Aldo Fabrizi è un attore italiano, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, è nato il 1 novembre 1905 a Roma (Italia) ed è morto il 2 aprile 1990 all'età di 84 anni a Roma (Italia).
Bonario comico dialettale proveniente dall'avanspettacolo e dalla radio, interpretò anche per lo schermo le sue macchiette romanesche a partire da Avanti c'è posto, Campo de' Fiori e L'ultima carrozzella, tutti del 1943. Nel 1945 diede eccellente prova della sua arte con la drammatica figura, venata di arguzia popolare, del sacerdote di Roma città aperta di Roberto Rossellini. Riapparve a un buon livello in Vivere in pace (1947) di Luigi Zampa, Prima comunione (1950) di Alessandro Blasetti e Guardie e ladri (1952) di Steno e Monicelli, in cui recitava con Totò e per cui scrisse la sceneggiatura. Come regista esordì nel 1948 in Argentina con Emigrantes.Ha interpretato altri film, tra cui La Tosca (1973), di Luigi Magni e C'eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola. Ha lasciato tre volumi di poesie: La pastasciutta, Nonna Minestra e Nonno Pane.
È una vecchia osservazione che gli attori di varietà riescono meglio nel cinema che i loro colleghi della prosa. E' chiaro il perché. Meno legati a una illustre tradizione oratoria, più spontanei, più "mimi" (anche Chaplin viene dal varietà), i Macario, i Totò, i Fabrizi non sentono alcuna soggezione dalla macchina da presa. Aldo Fabrizi ha fatto con il film Avanti, c'è posto un ottimo ingresso nel cinema. Se gli taglieranno sempre parti come questa, se si accontenterà di parti non da protagonista (l'esempio di Riento è, nella stessa pellicola, parlante), se si modererà un poco, Fabrizi è sicuro di una popolarità solida e continua. Ma questo piccolo film si raccomanda per altre qualità. L'unione di due sceneggiatori di avanguardia, Zavattini e Tellini, e di un vecchio direttore artistico come Bonnard, ha dato un frutto piccolo sí, ma molto saporoso. Nel cinema, che è più arte che industria, molte volte la fortuna, il caso, che noi chiameremo con più verità, l'ispirazione, contano più dei quattrini. Avanti, c'è posto è un film nato bene. In mano degli hollywoodiani il medesimo soggetto sarebbe stato trattato con maggior finezza tecnica (quei pessimi fondi dipinti!) e con maggior accorgimento di passaggi narrativi (Fabrizi e la Benetti che non trovano da dormire); ma il risultato sarebbe stato meno saporito. Il merito di questo piccolo film è di essere una storia "vera", non della verità oggettiva che non esiste; pieno invece di quella coerenza psicologica, di quella puntuale osservazione dei piccoli fatti, delle verità ambientali che sono necessarissime in questi piccoli racconti fatti di niente. E' curioso che Bonnard a contatto con due scrittori intellettuali e di un vecchio lupo del varietà abbia fornito il miglior film della sua lunga carriera. Curioso, ma fino a un certo punto. Infatti si è dimenticato troppo, nell'industria cinematografica, che l'ingegno vale più dei quattrini; che due ragazzi di buona fede, come Checchi e la piccola Adriana Benetti, contano più, al fisico e al metafisico, dei divi prestanti con testa vuota. In fondo, a pensarci bene, questa dovrebbe essere la nostra strada cinematografica. Ogni tanto, per il prestigio, qualche colosso come Bengasi (ma sarà bene ricordarsi che i capolavori Genina li fece con il film leggero); ma come produzione continua queste piccole storie, sentimentali e leggere, che sanno di aria italiana lontano un miglio. Oh, il giorno che, abolito il trasparente, sanata la colonna sonora (è il punto debole della nostra industria!) il cinema nostro abbandonerà gli ignobili intrecci borghesi per penetrare nella umile realtà provinciale. Sarà quello un gran giorno, lettori, anche se sembri un giorno ancora lontano. Da Bertoldo, 2 Ottobre 1942
Qualche tempo fa m'è accaduto di rivedere a Roma, dopo tanti anni, Aldo Fabrizi. Quanti anni? Tanti, tantissimi... Mentre ci salutavamo calcolavo che, a contarli, non sarebbero bastate tutte le dita delle nostre mani intrecciate: di entrambe le mani, dell'uno e dell'altro, strette ancora una volta nella sincera, affettuosa effusione. E con grande finezza, qualche giorno fa, nel dedicarmi una copia del suo libro appena uscito, La pastasciutta, Fabrizi si è voluto ricordare di me non come scrittore, e neppure come regista, ma come «valente attore» cinematografico. Lavoravamo insieme, infatti, a Roma, nel primo dopoguerra: lavoravamo nel cinema, in Mio figlio professore di Renato Castellani, uno di quei numerosi film che, a quell'epoca, videro Fabrizi, con pieno suo merito, come fortunato, brillante e sentimentale protagonista.
