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Rassegna stampa di Dino Risi

Dino Risi è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, co-sceneggiatore, assistente alla regia, è nato il 23 dicembre 1916 a Milano (Italia) ed è morto il 7 giugno 2008 all'età di 91 anni a Roma (Italia).

A CURA DELLA REDAZIONE
MYmovies.it

Inizia la sua gavetta cinematografica come assistente di Mario Soldati per Piccolo mondo antico nel 1940 e poi come aiuto di Lattuada in Giacomo l'idealista nel 1942. In quegli anni collabora anche alle sceneggiature dei film Anna di Lattuada (1952), Totò e i re di Roma (1951) di Steno e Monicelli e Gli eroi della domenica di Camerini (1952). Dopo una serie di cortometraggi (il più famoso è Buio in sala) si trasferisce a Roma nel 1952 e realizza il suo primo lungometraggio di finzione: Vacanze col gangster. Nel 1953 realizza Paradiso per tre ore, episodio del film Amore in città (gli altri episodi sono firmati da Antonioni, Fellini e Lattuada), cimentandosi per la prima volta in un genere di cui diventerà specialista per tutto il decennio successivo. La commedia di costume venata di sottile amarezza comincia a delinearsi nel 1955 con Il segno di Venere. Dello stesso anno è anche la realizzazione di Pane, amore e..., terzo capitolo della saga iniziata da Comencini, nel quale recita una meravigliosa Loren e che ottiene un grandissimo successo. Il 1956 è l'anno della svolta decisiva di Risi: con la realizzazione di un film da lui scritto e diretto apre la strada ad un nuovo genere capace di trasformare il neorealismo in commedia all'italiana. Il suo Poveri ma belli racconta le vicende di un gruppo di giovani romani piccolo borghesi alle prese con le prime storie d'amore. Per questo film Risi scopre dei giovani attori sconosciuti come Renato Salvatori, Maurizio Arena e Marisa Allasio. La formula fu replicata nei due seguiti Belle ma povere (1957) e Poveri milionari (1959). Il passaggio dal film "leggero" alla satira avviene con Il vedovo (1959), storia dei tentativi di un piccolo industriale (Alberto Sordi) che per fare fronte ai debiti tenta di uccidere la moglie per intascarne l'eredità. Il sodalizio con Sordi trova la sua migliore espressione con il film Una vita difficile (1961). Negli anni seguenti sotto la sua regia nasce la coppia Gassman-Tognazzi impegnati in una serie di film mirati via via a smascherare i luoghi comuni del popolo italiano (I mostri, In nome del popolo italiano). La collaborazione con Gassman è stata sicuramente la più duratura nella carriera di Risi, con ben quindici film in comune. Da Il mattatore del 1960, a Il sorpasso (1963), da il successo sempre dello stesso anno, a Il tigre (1967), da Il profeta (1968) fino a Profumo di donna (1974), film che ottiene due nomination all'Oscar. Gli ultimi film girati con Gassman sono I nuovi mostri (1977), Caro papà (1979) e Tolgo il disturbo (1990). Negli anni Sessanta Risi si specializza nei film a episodi , dirigendo i più grandi attori italiani (Manfredi, Vitti) e raccontando sempre piccole storie della vita italiana. Nel 1970 realizza La moglie del prete interpretato da Sophia Loren e Marcello Mastroianni e nel 1973 Sessomatto con Giancarlo Giannini e Laura Antonelli. Il cinema ed il fascismo sono i temi centrali di Telefoni bianchi(1975). L'anno successivo realizza un thriller psicologico Anima persa, tratto da un romanzo di Gianni Arpino e nel 1977 La stanza del vescovo da un libro di Piero Chiara. Del 1978 è il film Primo amore con Ugo Tognazzi, storia di un amore irraggiungibile. Nel 1993 il Festival di Cannes gli dedica una retrospettiva delle sue quindici opere più significative.

Courtesy of RAI International

GIAN LUIGI RONDI
Il Tempo

Dopo un esperimento di film a basso costo, Poveri ma belli, raccontato per altro con innegabile disinvoltura, Dino Risi si raccomandò all'attenzione della critica per Il vedovo, un film in cui gli riuscì di fondere con un certo vigore l'umorismo nero anglosassone ai temi più scopertamente farseschi della commedia italiana. Incominciò però a farsi considerare con più attento rispetto dopo Una vita difficile che, tracciandoci il ritratto psicologico di un italiano a cavallo tra guerra e dopoguerra, arrivava a precisarci tutti i termini polemici della nostra epoca con deciso rilievo, mostrandosi scarsamente incline a trasformare le occasioni comiche che il racconto gli proponeva in facile motivo di riso, ma riconducendole sempre a un loro preciso significato narrativo.

MAURIZIO CABONA
Il Giornale

Il ricordo del grande regista scomparso all'età di 91 anni. Era il padre della "commedia all'italiana". Nel suo appartamento teneva una grande foto di Alida Valli, antico amore. Diceva a Monicelli: "Non ti offenderò, morirò io per primo".
Per star vicino a Dino Risi, occorreva stargli lontano. Solitario che soffriva di solitudine, esigeva da me affetto, salvo stupirsene. Dopo decenni trascorsi fra gente che recita sempre, Risi era sospettoso, fino a chiedermi brusco: «Ma che cosa ti aspetti?». Temeva che avessi una sceneggiatura nel cassetto. Toltosi il dubbio che non ne avevo, Risi finì col gradire senza interrogativi che ascoltassi le sue descrizioni al vetriolo. E ne proponessi di mie.

PASQUALE COLIZZI
L'Unità

Galeotto fu Buio in sala, corto del '48 su un povero rappresentante di commercio, grigio e depresso, che entra in un cinema, si ricrea con un bel film ed “esce a testa alta”. Costato 200 mila lire, Carlo Ponti lo acquistò per 2 milioni (ai tempi era obbligatorio proiettare corti in testa ai film), tanto da convincere un 32enne milanese (classe 1916) a lasciare la sua professione di psichiatra – aveva lavorato per sei mesi al manicomio di Voghera – per dedicarsi definitivamente al cinema.
Era conquistato alla causa del nostro cinema Dino Risi, uno dei padri della “commedia all'italiana” con titoli epocali, dal Sorpasso a Poveri ma belli, Pane, amore e , I mostri, Profumo di donna, scomparso sabato a 91 anni nel residence romano in cui viveva da solo da molti anni. Una scelta precisa, di indipendenza e velata di leggera amarezza, come aveva spiegato più volte, perché considerava la vecchiaia una brutta bestia, “orrenda”.
Presto orfano – il padre era stato medico alla Scala, la madre appassionata d'arte, lui era cresciuto girovagando tra gli zii – Dino Risi aveva lavorato come assistente di Mario Soldati e Alberto Lattuada e come sceneggiatore. Ai tempi in cui Ponti e De Laurentis erano soci, Anna Magnani gli chiese di scriverle un ruolo da suora in un ospedale (sapeva della sia laurea) ma alla fine De Laurentis decise di dare il ruolo alla sua donna, Silvana Mangano. Anna di Lattuada nel '51 fu un successo clamoroso, tanto da dare al Risi sceneggiatore la possibilità, dopo tanti corti, di provare dietro alla macchina da presa: Vacanze col gangster, con un giovanissimo Terence Hill, è il suo debutto.

