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Rassegna stampa di Paul Newman

Paul Newman (Paul Leonard Newman) è un attore statunitense, regista, produttore, è nato il 26 gennaio 1925 a Shaker Heights, Ohio (USA) ed è morto il 26 settembre 2008 all'età di 83 anni a Westport, Connecticut (USA).

REDAZIONE MYMOVIES
MYmovies.it

Paul Newman si sarebbe affermato con alcuni ruoli come quello di Rocky Graziano in Lassù qualcuno mi ama (Robert Wise, 1956), quello del protagonista in Furia Selvaggia: Billy Kid, il Ben Quick di La lunga estate calda (Martin Ritt, 1958), Lo spaccone (Robert Rossen, 1961): tutti personaggi di ribelli proletari, gente molto diversa dall'attore che li avrebbe interpretati. Paul nasce infatti (il 26 gennaio del 1925) in una famiglia agiata che viveva a Shaker Heights, nell'Ohio, un elegante zona residenziale vicino Cleveland. II padre è il proprietario di un negozio di articoli sportivi (il più grande del paese) e il giovane figlio riceve una buona educazione pur mostrando una certa propensione alle discipline sportive. Si dedica alla recitazione per caso: escluso dalla squadra di football (per punizione: era stato coinvolto in una rissa), decide di impiegare il tempo libero entrando in una compagnia teatrale con la quale farà parecchi spettacoli. La sua carriera d'attore rischia di interrompersi quando il padre muore e il ragazzo si occupa per due anni di gestire il negozio. Ma evidentemente non è quello che vuole: torna dunque alla recitazione e, come avrà modo di dichiarare, fu "molto, molto fortunato". Dopo alcuni lavori fra teatro e televisione, nel 1953 ha un grosso successo in Picnic, una produzione di Broadway che gli vale un contratto con la Warner. Il primo film che gli affida lo studio rischia di chiudere per sempre le porte del cinema all'attore: si tratta di un polpettone e psico-religioso intitolato Il calice d'argento (Victor Saville, 1954). Newman torna a Broadway per ottenere un grande successo con Ore disperate, un ruolo che gli procura in seguito la chiamata per interpretare il pugile Graziano in Lassù qualcuno mi ama, il film che lo consacrerà davvero come divo. Per alcuni anni sarà spesso messo a confronto con Marlon Brando e James Dean, ma con il passare dei tempo Newman si affermerà come star di prima grandezza, interprete sensibile e versatile, uomo di cinema a trecentosessanta gradi (passa infatti alla regia alla fine degli anni sessanta e produce diverse pellicole).

STEFANO LO VERME
MYmovies.it

Incantevoli occhi celesti, sorriso audace, sguardo intenso e un po' tormentato. Paul Newman non era "soltanto" un'icona del cinema e uno dei più popolari sex-symbol di tutti i tempi, ma anche un attore di enorme talento, capace di esprimere alla perfezione il malessere, le debolezze e la voglia di riscatto dei propri personaggi. Le sue più grandi interpretazioni restano quelle di "duri" dal cuore tenero, uomini che dietro una sfrontata spavalderia tentano di nascondere un'inconfessata fragilità: da Brick Pollitt, atleta alcolizzato e marito impotente di Liz Taylor ne La gatta sul tetto che scotta, a Eddie Felson, campione di biliardo vittima della propria ambizione ne Lo spaccone; dal gigolò che si adagia in una vita da mantenuto ne La dolce ala della giovinezza al playboy cinico e prepotente di Hud il selvaggio.
Ma Paul Newman è stato anche il leggendario Butch Cassidy, ironico fuorilegge in un Far West al tramonto, ed Henry Gondorff, la simpatica canaglia intenta ad architettare con il socio Robert Redford una divertentissima "stangata". Il suo piglio ribelle, simile a quello di altri due miti appartenenti alla stessa generazione (Marlon Brando e James Dean), con il passare degli anni si era stemperato in uno sguardo bagnato di malinconia, in cui l'azzurro profondissimo degli occhi sembrava quasi evocare il rimpianto per una bellezza ormai avviata al crepuscolo.

PINO FARINOTTI
MYmovies.it

Divo non basta, personaggio non basta, esempio non basta, e neppure eroe descrive compiutamente Paul Newman. Occorrono tutte quelle definizioni, insieme. Paul si rivelò verso la metà degli anni cinquanta, un momento favorevole per immettersi e dare indicazioni diverse. Aveva trent'anni, era conscio del proprio appeal sul quale lavorare, per cominciare; adesso si trattava di mettere a fuoco le ambizioni, di perfezionare la propria attitudine, di non fare errori. Una decina di anni prima era su una portaerei al largo del Giappone poco prima di Hiroshima. Insomma prese contatto con la guerra. E tornato a casa, entrando nell'Actor's Studio a New York, capì che molto era cambiato, era cambiata l'America e dunque il mondo. Soprattutto, e questo lo interessava da vicino, sarebbe cambiato il cinema. I reduci come lui erano stati testimoni, in Paesi lontani e diversi, di realtà devastanti e sconosciute, che adesso erano conosciute. I film tutti col lieto fine sarebbero stati imbarazzanti. L'eroe assoluto Gary Cooper, marito e padre perfetto, era sorpassato. Ce ne voleva uno nuovo. E il novo eroe fu Paul Newman, attento alla realtà, ai diritti e anche al dolore, al sociale e all'evoluzione generale. Evoluzione significava dunque "ribellione". I suoi compagni del gruppo fondatore dell'Actor's Studio furono tutti ribelli, bastano i nomi: Brando, Dean, Clift. Lui sarebbe stato il più longevo, forse il più intelligente. Aveva talento, ma non quello di un Brando, all'inizio esagerava con la maniera, nel tempo supplì con l'applicazione. Era bellissimo ma cercò sempre di non darlo a vedere. In Lassù qualcuno mi ama ha la faccia devastata del pugile Graziano, nello Spaccone (sono i due titoli che ne fecero un divo) lo picchiano e gli fratturano le mani. Nella Dolce ala della giovinezza gli fracassano il naso con un bastone. Era quasi sempre così. In Nick manofredda, dove fa il detenuto, George Kennedy lo massacra senza pietà, ma lui non cede, si rialza continuamente, maschera di sangue, ma non cede.

DAVE KEHR
The New York Times

A young, dewy Paul Newman made his unlikely movie debut in this 1954 biblical epic, filmed in color and wide screen by Victor Saville. Clad in a toga, Newman seems to be struggling to forget his Actors Studio training. His role, as a Greek slave commissioned by an early Christian patriarch to fashion a chalice worthy of containing the silver cup used by Jesus at the Last Supper, never moves much beyond the standard biblical beefcake of the period — as forever exemplified by Victor Mature in Cecil B. DeMille’s “Samson and Delilah.”

MANOHLA DARGIS
The New York Times

Paul Newman always wore his fame lightly, his beauty too. The beauty may have been more difficult to navigate, when he was young in the 1950's and still being called the next Marlon Brando, establishing his bona fides at the Actors Studio and on Broadway.
Yet Mr. Newman, who died at his home in Westport, Conn., on Friday, never seemed to resent his good looks, as some men did; instead, he shrugged them off without letting them go. He learned to use that flawless face, so we could see the complexities underneath. And later, when age had extracted its price, he learned to use time too, showing us how beauty could be beaten down and nearly used up.
You see the dangerous side of his beauty in “Hud,” Martin Ritt's irresistible if disingenuous 1963 drama about a Texas ranching family in which Mr. Newman plays the womanizing son of a cattleman (the Hollywood veteran Melvyn Douglas), who's hanging onto a fast-fading way of life. The movie traffics in piety: the father refuses to dig for the oil that might change the family's fortunes because he doesn't approve of sucking the land dry. Mr. Newman plays the son, Hud, and it's his job to sneer at the old man's naïveté and to play the villain, which he does so persuasively that he ends up being the film's most enduring strength.
A lot of reviewers clucked about Hud and Mr. Newman's grasping bad-boy ways (the word they used then was materialism), but the camera loves this cowboy Lothario so much — or, rather, the actor playing him — that his father's high-and-mighty ways don't stand a chance. Nobody else much does, either: when Hud hits on the family housekeeper (a smoky-voiced, smoking Patricia Neal), he sinks back in her bed and, with his nose deep in a daisy, asks with a leer, “What else you good at?” Rarely has the act of smelling a flower seemed as delectably dirty. It's no wonder that Pauline Kael, who refused to buy just about anything else this movie was selling, gave Mr. Newman his due.

