva portato a difendere a oltranza la propria individualità negli anni Cinquanta e una felice capacità di sintonizzazione con le tensioni culturali, letterarie, filosofiche, esistenziali e ideologiche diffuse oltre i confini nazionali spingono quasi naturalmente Michelangelo Antonioni al centro della scena e lo promuovono al ruolo di coprotagonista accanto a Fellini. L'avventura giunge a ridosso della Dolce vita e gode di consensi assai contrastati: lo strappo rispetto al cinema degli anni Cinquanta è sensibile e non è facile inventare categorie pertinenti a un tipo di cinema che, in modo plateale, non ha alcun legame con la tradizione. La reazione è solo differita: già nel 1961 Antonioni è assunto a forza nell'empireo dei massimi maestri del cinema mondiale e per merito dell'Avventura e della Notte, oltre che della Dolce vita di Fellini, il cinema italiano riguadagna quel prestigio internazionale che alla fine degli anni Cinquanta appariva un po' appannato.
Se abbiamo constatato che la produzione bibliografica su Fellini, a partire dalla Dolce vita, subisce una crescita enorme, lo stesso si può dire per Antonioni, anche se gli interessi critici vengono stimolati per ragioni differenti.
Rispetto a Fellini, per Antonioni si registra subito una netta superiorità sul piano della qualità del lavoro critico. Il critico felliniano spesso si lascia affascinare e sedurre dagli aspetti più esteriori e appetibili (ma anche deteriorabili) dell'opera e del regista. Con Antonioni questo non è possibile: né lui come personaggio, né le sue opere offrono alcun appiglio per i pezzi di colore, le facili identificazioni autobiografiche, ecc. Il lavoro critico richiede delle doti e un'attrezzatura da scalatore di sesto grado superiore. In mancanza di appigli e punti d'appoggio gli strumenti critici devono incidere e far presa per dare qualche risultato, e non è concessa alcuna improvvisazione. Così, se dalla sterminata produzione critica su Fellini si possono senza rimorsi buttare a mare non pochi titoli, per Antonioni si può parlare di una critica che cresce su se stessa e che si impone come disciplina comune di evitare il descrittivismo e il sociologismo più elementari.
Con gli anni Sessanta si entra nella fase dell'opera di Antonioni su cui la critica in tutto il mondo si è subito misurata, servendosi degli strumenti più sofisticati e aggiornati dell'ermeneutica, della psicanalisi, dello strutturalismo e della semiologia. Però, come avviene in Blow-up, o nel processo tecnico di «latensificazione» che accompagna lo sviluppo dei suoi dipinti e il loro ingrandimento fotografico (che consente di rivelare aspetti non previsti all'atto della realizzazione grafica), sottoponendo a ingrandimenti e analisi stratigrafiche la sua opera, ci si accorge che il paesaggio è tutt'altro che conosciuto. A ogni passo, ci si può imbattere in aspetti inediti e imprevisti. Lo stesso autore cerca di deludere le attese e sfuggire ai tentativi di imbalsamazione o incasellamento entro formule, come quelle dell'incomunicabilità e dell'alienazione. Antonioni, rispetto a Pasolini, ad esempio, non ha mai esibito platealmente le sue passioni, né la sua fame di vivere, il suo vitalismo eccessivo e trasgressivo, ma il suo viaggio non è parso avere mai alcun limite e certo è sempre sembrato proiettato in avanti e come percorso da una giovanile e febbrile curiosità per il nuovo che lo ha accompagnato fino a Identificazione di una donna e ai molti progetti rimasti sospesi.