CLAUDIA MORGOGLIONE
La Repubblica

Con Mario Monicelli, Nanni Loy, Ettore Scola, Luigi Comencini, è stato uno dei grandi maestri della commedia all'italiana. E oggi il nostro cinema piange la morte di Dino Risi, che si è spento questa mattina nel residence Aldovrandi della capitale, in cui risiedeva da tempo. Aveva 91 anni. Se ne va così un grande vecchio della settima arte: protagonista di una stagione irripetibile, che vanta - specie negli ultimi anni - numerosi, ma mai del tutto riusciti, tentativi di imitazione. Una formula capace di piacere sia ai critici che al pubblico, con la sua abilità nel coniugare divertimento e affresco sociale.
Insomma, una sorta di Billy Wilder ma made in Italy, come dimostrano i suoi capolavori: dal Sorpasso ai Mostri. Eppure, il milanesissimo Risi - nasce il 23 dicembre 1916, nel capoluogo lombardo - al cinema non ci arriva proprio da ragazzino. Prima, infatti, studia e consegue una laurea in Medicina. I genitori immaginano per lui una carriera in psichiatria, ma il giovane Dino ha altri progetti. E si butta a capofitto nel mondo della celluloide. I primi lavori degni di nota arrivano al servizio di altri registi: ad esempio, come aiuto di Mario Soldati, in Piccolo mondo antico (1940), o di Alberto Lattuada, in Giacomo l'idealista (1943). Nel 1948, il suo debutto dietro la macchina da presa, col cortometraggio I Barboni, ambientato tra i poveri della sua città d'origine.

MICAELA URBANO
Il Messaggero

Prende talmente sul serio la vita che non fa altro che sfotterla. Anche adesso che ha il cuore rammendato. Non per via di un amore o di un dolore: «Si era fermato all'improvviso e senza preavviso, come una sveglia scarica. Dopo l'intervento, però, i medici mi hanno detto che è tornato nuovo. Ho dimenticato di chiedere se intendevano che posso fare l'amore, ballare, giocare a tennis, nuotare... ».
Di Dino Risi è stato detto di tutto e di più. Persino lui si è raccontato in I miei mostri (vincitore del Premio Fregene e alla seconda ristampa nel giro di quattro mesi). «Le memorie di un uomo disordinato», dice del libro. Mentre si tratta di frammenti messi apposta in “ordine” sparso, sia cronologicamente che sentimentalmente.
Esattamente come è lui. Un ragazzo di 88 anni che guarda il mondo come fosse un eterno, quotidiano set (immenso no: qualsiasi scena non oltrepassa mai i confini dello sguardo e delle sensazioni). E lo fa con il distacco proprio dei registi. Tuffandocisi dentro, proprio come i registi. Dei suoi film, quello che gli piace di più è Una vita difficile, «ma è il grande successo della mia carriera è Il sorpasso. Forse perché è il film dell'automobile nel Paese dell'automobile, negli anni dell'automobile. Pur di comprarne una gli italiani avrebbero venduto l'anima e, in attesa di qualche acquirente, firmavano chili di cambiali. E poi anche perché è un film sull'amicizia tra il rappresentante dei cialtroni e quello delle persone perbene. In quale rientro io? In quello della Legione straniera. In fondo sono un milanese che vive a Roma. Un medico che fa il regista, un quasi psichiatra che ha abbondanto la disperazione dei manicomi per un manicomio con riflettori, attori e belle donne».

MARCO GIUSTI
Il Manifesto

Alla fine anche Dino Risi ci ha lasciato. Con grande eleganza. Come sempre. «La morte quasi sempre arriva nel momento sbagliato», sosteneva. Da tempo si era fatto una serie di film sulla sua morte. «In verità pensavo di morire nel 2000», mi disse due anni fa per festeggiare i 90 anni. Aveva anche detto che gli sarebbe piaciuto morire a Waterloo solo per veder scritto sulla sua lapide «Dino Risi, nato a Milano, morto a Waterloo». Avrebbe fatto un certo effetto.
C'era pure stato a Waterloo, assieme al suo sceneggiatore e amico Bernardino Zapponi, in Belgio. «Era un posto bruttissimo». La sua vera Waterloo fu la scomparsa di tutti gli amici in questi ultimi anni. Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni, Bernardino Zapponi e Vittorio Gassman, che per lui era come un fratello. «Sogno spesso Vittorio Gassman. Spesso. La cosa strana è che è antipatico come era quando lo incontraii i primi anni. Poi fra noi ci fu una grande amicizia». È con Gassman che Risi dividerà il successo di I mostri, Il sorpasso, Il tigre, Profumo di donna. Già vederlo malato gli aveva creato una depressione. Fecero non molti anni fa uno spot per una banca toscana. Gassman, uno che riusciva a memorizzare qualsiasi testo in pochi minuti, aveva bisogno del gobbo. Non riusciva a fermare le parole. La morte di Gassman gettò Risi in uno sconforto profondo. Come se fosse finito tutto un periodo del loro cinema. Poi, in qualche modo, si riprese. Raccontando, parlando, scrivendo, ricordando. Dino Risi, al cinema come nella vita, raccontava storie incredibili. Vere. False.Spesso mettendo un personaggio al posto di un altro. Confondendo i morti e i vivi, i giovani e i vecchi come se facessero parte di un unico flusso di umanità. Giocando sulle debolezze dei suoi personaggi con continuo divertimento. Non era cinico come di solito si dice. Il cinismo di Risi era uno sguardo attento e umano sul mondo. Nessuno ha capito e dipinto i difetti e i caratteri degli italiani come lui. Grazie anche ai suoi attori meravigliosi, dal Gassman del Sorpasso al Sordi di Una vita difficile, ai suoi sceneggiatori, come Age e Scarpelli, Maccari e Scola o più tardi Zapponi.