ALJEAN HARMETZ
The New York Times

Paul Newman, one of the last of the great 20th-century movie stars, died Friday at his home in Westport, Conn. He was 83.
The cause was cancer, said Jeff Sanderson of Chasen & Company, Mr. Newman's publicists.
If Marlon Brando and James Dean defined the defiant American male as a sullen rebel, Paul Newman recreated him as a likable renegade, a strikingly handsome figure of animal high spirits and blue-eyed candor whose magnetism was almost impossible to resist, whether the character was Hud, Cool Hand Luke or Butch Cassidy.
He acted in more than 65 movies over more than 50 years, drawing on a physical grace, unassuming intelligence and good humor that made it all seem effortless.
Yet he was also an ambitious, intellectual actor and a passionate student of his craft, and he achieved what most of his peers find impossible: remaining a major star into a craggy, charismatic old age even as he redefined himself as more than Hollywood star. He raced cars, opened summer camps for ailing children and became a nonprofit entrepreneur with a line of foods that put his picture on supermarket shelves around the world.
Mr. Newman made his Hollywood debut in the 1954 costume film “The Silver Chalice.” Stardom arrived a year and a half later, when he inherited from James Dean the role of the boxer Rocky Graziano in “Somebody Up There Likes Me.” Mr. Dean had been killed in a car crash before the screenplay was finished.
It was a rapid rise for Mr. Newman, but being taken seriously as an actor took longer. He was almost undone by his star power, his classic good looks and, most of all, his brilliant blue eyes. “I picture my epitaph,” he once said. “Here lies Paul Newman, who died a failure because his eyes turned brown.”
Mr. Newman's filmography was a cavalcade of flawed heroes and winning antiheroes stretching over decades. In 1958 he was a drifting confidence man determined to marry a Southern belle in an adaptation of “The Long, Hot Summer.” In 1982, in “The Verdict,” he was a washed-up alcoholic lawyer who finds a chance to redeem himself in a medical malpractice case.
And in 2002, at 77, having lost none of his charm, he was affably deadly as Tom Hanks's gangster boss in “Road to Perdition.” It was his last onscreen role in a major theatrical release. (He supplied the voice of the veteran race car Doc in the Pixar animated film “Cars” in 2006.)
Few major American stars have chosen to play so many imperfect men.
As Hud Bannon in “Hud” (1963) Mr. Newman was a heel on the Texas range who wanted the good life and was willing to sell diseased cattle to get it. The character was intended to make the audience feel “loathing and disgust,” Mr. Newman told a reporter. Instead, he said, “we created a folk hero.”
As the self-destructive convict in “Cool Hand Luke” (1967) Mr. Newman was too rebellious to be broken by a brutal prison system. As Butch Cassidy in “Butch Cassidy and the Sundance Kid” (1969) he was the most amiable and antic of bank robbers, memorably paired with Robert Redford. And in “The Hustler” (1961) he was the small-time pool shark Fast Eddie, a role he recreated 25 years later, now as a well-heeled middle-aged liquor salesman, in “The Color of Money” (1986).

LUIGI PAINI
Il Sole-24 Ore

L'attore americano Paul Newman è morto venerdì all'età di 83 anni.
Allievo dell'Actor's Studio,protagonista di film di larghissimo successo come Lo spaccone, La stangata, Butch Cassidy e Il colore dei soldi ( per il quale vinse l'Oscar nel 1986),pilota di auto da corsa, ha dedicato l'ultima parte della sua vita alla beneficenza.
Il primo film di Paul Newman, scomparso venerdì all'età di 83 anni, non se lo ricorda quasi più nessuno (Il calice d'argento di Victor Saville, del 1954). Anzi, le biografie riportano il giudizio del «New Yorker», che bollava così la sua prova: «Recita la parte con il fervore emotivo di un autista d'autobus che annuncia le fermate». Quel critico forse aveva ragione sul singolo film, ma visto in prospettiva prendeva un granchio colossale. Newman veniva da una scuola che raramente ha sbagliato: dopo aver studiato arte drammatica alla Yale University, era approdato al mitico Actor's Studio di New York, la fucina dei divi. Un marchio di fabbrica che si è sempre portato appresso la tendenza a caricare emotivamente i personaggi, insieme alla capacità di fermarsi al punto giusto, un attimo prima di strafare. Con quello sguardo «un po' così », quel fascino tanto naturale e insieme consapevole e coltivato, quella facoltà di guardare oltre lo schermo, arrivando dritto al cuore degli spettatori.

LYNN SMITH
The Los Angeles Times

The blue-eyed star of 'The Hustler,' 'Cool Hand Luke' and 'Butch Cassidy and the Sundance Kid' was at home. He had long battled cancer.
Paul Newman, the legendary movie star and irreverent cultural icon who created a model philanthropy fueled by profits from a salad dressing that became nearly as famous as he was, has died. He was 83.
Newman died Friday at his home near Westport, Conn., after a long battle with cancer, publicist Jeff Sanderson said.
Stunningly handsome, Newman maintained his superstar status while keeping his distance from its corrupting influences through nearly 100 Broadway, television and movie roles. As an actor and director, he evolved into Hollywood's elder statesman, admired off screen for his quiet generosity, unconventional business sense, race car daring, political activism and enduring marriage to actress Joanne Woodward.
Annoyed by the public's fascination with his resemblance to a Roman statue and his Windex-blue eyes, Newman often chose offbeat character roles. In the 1960s, he helped define the American anti-hero and became identified with the charming misfits, cads and con men in film classics such as "The Hustler," "Hud," "Cool Hand Luke" and "Butch Cassidy and the Sundance Kid."
"It's a great loss, in so many ways," Martin Scorsese, who directed Newman in "The Color of Money," said in a statement Saturday. "The history of movies without Paul Newman? It's unthinkable. . . . His powerful eloquence, his consummate sense of craft, so consummate that you didn't see any sense of effort up there on the screen, set a new standard."
Robert Redford, Newman's "Sundance" co-star, said in a statement, "There is a point where feelings go beyond words. I have lost a real friend. My life -- and this country -- is better for his being in it."
Newman's poker-game look in "The Sting" -- cunning, watchful, removed, amused, confident, alert -- summed up his power as a person and actor, said Stewart Stern, a screenwriter and longtime friend.
"You never see the whole deck. There's always some card somewhere he may or may not play," Stern said. "Maybe he doesn't even have it."
Newman maintained his success came less from natural talent than from hard work, luck and the tenacity of a terrier.
"Acting," he once said, "is really nothing but exploring certain facets of your own personality trying to become someone else." In early films, he said, he tried to make himself fit the character but later aimed "to make the character come to me."
The actor was proudest, friends say, of his later Oscar-nominated roles in "Absence of Malice," "The Verdict" and "Nobody's Fool," in which he dug deep into the complex emotions of ordinary men struggling for dignity, justice or a sense of connection. In 2003, he was nominated for an Oscar as best supporting actor for his last feature film appearance, as a conflicted mob boss in "Road to Perdition." Two years later, at 80, he won an Emmy for playing a meddlesome father in "Empire Falls."
"He's a majestic figure in the world of acting," said director Arthur Penn, who worked with him in his early career. "He did everything and did it well."
Part of a generation of edgy, naturalistic New York actors who changed Hollywood in the '50s and '60s, Newman was often compared with fellow Method actors Marlon Brando and James Dean. Film critic David Ansen once observed that if the trim actor lacked the others' physical or psychic presence, he was more approachable, even when he played a heel.
"Newman," Ansen wrote, "is our great middleweight movie star."
Nominated eight times for Academy Awards in the best-actor category, Newman won only once, for "The Color of Money" (1986), in which he reprised the role of "Fast" Eddie Felson that he originated in 1961's "The Hustler." He also took home honorary Oscars in 1985 for career achievement and in 1993 for his humanitarian efforts. In later years, he shunned awards shows, though Oscar, Emmy and Tony nominations continued. He claimed he no longer owned a tuxedo.