Perché, specialmente, in quegli anni di plein air e, devo pur dirlo, di populismo un po' facile, un po' corrivo, la vena di Fabrizi non era solo comica. Era una vena toccante, patetica, commovente. Con Roma città aperta si era inserito perfettamente in una storia anche tragica. Nessuno come Fabrizi sapeva aggiustare, toccare al momento giusto la corda del «volemose bene». E nessuno come lui sapeva asciugarsi con più convinzione il ciglio appena umido, la lacrimuccia appena spuntata, fingendo di nascondere l'imbarazzo col raffreddore o col ruvido, impacciato dorso della mano.
«Giravamo» dal vero, nelle strette e tortuose vie del centro di Roma. E per tutto il tempo che durò la lavorazione del film, potei studiare da vicino il modo in cui Fabrizi costruiva via via il suo personaggio. Tutti gli effetti comici, e patetici, nascevano dalla «pancia»: dal contrasto irresistibile tra il corpo grasso, pesante, pasciuto, e una misteriosa agilità di movimenti. Vedevo Fabrizi sbuffare, soffiare, sudare, mettersi la mano nel colletto, roteare gli occhi, strabuzzarli, e, a un tratto, accennare quasi un passo di danza, una leggera ed elegante piroetta.
Così Aldo Fabrizi diventava Fabrizi, cioè quasi una maschera: un attore-personaggio, un mimo. In contrasto con la mole ingombrante del corpo ma, appunto per questo, felicissime e comicissime, ammiravo in Fabrizi quelle goffe moine, quelle smorfiette gentili, quelle grìmaces, quelle grazie e graziette vezzose, quasi femminili, di popolano innamorato delle belle maniere. Come tutti i veri attori, Fabrizi aveva indovinato un tratto genuino della sua gente: la carriera: la ricerca, a ogni costo, della «distinzione», che in certi popolani romani diventa anche il gusto, la ricerca della parola e dell'espressione forbita. Con le sue mosse e mossette, Fabrizi metteva in ridicolo anche quella passione, quella smania di certi popolani di muoversi «in punta di piedi».
Ora, non c'è niente di meno signorile, e di più corrotto, si sa, dell'ambiente del cinema. È sempre stato così. E, più che corrotto, l'ambiente del cinema è, per definizione, o dicono che sia, un ambiente volgare. Eppure, dentro di me ho sempre pensato che il segreto di questa volgarità non risieda nella volgarità stessa, ma in una specie di equivoco, di trucco, in un malinteso infernale. Gli uomini di cinema pensano, e credono, che «si debba» essere volgari, e praticano e vivono la volgarità con la devozione, la dedizione, il cieco puntiglio con cui si pratica e si vive, appunto, un dovere. Guai a chi non è volgare! Senza la volgarità non si arriva, non si produce, non si fa, non «si sfonda». Ci si può liberare, forse, anche nel cinema, della volgarità: si può anche arrivare a sfidarla. Ma per far questo è necessario che, in precedenza, la volgarità sia stata praticata e vissuta. Non si può lavorare nel cinema senza che le nostre mani, almeno una volta, non si siano sporcate.
Da dove nasca questa misteriosa idea di una legge di volgarità che governi il mondo e i gusti del pubblico, non saprei dire. Ma se ritorno con la memoria a tutti gli anni che ho lavorato nel cinema, debbo riconoscere che soltanto una volta, grazie a una frase buttata là casualmente, senza pensarci, da Aldo Fabrizi, mi parve che quella legge potesse essere infranta.