SILVANA SILVESTRI
Il Manifesto

Perché un medico, figlio di medici, un futuro psichiatra decide di mettersi a fare il cinema? «Tanto, diceva Dino Risi, nessuno guarisce». Con lo stesso senso di distacco ha vissuto e realizzato i suoi film, che avevano uno straordinario successo, specchio irridente di una società che si trasformava, e lui non mancava di sottolineare la miseria culturale, la pochezza, l'ineleganza del popolino. La cattiveria con cui colpisce via via il popolo, il piccolo borghese e poi gli arrampicatori e gli arricchiti è diventata emblematica, un tratto del suo carattere. Ognuno dei titoli della sua lunga filmografia desta esclamazioni di meraviglia, perfetti esempi di commedia all'italiana. Nato a Milano nel 1916, è morto a Roma a 91 anni, dopo aver vissuto negli ultimi trenta in albergo. Non parte in guerra come gli allievi ufficiali del suo corso perché si ammala gravemente, si rifugia in Svizzera e segue alcune lezioni di Jacques Feyder, collabora poi con Mario Soldati e Alberto Lattuada, diventa critico cinematografico, gira numerosi documentari e cortometraggi tra cui Barboni ('48) documentario sulla disoccupazione a Milano e Buio in sala venduto a Ponti per due milioni, fatto che lo porta a trasferirsi a Roma. Nel '51 anno firma il primo lungometraggio In vacanza con il gangster. Tra i suoi primi film Il segno di Venere ('55), scritto da Franca Valeri, segna il passaggio da Milano a Roma. Il successo arriva con Pane, amore e...dello stesso anno, che continua la serie firmata da Comencini e nel '59 avviene il folgorante incontro con Gassman (Il mattatore). Continua la commedia con Poveri ma belli, Belle ma povere e Poveri milionari e un minore ma folgorante Venezia la luna e tu dove incredibili gondolieri sono Sordi e Nino Manfredi che riportano in realtà la Venezia del cinema di Salò non ancora dimenticato su un terreno più accettabile. A ognuno dei nostri «mostri sacri» Risi ha dedicato indelebilmente un film o più: così è per Vittorio Gassman (Il sorpasso), Manfredi protagonista di Operazione San Gennaro ('66) e Straziami ma di baci saziami ('68), Walter Chiari e Il giovedì, Alberto Sordi e Il vedovo ma anche il drammatico Una vita difficile, Ugo Tognazzi e I mostri, Mastroianni e Loren in La moglie del prete. Con lui hanno lavorato anche Coluche (Dagobert), Pozzetto (Io sono fotogenico), Beppe Grillo (Scemo di guerra), Monica Vitti (Teresa). Nel 2002 il festival di Cannes gli ha reso omaggio con una retrospettiva dei suoi film e la mostra di Venezia lo ha premiato con il Leone d'oro alla carriera. Nel 2004 ha pubblicato I miei mostri (Mondadori), autobiografia ironica e amarissima, intelligente e appassionata. Domani mattina, alla Casa del cinema, una cerimonia laica ricorderà il regista.

ROBERTA RONCONI
Liberazione

Se ci sta vedendo da qualche parte dell'universo, starà sicuramente sghignazzando di fronte alla valanga di elogi e ricordi sublimi che nessuno di noi potrà fare a meno di snocciolare nel ricordarlo. Perché Dino Risi era un finto cinico che di fronte alle celebrazioni sperava sempre che «fra tanti esaltatori qualcuno parli male di me. Altrimenti ci penserò io, tanto sono abituato». Dall'altra, caro Risi, almeno adesso senza ribattere dovrai accettare il titolo di maestro («per caso», come aggiungevi sempre) del miglior cinema italiano, quello della sua commedia datata anni Sessanta dove alla capacità di osservare il reale si aggiungeva sempre una certa lungimiranza, una incredibile arguzia e una inesauribile fantasia. Tu le avevi tutte in abbondanza.
Risi nasce puro milanese nel 1917 e da ragazzo vuol fare il medico, anzi, lo psichiatra. Ma alla vigilia della guerra incontra un gruppo di coetanei (Lattuada, Soldati) che lo trascinano da un'altra parte, verso quell'arte allora così vitale del cinema. Inizia ad occuparsene dal versante della critica, poi si avvicina al set con Piccolo Mondo antico di Soldati, quindi - finita la guerra - segue un corso in Svizzera di regia con Feyder.

LIETTA TORNABUONI
La Stampa

Quasi tutte le sue attrici se ne innamoravano: Dino Risi, che se n'è andato a 91 anni, era bello (alto, elegante, bei lineamenti, bella bocca, bei ricci ora bianchi) e metteva in soggezione. Era serio, un po' esotico (milanese), figlio del medico della Scala, a sua volta medico specializzato in Psichiatria (quindi con l'atteggiamento sarcastico e protettivo di chi capisce tutto).
Colto, amico del mondo intellettuale e artistico antifascista. Assistente di Alberto Lattuada e di Mario Soldati, innamorato di Alida Valli con disperazione di Soldati che adorava l'attrice di Piccolo mondo antico, fuggito da Milano per non fare il soldato coi fascisti, arrivato in Svizzera dove aveva incontrato una ragazza svizzero-tedesca, futura moglie e madre dei suoi figli Claudio e Marco, registi pure loro. Tutte o quasi se ne innamoravano, nonostante i suoi modi spicci, a volte aspri, comunque poco teneri: persino quando alla Mostra di Venezia nel 2002 gli dettero il Leone d'Oro alla carriera, qualcuno lo sentì borbottare: «Ma vaffa...».

FABIO FERZETTI
Il Messaggero

Come molti dei nostri più grandi registi, Dino Risi arrivò al cinema quasi per caso. «Volevo fare il medico, il giornalista o il pittore», raccontava. Invece un giorno incontrò l'amico Alberto Lattuada da un antiquario a Milano e si trovò a fare l'aiuto, poi il regista di corti e documentari, infine il regista vero e proprio. Sempre "per caso" girò 53 film, almeno una dozzina dei quali destinati a restare. E sempre senza inseguire lo stile, la profondità o il capolavoro, come possono permettersi solo i grandi narratori, finì per dar forma a una delle "commedie umane" più originali e penetranti del nostro secondo Novecento.
Sono i registi come Dino Risi ad aver fatto nascere il detto secondo cui il cinema raccontò l'Italia della ricostruzione e del boom meglio della letteratura. È attraverso i suoi film così diversi e così misteriosamente coerenti che Risi è riuscito a parlare sempre degli altri di tutti noi lasciando intendere molto di sé. L'uomo amava sfuggire, negarsi, spiazzare. Il regista usava il cinema come un mezzo, una professione, un'occasione per vivere meglio e più intensamente. Praticando il mestiere con quella sicurezza e insieme quella sprezzatura che potevano produrre risultati memorabili come anche film da dimenticare.