CARINA CHOCANO
The Los Angeles Times

Refusing to romanticize his nonconformist characters, the star put his sex appeal to complicated and fascinating use.
Paul Newman, that pure and concentrated essence of classic movie stardom, reinvented himself a couple of times in the span of his long career, until he ended up playing the kind of guy he might have become had he never left his native Shaker Heights, Ohio: an ultra-conservative, cold-fish Midwestern lawyer, married for decades to the same woman (see his performance in the Merchant-Ivory jewel box "Mr. And Mrs. Bridge," from 1990).
But he'll be best remembered for playing the polar opposite, a recurring persona he took up and reprised from 1958 through 1969, the nonconformist ne'er-do-well, idolized by criminals and women who knew better, reviled by authority and tradition.

SCOTT FEINBERG
The Los Angeles Times

Cool Hand Luke, The Verdict, Butch Cassidy, Absence of Malice, The Hustler
Today, as the world mourns the loss of Paul Newman, one of its greatest actors and philanthropists, I thought it would be fitting to seek out the memories of several of those who knew him longest and best: his friends, co-stars, and contemporaries from Hollywood's Golden Age, during which he began his remarkable career more than half a century ago.
After graduating from Kenyon College in 1949, Newman spent a year at Yale University's School of Drama, then decided to try his luck in New York. There, he enrolled at the Actors Studio and learned Method acting under the tutelage of Lee Strasberg, Elia Kazan, and Martin Ritt.
His classmates included future stars Marlon Brando, James Dean, Marilyn Monroe, and Cliff Robertson, who would go on to win the Academy Award for Best Actor for “Charly” (1968), and who today remembered how impressed he was with Newman even then.
“He was very, very likable, straightforward, and his word was his bond -- he was an honest man,” Robertson, now 85, told me Saturday morning. Robertson also recalled that, contrary to popular belief, success did not always come easily to Newman.

ALBERTO CRESPI
L'Unità

Eppure lui non si piaceva come attore Pagò un annuncio sul giornale per scusarsi col pubblico de Il calice d'argento Con Butch Cassidy e La stangata in coppia con Redford scrive la sua leggenda L'Oscar arriva nell'87 per Il colore dei soldi.
Il mito si è spento giovedì scorso a 83 anni Paul Newman. Da tempo malato di cancro ai polmoni, l'attore aveva chiesto, mesi fa, di poter tornare a casa dove ha trascorso gli ultimi giorni con la moglie Joanne Woodward e le figlie.
Se avete in casa il dvd di Cars - sì, quel cartone animato sulle automobili - perché l'avete regalato ai vostri bambini, infilatelo nel lettore e ascoltatelo in lingua originale. La voce di Doc - l'ex campione, la vecchia auto da corsa - è la sua. Lui ci scherzava («Ho iniziato la carriera con una conferenza sulla pessima recitazione e l'ho finita con il ruolo di un'automobile») ma sotto sotto quel cartone doveva essergli piaciuto, perché era un appassionato di corse e nel'79 era arrivato secondo alla 24 ore di Le Mans: un podio al quale probabilmente teneva più che all'Oscar.
Ora che ci ha lasciati, sappiamo che sulla sua tomba non verrà scritta la frase alla quale lui stesso aveva pensato: «Qui giace Paul Newman, morto di dolore perché i suoi occhi erano diventati marroni». Gli occhi sono rimasti azzurri fino all'ultimo, e Newman era, anche dopo gli 80 anni, un vecchio bellissimo. Di lui Lee Strasberg, il suo maestro all'Actor's Studio, diceva: «Se fosse stato meno bello sarebbe stato più bravo di Marlon Brando». Una frase che ricorda quella che George Best, il «quinto Beatle», il famoso calciatore del Manchester United, diceva di sé: «Se fossi stato meno bello non avreste mai sentito parlare di Pelè». È curioso come i belli, a volte, fatichino a fare i conti con la propria bellezza. Newman raccontava di aver capito l'effetto che faceva alle donne durante le riprese di Hud il selvaggio, in Texas, nel 1963: «Tentavano letteralmente di scavalcare la recinzione del motel dove abitavo. All'inizio, è gratificante. Ma solo all'inizio... poi capisci che ti confondono con i ruoli che interpreti, e che tutto ciò non ha niente a che vedere con il vero te stesso». Ciò non toglie che per decenni Paul Newman è stato uno dei divi più «redditizi» di Hollywood, e che in questo successo il fascino sia stato importante almeno quanto il talento. Lui, però, aveva un pessimo rapporto con il proprio alter-ego, là sullo schermo: «Non riesco a guardarmi. Se mi rivedo in una scena osservo solo la tecnica, gli errori, la fatica che mi è costata».

MAURIZIO CABONA
Il Giornale

Come accade tuttora per Steve McQueen, la pubblicità sfrutterà a lungo lo sguardo azzurro di Paul Newman, morto ieri a 83 anni, dopo un'agonia fin troppo seguita dalla stampa e una vita esaltata tanto dal successo (e da quello di Joanne Woodward, seconda moglie); quanto amareggiata dalla scomparsa di Scott, figlio di primo letto.
Nella filantropia concreta degli ultimi anni di Newman non c'era solo la. Voglia di trovare un'alternativa alla passione per le corse in auto, che lo aveva portato in pista- a Le. Mans e a Indianapolis. Doveva esserci anche il dolore venato di rimorso di un padre capace di dare al figlio dalla gloria riflessa ai soldi sicuri, ma non ciò ché il figlio voleva di più: tempo e considerazione del padre.
Le tv hanno già cominciato a .spartirsi il ricordo: di Newman, a colpi di «omaggi», modo finto-nobile per trarre nuovi introiti indiretti dall'aver acquisito i diritti dei sui vecchi film. Era quel-lo che Newman meno desiderava: non molti anni fa aveva pubblicato un'intera pagina su un quotidiano di Los Angeles per scusarsi della ripetuta diffusione del Calice d'argento di Victor Saville, scadente esordio-cinematografico, dove Anna Maria Pierangeli (solo Pier Angeli per gli americani) interpretava sua moglie.

ENRICO GROPPALI
Il Giornale

L'attrice girò con lui Ormai non c'e più scampo. «Un brutto film, lo accettai solo per rivederlo. La moglie, Joanne Woodward, lo teneva sempre d'occhio»
Valentina Cortese si schermisce con grazia. «Sto male - dichiara con la sua piccola voce che ha incantato generazioni di spettatori -, un mese fa, mentre riordinavo un vecchio armadio dove avevo riposto un baule di Eleonora Duse in cui la nostra straordinaria attrice aveva messo i copioni originali di D'Annunzio, sono caduta e mi sono fratturata una vertebra. Un incidente che mi ha costretta a rinviare il recital Duse legge i versi di Gabriele che avrei dovuto recitare al Teatro di Verdura, il palcoscenico del mio amico Dell'Utri». Impossibile arginare Valentina che, nonostante un noiosissimo raffreddore, parla a raffica di D'Annunzio, di Boito e della Duse come se li avesse conosciuti personalmente.

LUDOVICO BASALù
L'Unità

Attore o pilota? la domanda è lecita pensando a Paul Newman. Piccolo di statura - il suo incubo - grande come attore, almeno superbo come pilota. Anche se a cavallo tra il ruolo di gentleman e quello di professionista. E persino in quello di team manager, nel mondo delle corse che contano negli States, non esclusa la celebre Indy. Gli occhi più belli e più blu di Hollywood, purtroppo, li rivedremo solo nei tanti memorabili film interpretati dall'attore americano. Che a 83 anni ha deciso di lasciare questo pianeta e una delle sue grandi passioni: le automobili. Suo malgrado - «perché nella mia testa c'è sempre l'ardore e la passione di un ragazzo» - come amava dire ad anici e ammiratori. Al punto che fino a poco tempo fa si era cimentato al volante di splendide Gran Turismo da 500 cavalli. Partecipando con costanza a varie competizioni, specie nelle gare di durata, senza mai poter sconfinare - per ragioni di anagrafe - in quella FI che pur osservava con interesse. Poco importa. Se Paul Newman lo ricorderemo per il suo impegno nel sociale, per le tante donazioni, il mondo dell'automobile lo ricorderà come grande e raffinato esperto. E collezionista di pezzi rari e introvabili, del valore di svariati milioni di curo. Non il solo, nel mondo di Hollywood. Facile ricordare James Dean, morto giovanissimo al volante di una Porsche 550 Speedster nel 1955. O Steve McQueen, altro attore-pilota, anzi, più pilota che attore: al volante di una Porsche, riuscì a comandare la celebre 12 ore di Sebring del 1970, davanti allo squadrone ufficiale Ferrari. Per cedere solo nel finale il comando della gara, accontentandosi di una prestigiosissima piazza d'onore. Anche Steve morì di tumore, ma a poco più di 50 anni. Anche l'interprete di Papillon e di tanti altri celebri film aveva nei suoi garage blindati splendide automobili da collezione. Come Paul Newman. Non c'erano corse, raduni, mostre di auto moderne o d'epoca, che non lo vedessero tra i protagonisti. Nel 1979 partecipò con una sua scuderia alla 24 ore di le Mans, e su una Porsche 935 (un mostro da oltre 700 cavalli) guidata insieme a Rolf Stommelen e Dick Barbour, si classificò secondo assoluto nella classica francese. D'accordo, i suoi tumi di guida furono certo inferiori a quelli dei piloti titolari della casa di Stoccarda. Ma non è da tutti viaggiare sul celebre rettilineo delle Heunadierès a velocità comprese tra i 350 e i 400 km/h. Non solo. Nel 1995, dunque a 70 anni suonati, vinse la 24 Ore di Daytona per la classe GIS, arrivando terzo assoluto. Insomma il pilota più anziano a riuscire in una impresa simile. Solo tre anni fa, a 80 anni - e sempre a Daytona - uscì illeso dall'incendio che distrusse la sua Crawford, durante una sessione di prove libere. «Alla passione non si comanda - disse -. E solo il mio modo di concepire la vita: non rinunciare mai a quello che ami».