Eravamo in piazza del Collegio Romano, in una pausa della lavorazione. C'era, nella nostra troupe, un giovane bello, biondo, di nome Claudio: non un attore, ma un giovane, come ce ne sono tanti intorno alle macchine da presa, «tuttofare». Era efficiente, duro, sprezzante. Non solo aveva fatto presto a imparare la famosa legge della volgarità e della corruzione, ma ne conosceva a memoria, ormai, tutti i codicilli, e li applicava con fredda e scrupolosa determinazione. Per farsi largo usava ogni mezzo, si piegava a tutti i servizi. Un giorno la discussione si era fatta più animata del solito. Claudio stava per commettere, o aveva già commesso, un'ennesima cattiveria, una «carognata» verso una persona che lo aveva beneficato e continuava a beneficarlo. Colsi in Fabrizi un gesto d'insofferenza, ma anche di vecchissima, dolorosa e intelligente saggezza. Lo udii che diceva: «A Cla', ricordate... Quarche vorta, ne la vita, è mejo pijallo ner culo che méttelo...».
Nella vita, qualche volta, è meglio «essere fessi»: una frase che potrebbe stare in bocca a chiunque. Ma Fabrizi l'aveva pronunciata con un accento, un'inflessione di più, con la consapevolezza esatta di tutto quello che costa, e di quello che vale, qualche volta, «essere fessi». Essere fessi, qualche volta, è un bene, un dono superiore a tutti gli altri, ma non solo: è una realtà superiore a tutte le altre. Essere fessi, qualche volta, è essere poeti.
Avrei dovuto sospettarlo, dunque. Avrei dovuto prevedere, fin da allora, che presto o tardi Fabrizi avrebbe messo insieme la sua brava raccolta di sonetti romaneschi, nel solco di quella tradizione che attraverso Trilussa, e Pascarella, risale fino al Belli. E avrei dovuto anche prevedere l'argomento ossessivo della raccolta, che si presenta come un «elogio» insieme povero e rinascimentale, ma, modernamente, esaltato e iperbolico della pastasciutta: il cibo, appunto, della tradizionale povertà e fame italiana.
Non sono un critico. Ma se dovessi giudicare letterariamente la qualità del ricettario in versi di Fabrizi, oserei affermare che non risiede in quella vena ironica, caricaturale, o addirittura mostruosamente deformante e grottesca, messa in evidenza dall'autore nel risvolto del libro. No. Il meglio di Fabrizi non è in questa sottile, compiaciuta, autoironica e istrionica consapevolezza della propria «follia» gastronomica. Non è il Fabrizi invasato di pastasciutta a conquistarmi. Ammiro il suo talento, naturalmente. E, leggendo, non mi fermavo mai d'ammirare. Ma, intanto, andavo cercando tra i sughi, il basilico, i soffritti «d'ajo e ojo» e tutta la maccaromanìa, il mio Fabrizi, il Fabrizi di quella frase pronunciata per caso in piazza del Collegio Romano.
La mia fede è stata ripagata. Eccolo, il mio Fabrizi, a pagina 158, nel primo di due sonetti dedicati agli spaghetti alla poverella.
Ieri dar friggidere, ch'ho svotato pe' daje 'na sbrinata, c'è sortito un pezzo de guanciale rancichito, 'na crosta de formaggio smozzicato, 'na ciotola de strutto congelato, du' fette de presciutto inseccolito, un ciuffo de basilico appassito, e un pommidoro mezzo magagnato.
Voi buttavate tutto alla monnezza, ma io ch'ho combattuto cor bisogno ciò fatto «er sugo de la fanciullezza».
Un sugo cor sapore rancichetto, che m'ha portato indietro come un sogno ar tempo bello ch'ero poveretto.
Ho trascritto il sonetto, umilmente, nella sua interezza, dal principio alla fine, e non mi sento di aggiungere nessun commento. Come dell'amore, della poesia si può dire solo questo: che c'è, quando c'è.
3 novembre 1970
Da Cinematografo, Sellerio Editore, Palermo, 2006