MAURIZIO CABONA
Il Giornale

Eventi ordinari fanno straordinarie certe vite. La svolta per Dino Risi – morto ieri a Roma- è del 1940. Non fu l'entrata in guerra: fu l'entrata in un negozio di piazza San Babila a Milano. Passò per caso di lì anche il ventiquattrenne, Alberto Lattuada, che Risi conosceva. Lattuada stava per partecipare a un film sul lago di Lugano, lato italiano (Porlezza), Piccolo mondo antico, come aiuto di Mario Soldati. Oltre all'aiuto, serviva però un assistente alla regia, ultimo scalino nelle gerarchia del set. Risì s'offrì, Lattuada lo propose, Soldati l'accettò: mal ne incolse a quest'ultimo, non perché Risi fosse indegno delle esigue mansioni, ma perché la protagonista, Alida Valli, preferì le braccia dell'assistente a quelle del regista. Per lei fu un'infatuazione, per lui un amore: fra gli oggetti lasciati da Risi nel residence dove ha vissuto gli ultimi vent'anni, c'è il ritratto d'Alida allora. Il cuore spezzato dovette rimarginarsi alla svelta. C'era la guerra e Risi rischiò di finire in Russia. Non ci andò solo perché, figlio di un medico (quello di Mussolini direttore del Il popolo d'Italia), sapeva come ammalarsi, se era il caso. Poi ci fu la fuga in Svizzera fra il 1943 e il 1945, l'incontro nel Bernese con la futura moglie, il ritorno a Milano, il trasferimento a Roma senza troppi rimpianti, anche perché il successo –almeno quello inteso come esser pagato per fare ciò che si farebbe gratis –non tardò. E poi c'erano le donne. Non tutte le attrici si concedono ai registi. Ma quelle che lo fanno compensano la delusione per le altre. Risi non era uno di quelli - lista lunga e densa di nomi mitici – da «compromessi». Ma si sentiva lusingato se poteva strappare le prede all'amico Vittorio Gassman. Risi ha amato anche star che non avevano mai lavorato con lui. Nell'autobiografico I miei mostri (Mondadori), raccontò che Anita Ekberg lo aveva cacciato dal letto perché gelosa di... Gianni Agnelli che la tradiva con un'attrice francese. Chi vive male, si consola all' idea della vecchiaia e della morte: da vecchi, per non dire da morti, si è tutti uguali. È il socialismo biologico, più ineluttabile di quello economico. Risi però aveva vissuto bene, perciò invecchiare lo turbava. Si leggano i suoi aforismi di Vorrei una ragazza (Asefi), condensato d'amara allegria, con un ultimo desiderio in evidenza fin dal titolo: avere una ragazza che girasse nuda per casa. «Perché - Nei nostri brevi ma decennali dialoghi, mi disse più di una volta: «il desiderio non finisce, finisce solo il modo di appagarlo». Una ragazza nuda per casa era difficile da avere e, soprattutto, si sarebbe rivelata di poca compagnia. Lo sapeva Risi per primo. Allora meglio molte ragazze quasi nude in giro per un albergo! Così una carriera da regista, cominciata nel dopoguerra, mentre il concorso di Miss Italia imponeva le nuove leve dello schermo, s'è chiusa con un film-tv proprio sul concorso di Miss Italia, che gli offrì un ulteriore scampolo d'inebrianti adiacenze nella Salsomaggiore dell'estate 1999. Non fu un successo. A imporne alla Rai la diffusione, dopo una lunga controversia legale con l'organizzatore del concorso e più lunghi tagli, sarebbe stato solo il Leone d'oro alla carriera, riconoscimento tardivo della Mostra di Venezia per un regista che non la frequentava, mentre spesso era stato al Festival di Cannes. Qui Profumo di donna aveva avuto il premio per l'interpretazione a Vittorio Gassman. Sempre Profumo di donna sarebbe valso a Risi la nomination all'Oscar per il miglior film non americano; e da lì sarebbe derivato il rifacimento di Martin Brest, Scent of a Woman, con tanto di Oscar come protagonista ad Al Pacino. L'altra nomination di Risi sarebbe stata per la sceneggiatura dei Nuovi mostri, scritto e diretto con Monicelli e Scola. E la critica? Quella che ha seguito la carriera di Risi per mezzo secolo è finita al macero. Restano i dizionari dei film: Il Mereghetti 2006 (Baldini & Castoldi) per lo più lo stronca. I nuovi mostri? «Lo sguardo rimane quasi sempre in superficie, le situazioni appaiono gratuite e paradossali, incredibili, il cinismo tocca punte eccessive». Fantasma d'amore? «Artificioso e contorto». Sesso e volentieri? «Meno che grossolano: solamente pietoso». Dagobert? «Inutilmente volgare». Scemo di guerra? «Finale poco incisivo ed evidenti squilibri». Teresa? «Dino Risi e Bernardino Zapponi (co-sceneggiatore) una volta rappresentavano qualcosa nel cinema italiano». Direte: stroncati perché film del declino. Allora ecco i giudizi dello stesso dizionario sui film del Risi degli albori. Poveri ma belli? «Proletario nell'estrazione ma piccolo borghese nello spirito». Belle ma povere? «La storia procede per tirate moralistiche e in maniera slegata e meccanica». La nonna Sabella? «Bozzettismo strapaesano ».Venezia, la luna e tu? «Commedia turistica, sceneggiatura inesistente». Poveri milionari? «Farsa anonima». Il Leone alla carriera, se non entusiasmò Risi, ridusse l'attendibilità di questi (pre) giudizi. A voler classificare la sua carriera, sono classici non solo Una vita difficile, Il sorpasso e I mostri, ma anche Il giovedì, L'ombrellone, Operazione San Gennaro, Straziami ma di baci saziami, In nome del popolo italiano, Profumo di donna e Anima persa. Poi vengono Il vedovo, Il mattatore, Il gaucho, Vedo nudo, La moglie del prete, La stanza del vescovo, Primo amore. Quali altri registi italiani si sono tenuti così a lungo così in alto? Non Rossellini; non Fellini; non Antonioni; non Pasolini, non Bertolucci, non Zeffirelli, non Pietrangeli, non Zurlini. Certo, capaci di exploit superiori al miglior Risi, ma di solito inferiori e spesso velleitari, fin dalle intenzioni. Sono stati genio e sregolatezza. Risi è stato genio e regolatezza.