FRANCESCA GENTILE
L'Unità

Ha pure creato un villaggio vacanze per bambini malati di cancro, fatalità della sorte, proprio il male che l'ha ucciso È stato sempre dalla parte dei democratici E non ha risparmiato accuse al governo per le strumentalizzazioni dell' 11 settembre filantropo. Così lo raccontano i media Usa: attore e filantropo. Newman ha dedicate tutta la vita ad aiutare i più deboli. Con i barattoli di salsa della sua linea alimentare ha incassato una fortuna tutta devoluta in beneficenza...
«Attore e filantropo Paul Newman è morto questa mattina nella sua casa in Connecticut. Aveva ottantatre anni». Così le centinaia di canali televisivi e radio in America hanno annunciato la morte di Newman, affiancando alla professione che lo ha fatto conoscere ed ammirare nel mondo, all'attività a cui ha dedicato buona parte della sua vita: usare il suo nome e il suo sempre bellissimo volto per portare avanti le idee in cui credeva e aiutare gli altri. Paul Newman era un filantropo forse ancora prima di essere una delle icone del cinema americano. «La cosa che più mi imbarazza - aveva detto durante una delle sue ultime interviste - è che ha fatto più soldi la mia faccia su un barattolo di salsa che in centinaia di film!». I barattoli di salsa erano quelli della linea di prodotti alimentari, fondata nel 1982, che ha fruttato 250 milioni di dollari interamente devoluti in beneficenza. «È iniziato tutto quasi per scherzo - aveva detto durante una delle sue ultime interviste, per il film Era mio padre, nel 2002 -. Nessuno di coloro che ha pensato e attuato questa cosa insieme a me aveva la minima idea che si sarebbe trasformata in un business da centinaia di milioni di dollari».

IRENE BIGNARDI
La Repubblica

Addio a Paul Newman ultima leggenda del cinema. Bello, bravo, generoso, l'attore americano più amato.
È morto, dopo una lunga malattia, Paul Newman, ultima leggenda di un'epoca in cui Hollywood contava ancora sul fattore umano e non sugli effetti speciali, il protagonista, con Joanne Woodward, di uno di quei matrimoni esemplari fatti di passioni comuni e di intelligenza. Uno dei volti più belli del cinema (il duello era tra lui e Marlon Brando).
Ma anche un uomo con una straordinaria volontà di fare - cinema, teatro, avventura, persino gastronomia, un impegno liberal sempre dichiarato - e un talento che si è espresso in modo ineguale eppure sempre memorabile.
Se ne è andato un uomo che ha avuto la disgrazia di essere troppo bello (e la fortuna di avere talento). Era nato nel 1925 a Cleveland, Ohio, da un padre di origine ebraica e da una madre cattolica ma per tutta la vita lui avrebbe dichiarato di sentirsi ebreo, «perché è una sfida più grande», Aveva subito dimostrato una passione notevole per il mestiere che poi sarebbe stato il suo per tutta la vita. Fin dagli anni dell'università in Ohio (da cui fu cacciato, raccontano i biografi, per aver sbattuto una cassa di birre sulla macchina del preside). Fin da quando dovette decidere che non avrebbe preso il posto del padre alla guida all'emporio sportivo della famiglia ma avrebbe continuato nel suo tentativo di diventare un attore. Un tentativo che lo portò a Yale, dove frequentò la Yale School of Drama e dove si sposò una prima volta, poi all'Actors Studio, dove studiò in un interessante gruppetto di cui facevano parte Geraldine Page, Rod Steiger e James Dean, poi alla sua apparizione a Broadway in Picnic, che avrebbe segnato l'inizio della sua carriera di attore - e l'inizio dell'amore con e per Joanne Woodward, che fu la sua seconda moglie e la moglie di tutta una vita.

NATALIA ASPESI
La Repubblica

Era diventato il più amato degli attori americani alla fine degli anni'50, già ultratrentenne, mentre una valanga di virili ma usurati cinesex symbol si avviava all'oscurità della pensione.
Appariva come un nuovo Marlon Brando, però meno fosco e più bello, adatto quindi a far singhiozzare per sfinimento amoroso le nuove platee femminili già impazienti dei loro confini domestici, con quei bei melodrammi spesso insensati e talvolta ispirati a Tennessee Williams o a William Faulkner o a John O'Hara in versione molto edulcorata. Gli occhi azzurri di Paul Newman divennero leggendari, e anche nei film in bianco e nero riuscivano a illuminare lo schermo, straziavano le partner, ammutolivano le romantiche platee: lui li considerava un fastidio, e per tutta la vita li nascose con spessi occhiali scuri, portando anche barbe finte per riuscire a sfuggire agli assalti delle ammiratrici. Disse una volta: «Sulla mia tomba vorrei che scrivessero, “Qui riposa un uomo che divenne finalmente qualcuno quando i suoi occhi diventarono castani”».

FRANCESCO BOLZONI
Avvenire

Si e spento all'età di 83 anni uno dei più grandi attori di tutti i tempi. Dall'esordio come Rocky Graziano in Lassù qualcuno mi ama all'Oscar per Il colore dei soldi. La passione per le auto da corsa, la politica e soprattutto il volontariato.
Hollywood piange uno dei suoi divi più grandi, una leggenda del cinema. Dopo una lunga malattia, Paul Newman si è spento nella sua villa di Westport, nel Connecticut, dove aveva voluto farsi riportare dall'ospedale dopo l'ultimo inutile ciclo di chemioterapia per un tumore ai polmoni. Accanto a lui la seconda moglie Joanne Woodward, 50 anni di matrimonio, uno dei più solidi di Hollywood, e le sue cinque figlie.
Paul Newman (nato a Cleveland, Ohio, nel 1925 da padre ebreo di origine tedesca e madre cattolica con radici ungheresi) aveva il dono della simpatia. Della razza dei Burt Lancaster e dei Robert Redford, piaceva alle donne e ai loro compagni. Era senza ombra di dubbio un uomo bellissimo (e lo è rimasto sino all'ultimo), un'icona glamour anche grazie ai suoi celeberrimi occhi blu da cui traspariva, però, soprattutto intelligenza. Il suo fascino, infatti, proveniva da qualcosa di più profondo che si esprimeva in una recitazione dalla naturalezza e dalla credibilità immediate. Pur attore completo, capace di recitare sia in commedie, anche sofisticate, che in drammi, poteva essere definito un «simpatico mascalzone» grazie a quel Lassù qualcuno mi ama di Robert Wise (1956) dove interpretava l'italoamericano Rocky Graziano che, attraverso la boxe, passava dalla delinquenza alla redenzione. Questo "tipo" sarà ripreso con maestria più volte all'attore e gli suggerirà il personaggio del giocatore di biliardo di Lo spaccone (1961) di Robert Rosse che sarà ripreso da Martin Scorsese nel Colore dei soldi in cui Newman è il "maestro" di Tom Cruise (Oscar per il miglior attore nel 1986, che però Newman non ritirò personalmente perché non presenziò alla cerimonia viste le tante vote, nove, in cui era stato nominato e mai premiato).