GIAN PIERO BRUNETTA

Appare chiaro - dopo Deserto rosso - che l'attenzione di Antonioni, una volta acquisiti i dati tematici, si rivolge, anche in modo più esplicito; a un'interrogazione sull'arte contemporanea. Il cinema diventa un mezzo di coagulazione e risistemazione di ricerche pittoriche, musicali, estetiche... Attraverso la propria visione Antonioni filtra dapprima materiali e stimoli provenienti da tutto il campo del lavoro artistico, in particolare con Blow-up, trasferisce questi elementi al centro della scena, rendendoli oggetto di racconto.
Una volta constatata e riproposta in varie forme la dissoluzione del soggetto all'interno dello spazio della realtà italiana, Antonioni sente il bisogno - come poi farà anche Pasolini - di verificare su scala più vasta i suoi dati. Blow-up, Zabriskie Point, Chung Kuo (Citta), Professione: reporter vogliono essere nell'insieme un progetto di fuga o di verifica se, mediante lo spaesamento, sia possibile ricomporre l'unità dell'individuo. Il risultato - forse più positivo - di questa ipotesi è il documentario sulla Cina, che rappresenta, nell'itinerario antonioniano, il momento di restituzione perfetta all'individuo e alle masse del loro spazio esistenziale.
Blow-up pertanto appare come una dichiarazione di sconfitta nel senso che, all'operazione di spaesamento, corrisponde la constatazione sia della perdita d'identità, che della prevalenza del potere della macchina nel produrre e conoscere la realtà. Attraverso Thomas, il fotografo che scopre la sua subalternità rispetto al potere dell'occhio fotografico, Antonioni ripercorre, a cinquant'anni di distanza, l'itinerario pirandelliano dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore, con, in più, un'interrogazione generale sull'esistenza ancora di un margine di scelta tra apparenza e realtà, tra il vivere come soggetto e l'essere vissuto da altri. Thomas può scegliere, fino all'ultimo, tra queste due prospettive, come si capisce dall'irruzione sulla scena, in apertura e in chiusura del film, dei mimi che gli propongono una diversa possibilità di partecipazione al reale.

LINO MICCICHè

Sarà, ma a me pare che il discorso più vibrante e profondo sul rapporto di coppia, e sulla sua crisi, sia non già nei (molti) film odierni che in qualche modo lo affrontano, anzi che così sovente ne esibiscono gli aspetti problematici, la sua crisi ormai endemica, le sue illusioni ormai caduche, il compromesso esistenziale cui, nel migliore dei casi, tale rapporto affida la propria sopravvivenza; ma in un regista come Michelangelo Antonioni, la cui filmografia si propone, per almeno un venticinquennio, come il paradigma più esemplare e più lucido di un cinema moderno (nella Settima Arte, si sa, le categorie del "primitivo", del "classico", del "moderno" e del "postmoderno" si succedono, e a tratti financo coesistono, lungo meno di un secolo), l'esempio esteticamente più alto ed eticamente più significativo, certamente a livello nazionale, ma quasi altrettanto certamente a livello europeo e mondiale, di una pratica estetica che all'inquietudine "moderna” sa dare, con ineguagliata sapienza, uno spessore narrativo, una perspicuità simbolica e un'intensità espressiva senza pari nel cinema della seconda parte del secolo.
Erede di un neorealismo che egli stesso ha contribuito, fra i primi, a proporre (Gente del Po, 1943-47, e in generale tutto lo splendido documentarismo antonioniano '48-50), Antonioni esordisce nel lungometraggio narrativo con Cronaca di un amore (1950), ed è subito coppia. Vi è la coppia matrimoniale Paola-Fontana (come nel film di fondazione del cinema postfascista, il viscontiano Ossessione, lei vi ha messo la propria avvenenza e il proprio corpo, lui la propria forza capitalistica e l'attitudine padronale: v. seq. XXXVI, inq. 124); vi è la coppia clandestina Paola-Guido (ancora una volta come in Ossessione, lei vi mette la propria sensualità e il proprio desiderio, lui la propria istintualità e il proprio bisogno di acquietare in un amplesso la febbre - bellica e postbellica - del cambiamento: v. seq. XXIX, inq. 93; seq.
XXXIV inq. 117-119; seq. XLIV, inq. 141); vi è, dietro la coppia degli odierni amanti, il turbativo ricordo della coppia Giovanna-Guido, la cui memoria, e per- Paola e per Guido, è alonata da un sospetto di gesto delittuoso: quando, a Ferrara, la ragazza era precipitata, morendovi, nella tromba dell'ascensore, con i due che, pur sapendo, tacquero. Come (quasi) sempre, i film antonioniani escludono il flashback quale scienza e rivivibilità del passato, che incombe sul presente come memoria e turbata coscienza di un oggi che lo ieri inquina. Così il rapporto di coppia più autentico fra i tre, quello Paola-Guido, dove ambedue potrebbero mettere una analoga carica di desiderio e un paritario tributo affettivo, e messo in crisi, e definitivamente reso impossibile, dal sospetto delittuoso passato (la "disgrazia" occorsa a Giovanna) e dal progetto delittuoso presente (la progettata uccisione dell'ing. Fontana, v. seq. XLVII, inq. 149: ancora una volta come in Ossessione, il delitto quale orizzonte dell'adulterio nei confronti di un marito che si è comprato un corpo). Vi è forse troppo "ideologismo" nell'affermare che il postneorealista Antonioni ha deciso di occuparsi dei vincitori (la rampante borghesia nazionale) e non dei vinti (gli umiliati e offesi di un proletariato sempre più umiliato e offeso) e che, nella società dominata da quei vincitori, non può affermarsi Eros perché vi alligna Thanatos?