VALERIO CAPRARA
Il Mattino

Non è possibile dedicare a Dino Risi - spentosi quietamente ieri mattina sul divano del suo residence - qualche frase di funebre circostanza. È certo, invece, che il burbero maestro, l'uomo elegante e affascinante, il nemico giurato di ogni retorica, l'innamorato pazzo di una vita assaporata nei suoi risvolti più carnali, luminosi, paradossali mancherà terribilmente al cinema italiano che si è nutrito, spesso senza riconoscerlo, del suo talento anticonformista e della sua statura miracolosamente distaccata e fervida nello stesso tempo umano e artistico. «È già storia»: con quest'uscita, come al solito insieme affettuosa e sarcastica, Dino Risi comunicava in genere agli amici seduti al suo fianco l'intenzione di andare a dormire. Purtroppo è quello che oggi siamo costretti a ripetere, con l'amicizia profonda cresciuta negli anni di reciproca confidenza. Peraltro la «storia» riguarda, ovviamente, l'intera comunità del cinema italiano e internazionale che si appresta in queste ore a condividere un cordoglio e un rimpianto tutt'altro che cerimoniali: Dino Risi, come ha dimostrato fino alla sua ultima apparizione pubblica, non è stato come amava definirsi un «maestro per caso», bensì uno dei giganti che hanno costruito la leggenda del cinema italiano e sulle cui spalle dovremo cercare idealmente d'arrampicarci per continuare a coltivare la speranza di un suo rinnovato prestigio artistico e professionale. Le doti specifiche del regista, cioè quelle del creatore d'immagini e del raccontatore di storie, come non troppo spesso accade hanno, in effetti, coinciso con quelle dell'uomo.

ALBERTO CRESPI
L'Unità

La prima cosa che ci viene da dire, su Dino Risi, è che era un uomo bellissimo. Alto, magro, elegante, con quella chioma di capelli che ultimamente erano candidi e avevano cominciato a brizzolarsi molto presto. Ogni tanto lo scambiavano per l'avvocato Agnelli. Lui, che aveva la stessa «erre» moscia, non deludeva mai nessuno: «Mi chiedono come vanno le azioni Fiat. Comprate, comprate, rispondo sempre». La «erre» rendeva strepitosi certi suoi racconti. Come le serate teatrali a casa di Vittorio Gassman, che nella villa all'Aventino si era fatto costruire un piccolo teatro con le poltrone rosse. «Dopo cena Vittorio recitava, facendo tutti i personaggi, l'Adelchi di Manzoni o l'Oreste di Alfieri». Pausa. Molto sapiente. Poi, la chiosa: «Una rottura di coglioni...», e vi lasciamo immaginare cosa diventava, detta da lui, la parola «rottura». Dino Risi è stato un immenso umorista e un acutissimo osservatore del mondo. Aveva un occhio cinico e clinico per l'umanità, da ex medico che, parole sue, stanco di curare gente che non guariva si era dato al cinema (è la frase sulla copertina del suo bellissimo libro I miei mostri, edito da Mondadori nel 2004). Era inguaribilmente curioso del prossimo: «intervistare» le persone, famose e comuni, era il suo modo di costruirsi un archivio di storie e di battute. Ma il primo animale/uomo al quale applicava questa tecnica era se stesso. Nessun altro avrebbe potuto raccontare così la separazione dalla moglie: «Le dissi: mi sembra che non ci prendiamo più tanto, meglio che ci lasciamo. Rispose: ti preparo le valigie». Quel giorno andò a sistemarsi nel residence Aldrovandi di Roma, ai Parioli, pensando di rimanerci una settimana: ci è vissuto per trent'anni. Nel libro citato, scriveva: «Il 23 dicembre 2003 ho compiuto 87 anni. Pensavo che non avrei superato l'anno 2000. Ho dovuto rifare i conti. Tutti i miei amici se ne sono andati. Tutti più giovani di me. L'essere ancora vivo mi chiedo se sia un premio, o un castigo. Ho fatto un esame di coscienza. Non sono orgoglioso di me. Sono stato stupido, infedele, bugiardo, vile, ipocrita, fatuo, furbo, vanesio, indecente, annoiato, triste, invidioso, disperato. Ma anche buono, generoso, innamorato, fedele, allegro, sognatore, dubbioso, timido, ingenuo, ignorante, educato, rispettoso, onesto. Ho amato molto la natura, il mare, le donne, il cinema, il teatro, i viaggi, i libri, la musica, il vino, le fragole con la panna, gli spaghetti alla puttanesca, la cioccolata, le paste di mandorla». Il 2000 era un suo tormentone. Diceva sempre di avere «sforato» e di non veder l'ora di andarsene. Più che spaventato dalla morte, si dichiarava incuriosito: «Mi aspetto delle sorprese, pur essendo laico dalla nascita». Sulla propria lapide avrebbe voluto veder scritto «Nato a Milano, morto a Waterloo», perché era molto affascinato da quella battaglia e dal modo in cui la racconta Stendhal nella Certosa di Panna. Ma non gli dispiaceva nemmeno la frase alla quale aveva pensato, per la propria tomba, Walter Chiari: «Non preoccupatevi, è solo sonno arretrato».