GIAN LUIGI RONDI
Il Tempo

II divo dagli occhi blu che sognava di fare il pilota e da giovane era scambiato per Marlon Brando.
Le corse automobilistiche per Paul Newman erano ben più di un passatempo. Una inguaribile passione (che si intrecciò con quella per il cinema in diverse pellicole, come «Indianapolis pista infernale»), coltivata fin dalla fine degli anni Settanta. Abiti sportivi e sguardo competente, era frequentissimo vederlo nei box dei più importanti circuiti del mondo, quando non seduto in prima persona nell'abitacolo di un bolide. Una passione che gli diede le soddisfazioni più grandi nel 1995 quando, nonostante i 70 anni compiuti, vinse la 24 ore di Daytona. Al volante di una Ford Mustang Cobra si impose nella categoria prototipi GTI, giungendo terzo assoluto e laureandosi il più anziano pilota di un team vincente nella competizione. Ma già nel 1979 aveva partecipato con una sua scuderia alla 24 ore di Le Mans, con una Porsche 935 guidata insieme a Rolf Stommelen e Dick Barbour che si classificò seconda. In seguito corse a lungo per il Bob Sharp Racing Team. Nel 1999 si tolse anche la soddisfazione di guidare una Ferrari 355 TB in una delle corse del campionato Challenge Usa organizzato dalla Ferrari North America sul circuito di Lime Rock in Connecticut.

ANTONELLO SARNO
Il Tempo

Hollywood è a lutto. Robert Redford, George Clooney, Julia Roberts, il regista Martin Scorsese, tutti lo piangono. Piangono il compagno di tante avventure cinematografiche e il maestro. «Ho perso un vero amico», ha detto Robert Redford, che fu suo partner nel classico western «Butch Cassidy and the Sundance Kid» e in «La Stangata». «Ha creato uno standard incredibilmente alto per tutti noi - ha commentato George Clooney - Ha lasciato un grande vuoto». L'attrice Sally Field ha detto che «è stata una benedizione averlo conosciuto: oltre ad essere un grande attore era anche una grande persona». Julia Roberts è andata oltre: «Era il mio eroe». Per il governatore della California Arnold Schwarzenegger «tutti gli uomini sognavano di essere come lui e tutte le donne lo adoravano». Martin Scorsese ha detto che la sua morte «lascia un grande vuoto: è impensabìle una storia del cinema senza Paul Newman. La sua presenza, la sua bellezza, le complesse emozioni che riusciva ad esprimere: dove saremmo senza di lui? Oltre ad essere un grande attore era anche una persona eccezionale». Una portavoce dell'attore ha confermato che Newman è morto dopo una lunga battaglia contro il cancro. Marni Tomljanovic ha spiegato che la leggenda di Hollywood aveva terminato ad agosto un ciclo di chemioterapia contro il cancro. «Paul Newman era un grande attore. La sua grande passione erano le corse di auto. Il suo amore erano la famiglia e gli amici - ha dichiarato Robert Forrester, vicepresidente della Newman's Own Foundation -. Il suo cuore e la sua anima erano dedicati alla causa di fare del mondo un posto migliore». Vincenzo Manes - presidente della Fondazione Dynamo, primo fondo italiano impegnato nella «venture philantropy» al quale si deve la realizzazione della struttura - dopo aver annunciato la scomparsa di Paul Newman ne ha ricordato le qualità artistiche e umane. Intanto venivano proiettate immagini dell'attore relative anche alla sua visita, due anni fa, al cantiere della struttura e anche alla Ferrari a Maranello dove provò in pista la Ferrari 599 GTB Fiorano. « È stato un grande attore, regista, corridore d'auto, imprenditore, filantropo, fortemente impegnato in politica tanto da essere il numero 19 nella lista dei nemici di Nixon, un marito e padre amorevole - ha detto Manes -. Lo conoscevo da tre anni e mezzo, lui era venuto qua e io ero andato in America più volte. Era una persona straordinaria: la cosa che più mi ha impressionato era la sua semplicità».

DINA D'ISA
Il Tempo

Il suo maestro, Lee Strasberg, che lo tenne a battesimo all'Actor's Studio diceva che «sarebbe grande come Marlon Brando, se solo fosse stato meno bello. Aveva il talento ma faceva troppo spesso affidamento sul suo sex appeal e rimaneva così in superficie davanti ai ruoli più impegnativi». Ma Newman replicava: «Recitare è come calarsi i pantaloni: resti in bella mostra davanti a tutti. Essere un attore vuole dire restare bambini e io volevo solo scappar via dal negozio di articoli sportivi che mi aveva lasciato mio padre».
Confinato per molti anni nel ruolo del «bello senz'anima», rifiutato fino alla tarda età dal mondo di Hollywood che per nove volte lo candidò all'Oscar premiandolo una sola volta (per «Il colore dei soldi» quando non si presentò nemmeno, e naturalmente vinse), col locato implacabilmente in tutte le classifiche dei rotocalchi per divi e mai in quelle dei critici meritocratici, l'ebreo ungherese dagli occhi azzurri che a Cleveland era nato nell'agiatezza e che nella campagna americana sarebbe tornato per vivere la sua lunghissima storia d'amore con la moglie Joanne Woodward, è stato l'autentico anti-divo per eccellenza. Prima ancora del confronto con Marlon Brando, con cui venne sovente scambiato in gioventù («ho firmato - disse - più di 500 autografi con il suo nome»), dovette sopportare il raffronto con James Dean la cui morte precoce procurò a Newman i due primi ruoli d'eccellenza: quello di Rocky Graziano in «Lassù qualcuno mi ama» e quello di Billy the Kid in «Furia Selvaggia». Bastarono questi ruoli, oltre a «La gatta sul tetto che scotta», «La lunga estate calda» e «Lo spaccone», per costruirgli il personaggio che lo ha reso immortale. «La prima volta in cui ho capito che le donne mi guardavano in un certo modo fu quando giravamo in Texas "Hud il Selvaggio" - ricordava -. Le donne volevano letteralmente piovere nel letto del mio motel. All'inizio fa piacere. Poi ti accorgi che ti con

ROBERTO SILVESTRI
Il Manifesto

Muore a 83 anni, dopo un altro combattimento perduto, contro il cancro questa volta, Paul Newman, l'«ultimo divo».
Occhi azzurri, sguardo aperto. Spavaldo e istrione, dall'ironia misteriosa che gli angoli della bocca maneggiano come un teramin. Un coraggio fin troppo esibito, eppure di discrezione quasi imbarazzante che suggerisce strane commistioni sessuali. Fu così fl suo americano in oltre 60 film dal successo travolgente, come le automobili da corsa che ha guidato per tutta la vita: Nick mano fredda, Butch Cassidy, La stangata... Anche se la sua forte ostilità ai riti di Hollywood gli fruttarono un solo Oscar (Il colore dei soldi), grazie a Martin Scorsese (oltre a quello, rituale e tardivo, alla carriera alla metà degli anni 80).
Newman è stato il pezzo più resistente e combattente di una generazione di attori e militanti «liberal» che, tra gli anni '50 e '60, fu vittima, non indocile, della fine del sogno americano e del ricambio generazionale di una Hollywood che aveva usato la crociata anticomunista anche per abbassare i costi di produzione (e dunque annientare la generazione rooseveltiana troppo esosa).
Ma anche i nuovi divi furono tutt'altro che servi «flessibili». Paul Newman, dopo Berkeley e gli studenti assassinati della Kent University, fece campagna elettorale per McGovern; dopo Nixon con Carter, e oggi era con Obama. Individualisti, ma democratici, jeffersoniani e «controculturali», tra guerra fredda e sinistri segnali di un maccartismo ostinato, i suoi colleghi se ne andarono via, quasi tutti, giovanissimi, Marilyn e Dorothy Dandridge, Jimmy Dean e Monty Clift, Steve McQueen e Susan Hayward... Erano i kennediani di Hollywood, il sintomo di un altro possibile «nuovo patto». Persero la vita subito, ma il cinema lo cambiarono, irreversibilmente. «Ultimo divo», Newman, ha proseguito la loro battaglia anche perché lui, e sua moglie Joanne Woodward, non sono mai stati tipi da Hollywood. Diventato un adorato sex symbol negli anni,in cui la televisione stava schiacciando di manierismo lo Studio System, divise con Mgilon Brando il compito di riportare al cinema i conflitti della vita e della strada. Fu proprio un aspro dramma, di taglio quasi neorealista, a lanciarlo, Lassù qualcuno mi ama, nel 1956.