MARIA ORSINI

Nasce a Ferrara il 29 settembre 1912 da una famiglia della media borghesia. Nell'infanzia si interessa di disegno e di musica: ritrae il padre e la madre, Charlot e Greta Garbo e, a nove anni, tiene il suo primo concerto come violinista. Frequenta il Ginnasio, ma i difficili rapporti con il preside lo spingono dopo tre anni a passare all'Istituto Tecnico. Dopo una prima esperienza avvenuta nella fanciullezza al teatro Novelli di Paullo, un paesino del Ravennate (riproduce il suono di un tuono facendo rotolare una grossa palla di marmo), a diciasette anni entra in una compagnia teatrale, Il Ludovico, che organizza riviste satiriche di beneficenza. Qui, grazie all'animatore della rivista, Angelo Aguiari, suonatore di banjo, attore e regista, sviluppa l'amore per il jazz e la passione per il teatro; quest'ultima lo porterà più tardi, durante gli studi universitari, a fondare una compagnia, con la quale, oltre a rappresentare Ibsen, Cechov e Pirandello, mette in scena una delle commedie da lui scritte: Il vento, di stampo pirandelliano. Il teatro gli offre sia l'opportunità di sperimentare le sue doti di disegnatore, nell'allestimento di alcune scenografie - che definisce «molto simboliche»' -, che quella di scoprire la vocazione e il gusto per la direzione degli attori.
Poco interessato alle materie di Economia e commercio, la facoltà cui si e iscritto a Bologna, Antonioni frequenta anche i corsi di Lettere e si laurea, nel 1935, con una tesi dal titolo I problemi di politica economica ne "I promessi sposi” : Gli anni dopo la laurea lo vedono impegnato in varie attività: inizia a occuparsi di critica cinematografica, curando per alcuni anni una rubrica per il «Corriere Padano»; con un gruppo di amici, tra i quali Lanfranco Caretti e Giorgio Bassani, dà poi vita a un cenacolo letterario. Nel 1939 si appresta a girare un cortometraggio sul manicomio di Ferarra, ma l'impresa fallisce perché l'accendersi dei riflettori provoca il panico negli ospiti del manicomio. A proposito di questo episodio, Antonioni afferma che «fu attorno a quella scena» - mai dimenticata - «che cominciammo a parlare, senza saperlo, di neorealismo».
Nel 1940, dopo aver rifiutato un impiego in banca a Ferrara, si trasferisce a Roma e inizia a lavorare come segretario di Vittorio Cini, nominato presidente dell'Esposizione Universale in programma per il '42. Assunto, poi, nella redazione della rivista «Cinema», viene quasi subito licenziato con un pretesto, a causa delle tensioni con il segretario del direttore, Vittorio Mussolini; in seguito, quando la rivista passa alla direzione di Pasinetti, riprende a collaborarvi e continua con Puccini e De Santis. In questo periodo, per guadagnare, scrive anche sceneggiature, senza firmarle. Nel 1941 frequenta per qualche mese il Centro Sperimentale di Cinematografia ma, richiamato alle armi, è costretto ad interrompere gli studi. Il servizio militare non gli impedisce di lavorare: scrive un soggetto, "La casa sul mare", su una famiglia di pescatori; partecipa alla stesura della sceneggiatura di Un pilota ritorna di Rossellini e, infine, collabora in qualità di sceneggiatore e aiuto regista con Enrico Fulchignoni - suo insegnante al Centro Sperimentale - a I due Foscari. Conosce così l'operatore Ubaldo Arata che, oltre a rivelarsi un prezioso maestro di fotografia, lo raccomanda caldamente a Scalera, il quale, poco dopo, lo ingaggia come co-regista di Carné per Les visiteurs du soir. Carné rifiuta la collaborazione, limitandosi a tollerarne la presenza sul set. La permanenza in Francia gli offre comunque l'opportunità di leggere L’etranger di Camus, appena uscito, che lo folgora, inducendolo a scrivere una recensione su «Il Cosmopolita». Lo scadere della licenza non gli permette di accettare le proposte di collaborazione con Cocteau e Grémillon.
Rientrato in Italia, grazie al sostegno del dirigente sezione documentari dell'Istituto Luce, Minoccheri, nel 1943 Antonioni inizia le riprese di un documentario, Gente del Po. Gli avvenimenti politici conseguenti all'8 settembre del '43, lo costringono a interrompere il montaggio del film, che viene sequestrato dai repubblichini. Per sfuggire alle retate dei tedeschi, si rifugia prima a casa dell'amico Antonio Pie