NATALIA ASPESI
La Repubblica

Non sono poi molto lontani gli italiani di oggi da quell'Italia 1956 povera ma bella, inventata da Dino Risi: povera, bella, ma anche casta, fresca, parrocchiale, senza riferimenti che non fossero la propria giovinezza, il proprio quartiere, il proprio vicino, un futuro senza ambizioni di trionfi o lussi inattesi, modesto come il loro presente.
Forse se l'era inventato il regista quarantenne, quell'angolo di Roma e la sua piccola storia che trascinava finalmente il neorealismo miserabilista nel rosa più rosa che il pubblico soprattutto femminile attendeva. Forse le schermaglie amorose proletarie e piccolo borghesi erano davvero così leggere e capricciose, di sicuro le poche bellissime d'epoca, rappresentate dalla fulgida Marisa Allasio, avevano come i suoi personaggi il seno a punta ben imbustato e asessuato, e tenevano come massimo tesoro la loro verginità. I giovanotti magari erano in generale più sicuri di sé, erano loro a scegliere e a sedurre, e non il contrario, come quei bei ragazzi che erano allora Renato Salvatori e Maurizio Arena. Ma anche quello fu un gioco intelligente di Risi, che aveva intuito come le ragazze cominciassero a stancarsi della sudditanza sentimentale e sessuale. Nel cinema italiano degli anni 50 e 60 c'era di tutto, una moltitudine di attori magnifici, di grandi registi, un'inesauribile attenzione alla realtà che andava dalla famosa commedia all'italiana, al cinema politico, a quello intellettuale. Ce n'era per tutti, e gli italiani si schieravano. Anche Risi si era schierato, dichiarando che aveva orrore delle storie complicate, della puzza sotto il naso di chi riteneva interessanti solo i film che nessuno capiva. Di Antonioni disse una cosa cattivissima: «Ha inventato l'incomunicabilità perché non sapeva scrivere i dialoghi cinematografici, che è una delle cose più difficili del mondo». Proprio perché Poveri ma belli, costato solo 62 milioni di lire, era stato un enorme successo di pubblico i critici scuotevano le loro teste pensose. Ma bisogna anche dire che il nostro cinema era così ricco di meraviglie che quasi non c'era tempo di riflettere su questo fiorire di commedie. Forse anche perché, ancora traumatizzati dal dopoguerra, ridere e divertirsi pareva un gesto impolitico. A disposizione c'erano attori formidabili: dai film di Risi passarono tutti i più grandi, soprattutto del tipo ormai del tutto scomparso, capaci di far ridere ma anche riflettere, interpretando i difetti, i vizi, le paure, le vigliaccherie dell'italiano medio, da Gassrnan a Tognazzi, da Sordi e De Sica a Manfredi. Per Poveri ma belli il regista gli attori se li era inventati, giovani e senza pretese, e il film pareva fatto apposta per adattarsi, con i suoi amori scherzosi e pudichi, nessuna inquietudine sociale e neppur un accenno agli eventi politici, a un'Italia democristiana, dove le gerarchie avevano ripreso il loro posto e la politica intendeva andarsene per conto suo, mentre il "popolo" aveva tutto l'agio di divertirsi al cinema, pensando alla sacralità della famiglia e non facendosi cattive e pericolose idee.

GIAN LUIGI RONDI
Il Tempo

Quando nel 2005, quasi alla vigilia del suo novantesimo compleanno, gli ottenni il David di Donatello alla carriera, mi disse subito: "Raccornanda, a chi me lo consegnerà, di non definirmi uno dei padri della commedia all'italiana. Mi sono cimentato anche in quella, e non lo rinnego, nella mia vita, però, penso di aver fatto anche dell'altro". Difatti. Al suo esordio, nel '52, con "Vacanze col gangster", si era nel clima che già cominciava a dilagare proprio della cosiddetta commedia all'italiana e quel film vi si poteva ricondurre, ma i ricordi più seri del Neorealismo cui ancora molti pensavano pur cominciando a trascurarlo, mi sembrò subito che si potessero riconoscere in quel breve episodio su delle servette e dei militari in sala da ballo che spiccava con toni decisi, l'anno dopo, in "Amore in città", non a caso da un'idea di Zavattini. Pur accogliendo, di lì a poco, proprio gli schemi e gli accenti della commedia italiana nella fortunata trilogia composta da "Pane, amore e..." (seguito, con Sophia Loren, dei due successi dal titolo quasi eguale costruiti da Luigi Comencini attorno a Gina Lollobrigida), dal "Segno di Venere" e, soprattutto, da "Poveri ma belli", il suo primo, felicissimo successo popolare in cui, però, nella festosità dell'insieme, si cominciavano a intuire note, se non proprio scettiche, certo piuttosto amare. Quasi a voler segnare, nel genere, una svolta decisa.

FRANCESCO BOLZONI
Avvenire

Lo chiamavano il regista della «commedia all'italiana». Alcuni tra i migliori esempi di quella tendenza che rese popolare il nostro cinema portano la sua firma. Ma Dino Risi (morto ieri mattina a Roma, a 91 anni, nel residence in cui viveva ormai da anni, domani la camera ardente alla Casa dei Cinema di Roma a Villa Borghese dove si terrà una cerimonia laica) sapeva fare anche dell'altro: i documentari realistici dell'inizio (da Barboni a Buio in sala), le storie giovanili tinte di rosa (la serie, fortunatissima, di Poveri ma belli); il film drammatico come il malinconico Il giovedì su un padre rimasto bambino e suo figlio; il racconto impaginato alla maniera dei fumetti; Straziami ma di baci saziami con tanto di muto che, ritrovata la parola, si chiude in convento dove vige la regola del silenzio; e i racconti gotici come Anima persa. Non tutti i suoi film sono memorabili. Ce ne sono però di ottimi, passaggi obbligati nell'avventura del nostro cinema: Una vita difficile, La marcia su Roma, Il sorpasso, I mostri, Profumo di donna. Quanto basta a far la fortuna di un cineasta.

EMANUELA MARTINI
Il Sole-24 Ore

Intervistato sul significato e sugli spunti di quel vario contenitore che si chiamò "commedia all’italiana", Dino Risi la definì "una fusione di dolceamaro, un genere di film divertenti che allo stesso tempo dicevano qualcosa su un particolare momento della società italiana... Erano tutti film di critica sociale e di costume, ma non li abbiamo fatti con la consapevolezza, con la premeditazione, con l’idea di lanciare il famoso messaggio: anzi, direi che una delle qualità della commedia all’italiana era proprio quella di scartare il messaggio premeditato, che era invece la grande preoccupazione di autori più nobili... e più noiosi". Da quell’intervista sono passati quasi vent'anni; allora Dino Risi era ancora in piena attività e tentava, come gli altri artefici di quello che era stato il nostro genere più glorioso, di rivitalizzarlo percorrendo nuove strade e usando i volti di nuove generazioni: si cimentava con una sorta di gotico lacustre o padano (La stanza del vescovo, 1977, Fantasma d’amore, 1981) o arrischiava con Pozzetto alla conquista di Cinecittà (Sono fotogenico, 1980) o con Beppe Grillo alla guerra di Libia Scemo di guerra, 1985). Ma, da uomo di cultura e di cinema, Risi sapeva che gli anni d’oro della commedia erano definitivamente tramontati. Nella stessa intervista aggiungeva: "La negatività è forse consistita nel copiarsi vicendevolmente, nel non sviluppare idee nuove, o più semplicemente in una certa ripetitività dovuta anche a quel gruppetto di attori che ne erano gli interpreti, e che ha portato il fenomeno a "stancarsi"". La commedia all’italiana in pratica, con le sue diramazioni, i suoi filoni, le sue filiazioni affrettate e scollacciate, mangiò se stessa, come quasi sempre accade ai generi cinematografici di grande successo; si consumò nell’abuso, nella stanchezza delle idee, nell’incapacità di agganciare con corrosiva puntualità la realtà che stava cambiando. I tempi, i ritmi, probabilmente gli ideali, non erano più quelli. Ma tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, la commedia fu davvero lo specchio del nostro mondo, dall’eccitazione del boom all’immoralità della politica, dalla vigliaccheria roboante e maldestra dei nuovi ricchi al malinconico pugno di mosche con cui spesso vengono abbandonati nel finale.