MARIUCCIA CIOTTA
Il Manifesto

Nato il 26 gennaio 1925 a Shaker Heights, Cleveland (Ohio), il papà è un commerciante ebreo di articoli sportivi, la mamma è di origine ungherese. Si laurea in economia al Keynon College, fa teatro a Yale e poi, dopo la guerra (marconista negli aerei della marina) si perfeziona con Lee Strasberg all'Actor's Studio. Parallelamente pilota automobilista professionista sarà 2' alla 24 ore di Le Mans 1979, con una Porsche 935, e 1', con una Ford Mustang Cobra, a Daytona 1995 (dalla scuderia Newman-Hass uscirà Nigel Mansell). Quando per «Colpo secco» ('77) George Roy Hill, il regista del suo duetto magico («Butch Cassidy», '69, e «La stangata», '73) avrà bisogno di un buon pattinatore sul ghiaccio, sceglierà lui, non AI Pacino. Broadway lo lancia: «Picnic» di William Inge ('53) e «La dolce ala della giovinezza», al fianco di Geraldine Page. L'esordio sul grande schermo è legato a «Il calice d'argento» di Victor Saville, 1955, kolossal storico religioso in cinemascope e technicolor. Un fiasco, di cui si scuserà pubblicamente. Nel 1956 il suo Rocky Graziano conquista tutti: in «Lassù qualcuno mi ama» (The Rack) di Robert Wise: sa urlare anche quando non apre bocca. Nel 1958 è «Billy Kidd» (Furia selvaggia) di Arthur Penn, portando da Freud il mito del bandito «primordiale d'America». E sposa, dopo il divorzio con Jackie Witte (3 figli), l'attrice Joanne Woodward (altre tre figlie). Sarà coppia inossidabile, nonostante alcuni gravi lutti come la morte per troppi tranquillanti nell'alcol, nel 1978, del figlio Scott, sia sul set che fuori. Newman in 60 film, conquista 9 nomination agli Oscar, che vincerà solo nel 1986 («II colore dei soldi» di Martin Scorsese) dopo quello, di riparazione, «alla carriera» dell'86.. Dal 1982 ha fondato la Newman's Own, compagnia produttrice di alimenti e condimenti biologici, i cui proventi (250 milioni di dollari nel 2008) vengono devoluti quasi interamente in beneficienza e in finanziamenti per organizzazioni politiche progressiste e giornali di sinistra (come «The Nation»). Come regista firma opere di ricerca, dal corto «On the harmfulness of tobacco», ai lunghi «Rachel Rachel» (La prima volta di Jennifer, '68); «Never give a inch» (Sfida senza paura '71), sindacalisti troppo rigidi e boscaioli molto Whitman, con Henry Fonda; «Gli effetti dei raggi gamma sul comportamento delle margherite» ('72), «Harry & son» ('84) e «Zoo di vetro» ('87). Tra i successi indimenticabili di Newman primo periodo, «bello e dannato»: «La lunga estate calda» di Martin Ritt e «La gatta sul tetto che scotta» di Richard Brooks, da Tennesse Williams, candidato all'Oscar ('58), «Dalla terrazza» di Mark Robson, «Exodus» di Otto Preminger e «Lo spaccone» di Martin Ritt (seconda candidatura, '61), «La dolce ala della giovinezza» di Brooks, da Faulkner (premio a Cannes,'62), capolavori «cool». Attraverso «II sipario strappato» di Hitchcock, ('66), e «Lady L» del collega Peter Ustinov ('65) traghetterà il vecchio studio system nella «new Hollywood», sottoponendo generi e divismo a revisione e modernizzazione: dal western («L'oltraggio», '64 e «Hombre», '67), al genere sportivo («Indianapolis pista infernale» di Goldstone, '69), al catastrofico («L'inferno di cristallo» di Guillermin e Irwin Allen, '74). Il sodalizio con Stuart Rosenberg, formatosi alla scuola neorealista tv di Paddy Chayefski, da «Nick Mano fredda» (terza nomination), '69, a «Un uomo oggi» (1970) a «Per una manciata di soldi» ('72) è stata intensa e controcorrente quanto quello con Jack Smight («Harper», '66, «Guerra amore e fuga» '69), John Huston («L'uomo dai sette capestri» '72 e «L'agente speciale Mackintosh» '73) e a quella con Robert Altman («Buffalo Bill», '76 e «Quinte5 '79). L'interno stato maggiore del cinema progressista e liberal ha lavorato con lui: Petrie (Fort Apache the Bronx, 81); Pollack («Diritto di cronaca», '81), Lumet («Il verdetto», '82), Scorsese, Joffè («L'ombra di mille soli», '89), Ivory («Mr & Mrs. Bridge», '90), i Coen («Mister Hula Hoop», '94), Robert Benton («La vita a modo mio», '94 e «Twilight», '98) fino a Sam Mendes, «Era mio padre» (2002).

A CURA DELLA REDAZIONE

«La sua morte è stata privata e discreta così come era stata tutta la sua vita». La famiglia di Paul Newman lo ricorda a poche ore dalla scomparsa: «Nostro padre - hanno sottolineato le figlie - era un simbolo raro di umiltà e di altruismo». Il riferimento è l'attività di beneficenza spesa nel corso della sua carriera.
Ha poca voglia di parlare il suo partner e amico Robert Redford, in pellicole come «Butch Cassidy» e «La stangata»: «Ho perso un vero amico. C'è un momento in cui i sentimenti vanno oltre le parole. Ecco la mia vita, e quella di questa nazione, è stata migliore grazie a lui». Meryl Streep dice: «Mi mancherà Paul Newman, mancherà a ognuno di noi. Ha avuto una vita di cui andare orgogliosi, per la sua famiglia, il suo impegno benefico. Per tutta la vita ha dato milioni milioni e milioni di dollari a tante comunità. E poi c'è la sua carriera, che è indelebile».

GLORIA SATTA
Ciak

L'intervista alla Loren, che con il divo interpretò Lady L. , racconta: era gentile, timido, semplice.
L'amore per le corse il dolore per la morte dell'unico figlio maschio.
Il personaggio Dal '58 marito di Joanne Woodward
Giovani, belli, adorati dal pubblico, inseguiti da Hollywo od. Era fatale che Paul Newman e Sofia Loren (all'epoca Sophia) tinissero a far coppia su un set. Così nel '65 i due attori girarono il film Lady L. , ispirato al romanzone romantico di Roman Gary e diretto da Peter Ustinov. Oggi, la notizia della morte di Newman coglie Sofia di sorpresa: «Che dolore, che batosta», esclama la diva, impegnata a Londra nelle prove del musical di Rob Marshall Nine, nel duale interpreta la madre di Fellini.

GIORGIO CARBONE
Libero

Anche gli dèi muoiono, allora. Tra gli dèi dello schermo, Paul Newman sembrava quello più vicino ad acciuffare l'immortalità. Nei suoi 83 anni di vita gli era andato quasi tutto a meraviglia (carriera, amore, famiglia, simpatia da parte del resto del genere umano). Gli mancava solo l'eternità fisica. E invece è arrivata "a livella" come la chiamava Totò (che nonostante l'aspetto ridanciano aveva una concezione tragica della vita). La falce che decapita inesorabilmente tutti, giganti e nanetti.
Gigante (dello schermo) certamente Newman lo è stato per almeno 30 anni. Dalla sua prima candidatura (...) all'Oscar (per "Lassù qualcuno mi ama") alla sospirata, vittoria della statuetta nel 1988 ("Il colore dei soldi" di Scorsese). E il successivo ventennio, quello del tramonto è stato punteggiato di apparizioni sempre belle, sempre applaudite (il babbo di Kevin Costner in "Le parole che non t'ho detto", il boss mafioso di "Era mio padre").
Per la verità quando iniziò in cinema alla metà degli anni '50 nessuno era disposto a dargli gran fiducia. Veniva è vero dal mitico "Actors' studio" ma la strada sembrava sbarrata da due giganti della stessa provenienza: Marlon Brando e James Dean (che in privato mostravano una personalità più proterva, esplosiva di quella del tranquillo, professionale Paul). Ma Dean muore quasi subito sfracellandosi nella sua Porsche, e Brando comincia a farsi male da solo, piantando grane, rifiutando film, pretendendo compensi stratosferici.