TONINO GUERRA

Ho detto più volte che Michelangelo Antonioni è sempre a un metro sopra la realtà. E ora che non c'è più e se n'è andato nella luce di uno dei suoi silenzi, nello stesso giorno della scomparsa di un altro maestro, Ingmar Bergman, questa mia frase è ancora più vera. Le immagini che ci ha regalato con le sue storie sono incancellabili, come la lezione di cinema che ha impartito a tanti altri registi. Antonioni è stato un grande inventore di modi di usare la macchina da presa. E poi... come si fa a dire che ha regalato tristezza al mondo? Quando io e lui pensavamo a delle storie lo facevamo sempre giocando. Tutto veniva con allegria. Antonioni è l'unico regista nel dopoguerra che ha pensato di illuminare la borghesia con l'eleganza delle sue attrici. E della borghesia ha raccontato il disagio esistenziale, la malattia dei suoi sentimenti, e l'alienazione come nessun altro. Ho lavorato come sceneggiatore con lui in dodici film. Quali hanno soddisfatto maggiormente il pubblico del mondo? Ne dico due a caso, «L'avventura» e «Blow up». Il perché è difficile da spiegare. Sapere perché la gente si innamora di un film è come indovinare perché un uomo si innamora di una donna, ma certo lui aveva un sapere universale e un occhio che era più in alto dei campanili delle nostre città. Penso anche, in questo momento, al contributo che ha dato al cinema, come l'uso del piano sequenza, il modo di impiegare le luci, gli insegnamenti che ha offerto agli operatori... i suoi insegnamenti sono stati sempre di una eleganza gradevole e piena di sostanza magica. Ricordo i nostri viaggi, come quelli in America per preparare le riprese di «Zabriskie Point». Li ricordo perché il suo modo di incontrare la natura e i luoghi per impostare un film erano sempre molto coraggiosi. Un giorno ci trovavamo in un albergo isolato in un deserto, mangiavamo, eravamo soli in una stanza bassa, quando improvvisamente, per rendergli omaggio, comparve una orchestrina che intonò forse l'unica canzone italiana che conosceva, «'O sole mio». Il saluto a un maestro fatto all'italiana. E ricordo i nostri giorni a Londra per «Blow up», quando Antonioni carpì subito i cambiamenti del costume in una città già piena di fotografi in cerca di successo, mentre esplodeva la moda della minigonna di Mary Quant al ritmo di una musica nuova, quella dei Beatles. Anche in quel caso il suo fu uno sguardo profondo e limpido sul mondo che stava cambiando. Eleganza gradevole e piena di sostanza magica.

Vai alla home di MYmovies.it »
Home | Cinema | Database | Film | Calendario Uscite | Serie TV | Dvd | Stasera in Tv | Box Office | Prossimamente | Trailer | TROVASTREAMING
Copyright© 2000 - 2024 MYmovies.it® - Mo-Net s.r.l. Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione anche parziale. P.IVA: 05056400483
Licenza Siae n. 2792/I/2742 - Credits | Contatti | Normativa sulla privacy | Termini e condizioni d'uso | Accedi | Registrati