EMANUELA AUDISIO
Il Venerdì di Repubblica

Il regista di tante commedie amare ha una passione per i guantoni. Perché il pugile è l'uomo offeso. Perché è uno sport nobile e mascalzone che può salvare dalla fame. Dino Risi lo sa: gli uomini sono deboli, ingiusti, veri. Fanno errori e sbagliano virtù. Perdere è un modo di apprendere. Per questo ama boxe e ciclismo. Due sport nobili e mascalzoni che spacciano vite e sono serviti all'Italia per rialzarsi dalla miseria. E per gridare al sorpasso. Come scrive James Ellroy: «La boxe è un mondo di grande fatica e dolore, è selvaggia e melanconica». Risi legge racconti di pugilato, guarda gli incontri, commenta. È curioso, intelligente, sentimentale. A fine dicembre avrà 92 anni, i suoi ring hanno memoria. «È stato mio zio Felice a farmi innamorare della boxe. Vivevamo a Milano. Avevo dieci anni e mi portò con lui: la sala, il ring illuminato, due che si picchiavano. Tutto era perfetto.
Avevo zii strani, mia madre era l'ultima di cinque fratelli. Felice era un anarchico, aveva combattuto in Grecia per la rivoluzione, Antonio era avvocato e inventore, un bel tipo, scoprì una lozione per far ricrescere i capelli, la provò su una vecchia zia, che rimase calva. Cesare era architetto, Guido. molto silenzioso, era tornato dal Sudamerica con una scimmia che scappò nei mercati di Milano».

BARBARA PALOMBELLI

«La politica è un mostro che ti divora, il potere è una cosa orrenda: non invidio chi ha le guardie del corpo, penso sia un vero incubo essere sempre seguiti e spiati. I politici sono tutti grandi attori. Sul palcoscenico della storia sono arrivati soltanto personaggi in grado di incantare il pubblico, i popoli, le donne. Da Napoleone a Hitler, i loro atteggiamenti, le parole, le smorfie, perfino i loro tic sono diventati modelli da imitare, da copiare e infine da disprezzare. Mussolini conquistò l’Italia prima con la politica e poi con le sue burattinate, come ha fatto anche un altro. Attenzione, però, lo dico ai soliti che ora scappano dalla nave che fa acqua, a quelli che giocano a nascondino, che passano da una camicia all’altra in fretta e furia. Attenti a non dare per sconfitto troppo presto Silvio Berlusconi. Siamo ancora al secondo atto. Potrebbe anche rivoltare la frittata, fare soltanto cose giuste, cambiare la sua faccia, drammatizzare la sua espressione, riflettere, capire, ascoltare di più, usare il pianto greco e tornare fra un anno vincitore. L’ho conosciuto qualche anno fa, invitò alcuni di noi, ricordo che c’erano anche Age, Scarpelli, la Wertmuller, a cena in un palazzo di via Giulia. Alla fine del pranzo, Confalonieri si mise al piano e lui iniziò il suo repertorio di canzoni francesi, la migliore fu La vie en rose, mi pare che cantasse mica male, ricordava un certo Tino Rossi, uno coi capelli leccati che aveva un certo seguito negli anni Quaranta e Cinquanta. Alla fine, per scherzo, andai e gli diedi diecimila lire, “per l’orchestra”. Lui non fece una piega, ringraziò, spezzò in due la banconota e ne diede un pezzo all’amico Fedele.»

MARIO SOLDATI

Quando Dino Risi cominciò a occuparsi di cinema, era laureando o già laureato in medicina. Cominciò come mio assistente, insieme a Lattuada e a De Caro, nella lavorazione di Piccolo mondo antico. Dino Risi possedeva tutte le qualità per avere successo, sia come medico sia come regista. Ma già allora, nella sua giovanile presenza, non meno di oggi, nel suo raggiunto successo e nel talento indiscutibile e sempre più sicuro, c'era qualche cosa di inerte, di muto, di misterioso.
Era un ragazzo alto, snello, di pelle olivastra e dai capelli scuri e naturalmente ondulati e lucidi, o piuttosto ricciuti con mollezza: aveva occhi grandi, marroni, lievissimamente sporgenti, dolcissimi: dolcissimo, anche, era il suo sorriso, specialmente quando si rivolgeva a una bella ragazza: le mani erano nervose e delicate: e parlava invariabilmente sottovoce, peggio di Pellini: e conservava, almeno in apparenza, una imperturbabile serenità, una perfetta gentilezza di modi.
Ora, i miei difetti più gravi (gravissimi poi per un regista mentre lavora) erano proprio quelli di parlar forte e di non sembrare calmo: calmo lo ero, ma soltanto dentro me stesso: al contrario, dunque, di Risi. Per questo la calma di Risi e, ancora di più, il suo ostinato parlar sottovoce parevano fatti apposta per irritarmi e addirittura per esasperarmi. Erano qualità che gli invidiavo troppo. Gliele invidiavo specialmente nei rapporti con le ragazze. Niente indispone le ragazze come un bercione irrequieto. Tuttavia, Risi non m'irritava: neanche un po'. Se udivo il suo sottile sussurro, mi bastava cercare con gli occhi il suo sguardo: vi vedevo tanta semplice bontà e simpatia, che mi arrendevo subito. Bino Risi apparteneva, certo, ai «sussurranti», razza costituzionalmente avversaria di quella dei «bercianti», cioè della mia: ma non era, o non era soltanto, un astuto: era un uomo umano e «qui avait quelque chose dans le ventre».