JEAN-LUC DOUIN
Le Monde

Non sans humour, ce grand gaillard à corps félin, éclat viril et profil grec, avait imaginé ainsi son épitaphe : "Ci-gît Paul Newman, mort en raté car ses yeux sont devenus marron." Ce regard bleu qu'il avait franc, scrutateur, intègre, avait été en effet son handicap en même temps que son plus bel atout. C'est grâce à lui qu'il avait décroché son premier contrat de cinéma, pour un film en Technicolor. C'est à cause de lui que, considéré comme un pâle substitut de James Dean, une doublure fade de Marlon Brando, on le considéra un temps comme un beau gosse plutôt que comme un tempérament.
Atteint d'un cancer des poumons, mort vendredi 26 septembre à l'âge de 83 ans dans sa maison du Connecticut, Paul Newman était devenu une icône, le charmeur introverti pour lequel les femmes soupirent, le rêveur insoumis que les hommes admirent.
Né en 1925 dans l'Ohio d'un père juif d'origine allemande et d'une mère hongroise catholique, Paul Newman songeait à faire une carrière de footballeur lorsque la guerre l'a éloigné des stades. Sportif, il se passionnera pour la course automobile, participant plusieurs fois aux 24 Heures du Mans.

THOMAS SOTINEL
Le Monde

Des millions d'Américains ne connaissent qu'une image de Paul Newman : l'effigie coloriée qui orne les bouteilles de vinaigrette, les sachets de pop- corn ou les pots de sauce tomate de la marque Newman's Own. Un quart de siècle après sa fondation en 1982, cette petite entreprise a généré 250 millions de dollars de profit, une somme dont la totalité est allée à des fondations ou des associations caritatives.
Figure majeure du cinéma, Paul Newman restera également comme l'un des grands philanthropes de son époque, contribuant à inventer une manière de faire des affaires résumée dans la devise moqueuse de Newman's Own : "Exploitation éhontée dans le souci du bien commun". Newman et son partenaire en affaire, l'écrivain A. E. Hotchner, exploitaient donc sans vergogne la célébrité de l'acteur et sa valeur marchande, qu'ils avaient affectée à une ligne de produits gastronomiques dont la qualité était reconnue par la plupart des spécialistes.

OLIVIER SéGURET
Liberation

La filmographie de Paul Newman cinéaste tient sur les doigts de la main : cinq longs métrages, conçus entre 1968 et 1987. Ce quintet lui a cependant suffi pour acquérir dans cette sphère le respect comme metteur en scène.
Une couleur primaire domine cette œuvre brève : le lien. Tout part de lui et y revient. Le lien avec son épouse et actrice fétiche Joanne Woodward, qui joue dans quatre de ses films, et celui qui en découle : le lien familial qui forme le sujet monomane de son travail.
Indépendance. Rachel, Rachel (1968) est autant un film avec que sur Woodward. Portrait à la fois tendre et aigu d'une institutrice toujours célibataire ballottée entre une mère qui l'ennuie et un amant médiocre, le film va prendre à revers critique et profession de l'époque, qui n'imaginaient pas le placide acteur hanté par des univers aussi dysfonctionnels. Rachel, Rachel enregistre à sa façon cette proximité amoureuse très moderne entre les deux pôles qui orientent la caméra, l'œil du cinéaste et l'objet de son attention.

VALERIO CAPRARA
Il Mattino

Bilanci non ne ha mai fatti, progetti a lunga scadenza neppure e di scrivere le sue memorie non ha mai avuto l'intenzione. È stato troppo occupato a vivere, giorno per giorno, a tempo pieno. Costituiscono una bella e felice ricorrenza oggi gli ottant'anni di Paul Newman, ma non si può dire altrettanto per quei cinéfili (soprattutto coté femminile) che alla fine dei Sessanta si divisero, complice il trionfo di «Butch Cassidy», sulla palma del sex-appeal da assegnare a uno solo dei romantici banditi Newman & Redford. Fatto sta che, nostalgia canaglia a parte, il ragazzo-bene di Cleveland non ha mai perso un colpo, tutto ciò che ha fatto è stato sempre apprezzato: dalle corse d'auto che ha pazzamente adorato ai film che ha girato senza eccessiva presunzione. Bastava un fisico da sballo, con il profilo scolpito, il volto da statua romana, la bocca sensuale e lo sguardo blu illuminato dall'interno, capace di esprimere sottili sfumature d'emozione; anche se, in realtà, il suo dna professionale umano era e resta intellettuale o addirittura cerebrale («Mi hanno sempre fatto passare per un sex symbol. Io, che arrossisco, quando mi trovo in una situazione imbarazzante»). Per molti anni -i migliori della nostra vita, per tornare al dato generazionale- è stato più che un divo, l'attore di riferimento: ha riempito il vuoto causato dalla morte di Dean e Clift e dalla precoce auto-imbalsamazione di Brando, i tre attori più importanti emersi nel dopoguerra hollywoodiano non a caso accomunati dalla scuola dell'Actors Studio. Stiamo parlando, insomma, di un perfetto antieroe, di colui che ha impersonificato al meglio le ribellioni e le idiosincrasie dei tempi di cambiamento cantati dall'ugola arrochita di Bob Dylan. In privato devoto a militanti ideali progressisti e alla piena armonia familiare, Newman ha creato una galleria di personaggi indimenticabili perché unici e, al tempo stesso, comuni, ora mossi da una divorante ambizione, ora aggressivi, rozzi e virili, ora condannati a una desolata solitudine e al martirio personale. Incarnando i protagonisti di cult-movies come «Hombre» o «Nick mano fredda» ha fissato nell'immaginario collettivo la figura del ribelle nevrotico, dell'uomo ultra-sensibile, intelligente ma confuso, che decide per sopravvivere di «separarsi» dalla società e dalla sua falsa umanità e di rinchiudersi in un mondo interiore, in un guscio protettivo, pur continuando a trasmettere vibrazioni di giovinezza, buona volontà ed umorismo. Ha vinto solo nel 1986 l'Oscar per «Il colore dei soldi» di Scorsese, in cui fa peraltro rivivere il campione di biliardo interpretato nel remoto «Lo spaccone» di R. Rossen. Circostanza che spiega bene la continuità di una carriera, con la quale ha dominato le caratteristiche, i gesti, le espressioni, persino la maniera di muoversi suggeriti dalla sua personalità. Da «Lassù qualcuno mi ama» ('56) a «Furia selvaggia» ('58); da «La gatta sul tetto che scotta» ('58) a «Hud il selvaggio» ('63); da «Il sipario strappato» ('66) a «La stangata» ('73); da «Bronx, 41° distretto di polizia» ('81) a «Il verdetto» ('82): come in un'avventura virile senza regole, una corsa esistenziale a perdifiato, un faccia-a-faccia con le brutture e le bellezze del mondo e della psiche, sempre in delicato, virtuosistico equilibrio tra umorismo e tensione, voglia di amare o di farla finita, ossessioni claustrofobiche e dedizioni totali, genuine. Come regista non ha raggiunto margini d'eccellenza, anche se «La prima volta di Jennifer» ('68) e «Sfida senza paura» ('71) rientrano appieno nella misura professionale e, soprattutto, nell'eterna propensione antagonista. Sono pochissimi i divi veterani (pensiamo, per esempio, all'ultimo Brando) che riescono a non ridicolizzarsi nel concedersi ai cammei di cortesia... Ma quando il primissimo piano, radioso e sofferente, di Newman occupa l'inquadratura-clou di «Era mio padre» di S. Mendes, anche gli spettatori novizi sentono che sta riproducendosi l'antica, inarrestabile magia del cinema.