FERNALDO DI GIAMMATTEO

«In Italia guai se non riesci simpatico. Io non ho fatto niente per diventare simpatico»: questa orgogliosa autocritica definisce perfettamente l'ex psichiatra che un giorno, durante la guerra, scopre il cinema e vi porta un bagaglio di cinismo e di ironia. Non simpatico e, all'occorrenza, cattivo. Comincia con documentari tutti bonarietà prima di passare al lungometraggio, con temi divaganti ma già maligni ( Il segno di Venere, 1955, con Franca Valeri sulla graticola) e sfacciati (Poveri ma belli, 1956, storia di giovani bulletti che pensano di avere il mondo in pugno). Esita all'inizio, e mostra capacità di analisi non comuni: da Alberto Sordi estrae anzitutto un personaggio ignobile di grande rilievo (Il vedovo, 1959) e poi un ritratto di italiano «antitaliano» a tutto tondo (Una vita difficile, 1961), per uno dei film più tetri, nella sua comicità «forzata», dell'intera carriera dell'autore; da Vittorio Gassman, reduce dai monicelliani ghirigori comici di I soliti ignoti e La grande guerra, spreme un personaggio di arrivista di periferia destinato a entrare nella storia del cinema, per la precisione del contesto sociale in cui è inserito (Il sorpasso, 1962); dallo stesso Gassman e da un impareggiabile (come sempre) Ugo Tognazzi ricava quelle che sembrerebbero macchiette (I mostri, 1963) ma che sono in realtà frammenti appena un poco esasperati di normale antropologia italiana. Esercitazioni simili, più o meno felici ma tutte maligne e sovente feroci al limite della satira, le compie sulla pelle di Nino Manfredi (Operazione San Gennaro , 1966, Straziami ma di baci saziami, 1968, Vedo nudo , 1969), di Mastroianni, di Giannini e più volte - recidivo soddisfatto - sui tic e la sbruffoneria del sempiterno Gassman, nonché del sin troppo disponibile Tognazzi, giullare dimesso di molta simpatia. L'antipatico Risi, manipolatore attento di storie e storielle, attraversa periodi felici e periodi fiacchi, perché gira troppo e confonde le carte (tra riflessione, sberleffo, barzelletta, farsa, ricerca), ma riesce spesso a pungere dove è necessario e a fornire - anche nei prodotti più tardi (come Mordi e fuggi, 1973) o fuori registro (Tolgo il disturbo, 1990, geniale interpretazione di Gassman) - una testimonianza veritiera sul paese in cui gli tocca vivere.

CLAUDIO G. FAVA
Emme - Modena Mondo

Mentre mi accingo a scrivere queste righe, immagino la gente che si affretta alla “Casa del cinema” di Roma per preparare l'omaggio a Dino Risi (un omaggio rigorosamente “laico”, si sono premurati di scrivere i giornali per evitare che si possa pensare che il congedo da Dino preveda qualcosa di religioso) e l'immaginare mi fa sentire crudelmente l'estraneità a quel che sta succedendo a Roma e in pari tempo l'intensità del rammarico, e vorrei dire del dolore, per una scomparsa che era nell'aria e a cui, come sempre capita nella vita, è difficile arrendersi. Sono venuto via da Roma, dopo un quarto di secolo di permanenza, nel 1995 quando Risi era ancora un vigoroso ottantenne che illustrava la sua fiammante giovinezza da tutti lodata e celebrata. In tanti anni di RAI gli avevo dedicato diversi omaggi, fra cui un ciclo per “Cinema di notte” intitolato goliardicamente “In Dino veritas”, ma non avevo avuto vere occasioni di conoscerlo bene (sempre rinserrato nel mio ufficio di Viale Mazzini, avevo poche occasioni per concentrarmi sulla complicata mondanità relazionale su cui riposa metà della vita sociale del cinema italiano). In realtà io fui invogliato nel 1992 da una richiesta di Oreste De Fornari, che voleva celebrare con un libro il trentennio de “Il sorpasso” (1962). Fra le varie ipotesi che io feci vi fu anche quella di scrivere una novella che riproponesse il carattere del famoso gangster de “Il bacio della morte” Tommy Udo, interpretato dalla rivelazione Richard Widmark. Il racconto si intitola, appunto, “Lo sguardo di Tommy Udo” e presumo si riallacci alla sfacciataggine urlante e incongrua tipica del protagonista del film di Risi, a cui la novella piacque molto. Da quel momento diventammo amici, vaga ma costruttiva relazione che mantenni anche quando le 1995 tornai a stare a Genova. Gli telefonavo spesso. Io chiamavo da Genova e lui da Roma mi parlava di sé con un signorile abbandono, come un patrizio intento a lasciarsi andare con il simpatico intendente delle terre. Con quella sua incredibile voce alla Gianni Agnelli mi diceva spesso: “Chiamami, perché parlare con te mi diverte”. E io gli davo retta. Da qualche tempo esitavo a chiamarlo, perché sentivo nella sua voce e vedevo nelle foto che ogni tanto apparivano di lui sui giornali i segni feroci di una vecchiezza subitanea, che gli era caduta sul volto come un'infezione. E a forza di esitare, mi sono trovato davanti al televisore che annunciava la sua morte. Mi dispiace di non aver spinto l'amicizia sino ad una fattiva collaborazione. Avevo già preso gli accordi per installarmi da lui e dar vita ad una lunga intervista filmata, in cui l'ironica e sprezzante fermezza con cui Dino guardava non solo il cinema ma la vita (basta leggere i suoi numerosi libri di aforismi) potesse avere risalto senza essere guastata dalla pesantezza arrogante dei critici. Intanto pensavo a riunire in un volumetto tutto quello che ho scritto di lui (anzi un volumone: non ci sono solo le recensioni, ma anche i libri, soltanto i sei pezzi che ho scritto per “Il segno di Venere” occupano ventidue pagine). Non l'ho mai fatto e forse non lo farò mai, ma qualcosa per testimoniare il mio affetto e la mia stima professionale devo riuscire ad immaginarlo. A Roma tutti quelli che (come dice Luciano Vincenzoni il quale lo sentiva tutti i giorni) non l'hanno mai chiamato al telefono una sola volta, adesso si danno da fare per essere inquadrati alla televisione, mentre secernono forzatamente dolore. Intanto voglio cominciare a pubblicare sul mio Blog quello che ho scritto di lui nel corso di tanti anni, e poi vedremo…

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