LIETTA TORNABUONI
La Stampa

Paul Newman, il divo bello e buono, sexy e serio, molto bravo, avrà ottant'anni il 26 gennaio e ha già il suo metodo per sconfiggere l'età e l'ombra della fine: semplicemente continuare a vivere come ha sempre vissuto, fare quello che ha sempre fatto, non introdurre nella vita una frattura ma garantirsi una continuità. Come prima, partecipa alle corse automobilistiche (ha una scuderia d'auto, alla 24 ore di Le Mans è arrivato secondo nel '79 su Porsche, ha vinto quattro titoli nella categoria Sports Car of America): poche settimane fa un'auto da corsa, un prorotipo appena sperimentato guidato da lui sul circuito di Daytona, s'è incendiato lasciandolo per fortuna illeso. Come prima, da democratico convinto e militante (anche nominato dal presidente Carter nel 1978 delegato americano alla conferenza Onu sul disarmo nucleare) ha contribuito alla campagna elettorale di John Kerry, accompagnando il candidato ai comizi, presentandolo agli elettori: e adesso lo rende furioso il continuo ricorso di Bush a un patriottismo d'accatto. Come prima, vive con la moglie Joanne Woodward (sono sposati da oltre quarant'anni, hanno tre figlie) a Westport, Connecticut, vicino al loro Westport Country, teatro dove lui ha recitato di recente «Piccola città» di Thornton Wilder, ripensando all'esordio in teatro a New York in «Picnic» di William Inge. Come prima, ha recitato benissimo per due film due personaggi (per lui rari) di capo, di padrone: un grande industriale maligno e malvagio in «Mister Hula Hoop» di Joel Coen, un boss mafioso irlandese paterno e sanguinario, affettuoso e ingiusto accanto a Tom Hanks in «Era mio padre» di Sam Mendes. La faccia bellissima appariva tirata e quasi lignea, ma i profondi occhi azzurri e il sorriso canzonatorio, sentimentale, avevano l'eloquenza di sempre. Come prima si occupa della Newman's Own, azienda alimentare di salse per spaghetti e per insalate, da lui creata con grandissimo successo per dedicare i profitti ad aiutare i bambini malati terminali e i tossicodipendenti (in memoria non cancellabile del figlio Scott, il minore dei tre maschi suoi e della prima moglie Jakie Witte, morto per overdose nel 1978). Come prima, lo turbano altri ricordi, oltre a quello di questo figlio amatissimo. Il tormento, durato tutta la vita, di avere poca statura, di essere piccolo: non piccolo come Dustin Hoffman né come Danny De Vito, però piccolo, fra tanti attori alti, allampanati. È il tormento di sentirsi considerato un eterno secondo, un rimpiazzo, una controfigura, un sostituto, un numero due di seconda scelta. Tormento scemo, quest'ultimo, nato agli inizi della carriera. Il primo film di Paul Newman è «Il calice d'argento» di Victor Saville, 1954, bizzarra storia epico-religiosa: il trentenne Newman sostituisce Marlon Brando che s'era ritirato all'ultimo minuto, il «New Yorker» scrive «Newman recita la sua parte con il fervore emotivo di un autista di autobus che annunci le fermate locali», lui giura di non interpretare mai più un film in costume e si mantiene fedele al giuramento. Il terzo film, «Lassù qualcuno mi ama» di Robert Wise, 1956, era previsto per James Dean, morto invece tragicamente: ma il personaggio del pugile italoamericano Rocco Barbella detto Rocky Graziano porta al sostituto Newman gran successo. Da allora, in film sempre migliori (non capolavori, ma perfetti) diventa fuorilegge, milionario, jazzista, giocatore professionista di biliardo, allevatore d'animali, imbroglione, detective, in personaggi spesso ispirati alla letteratura di Faulkner, Tennessee Williams, Gore Vidal, John O' Hara, Ross MacDonald. Sono degli Anni Sessanta i film che lo qualificano definitivamente come sex symbol: «La dolce ala della giovinezza» (per non parlare del precedente «La gatta sul tetto che scotta», con Liz Taylor), «Hud il selvaggio», «Detective Story», i due film in coppia con Robert Redford in un duo di banditi anarchici e anacronistici, «Butch Cassidy», «La stangata». Più tardi in «Bronx 41° distretto di polizia» offre una prova di bravura straordinaria; per «Il colore dei soldi» di Martin Scorsese con Tom Cruise ottiene finalmente il primo Oscar. I quattro cinque film di cui è stato direttamente regista non hanno invece lasciato forti tracce. Newman, faccia dai lineamenti classici, occhi meravigliosamente azzurri, irresistibile sorriso un po' beffardo e un po' cinico, ha seguito l'intero percorso delle star della sua generazione: famiglia benestante (padre commerciante ebreo tedesco, madre ungherese cattolica), studi universitari di arte drammatica, frequentazione dell'Actors Studio, debutto in teatro. Ma è stato diverso da tutti. L'unico che abbia fatto il militare e combattuto, imbarcato su una nave nel Pacifico durante la Seconda Guerra Mondiale. L'unico, in anni turbolenti, a non mostrare alcuna sregolatezza, a condurre un'esistenza ordinata e razionale, ad avere il fascino del divo e la misura del professionista: e ad essere bravissimo. Bisognerebbe ringraziarlo anche perché, con attenzione e autodisciplina, ha impedito al passare del tempo di devastarlo sino a renderlo irriconoscibile: così che anche adesso, come prima, si può ritrovare quell'espressione scherzosa e dolce che fece innamorare il mondo.

MICHELE ANSELMI
Ciak

Fece il clown per beneficenza e lo spot contro l'impotenza. E non imboccò il viale del tramonto.
«E chi sei… Paul Newman?». Certi modi di dire popolari custodiscono piccole/grandi verità. Sia che indichino un modello irraggiungibile (e di sicuro l'attore era un fuoriclasse baciato da bellezza e talento); sia che aiutino a ridimensionare l'ego di chi se la; tira, e di nuovo non è il caso di Newman, «spaccone» solo nella finzione.
In effetti, c'era qualcosa di speciale in questo uomo sensuale e intelligente; dotato di autoironia e tuttavia capace di fate le cose: sul serio senza prendersi sul serio. Nel 2001 i critici del Regno Unito l'avevano definito «Il migliore di tutti i tempi». Esagerando, naturalmente; perché certe graduatorie lasciano il tempo che trovano. Sean Connery non è meno bravo di Laurence Olivier; così come è a tutti chiaro quanto sbagliasse Sergio Leone nel definire Clint Eastwood interprete capace di due sole espressioni; «con cappello e senza cappello». Però, se metti l'uno dietro l'altro fatti e fatterelli, film e personaggi, atti e pronunciamenti, bisogna riconoscere che Paul Newman aveva una marcia in più rispetto a tanti colleghi hollywoodiani pur ricolmi di fascino e carisma,

EMANUELA MARTINI
Film TV

Ha sempre detto che sono diventato attore non perché spinto da passione irrefrenabile, ma per scappare da una vita di commerciante di articoli sportivi (l'attività del padre). Ma come attore ha studiato sodo, prima la scuola di recitazione di Yale, poi l'Actors' Studio, un po' di teatro e un testardo rodaggio cinematografico (nonostante il disastroso debutto, gonnellino e sandalone, nel tremendo Il calice d'argento), che l'ha portato subito in vetta scarruffato Rocky Graziano e ombroso Billy the Kid, spaccone perdente e icona, tra la fine dei 50 e i primi 60, del mélo cattivo, slabbrato e psicanalitico con cui Hollywood combatteva la crisi. All'inizio, dicevano che era un clone di Marlon Brando. Ma Paul Newman non ci mise molto a definire la propria personalità: altrettanta sensualità, ma tanta ironia che temperava la rabbia, origini quasi sempre proletarie, ma una classe innata che lo faceva ambire all'ascesa sociale, e poi la sfida costante che brillava negli occhi azzurri. Alla fine degli anni 60, era perfetto per la New Hollywood, per far da padrino sornione al nuovo astro Robert Redford, per dettare la sua legge in un West impazzito (il magnifico L'uomo dai sette capestri di Huston), per immergersi nella violenza, nei “colpi secchi”, nel disincanto dell'America che cambiava. Paul Newman ha saputo scegliere, ruoli, registi, e anche idee: non si è lasciato imbrigliare da una vita da star, dedito da sempre a cause umanitarie (che finanzia con i proventi dei suoi prodotti alimentari), da sempre convinto liberal, da sempre “umano”, nei dolori personali vissuti con dignità (il figlio suicida) e nei piaceri privati perseguiti con ostinazione (le corse automobilistiche)

FRANCO ZEFFIRELLI

PAUL Newman era l’uomo che tutti vorremmo essere. Un adorabile spaccone, certo. Ma quanto adorabile! Non solo bellissimo, bensì grande attore. Un artista che ha riempito di sogni la nostra giovinezza, un’icona fatta apposta per alimentare la testa dei ragazzi, che, si sa, nelle fantasie trovano il cibo migliore. Un eroe positivo: perché al di là dei personaggi, moltissimi e spesso fra loro diversi che ha interpretato, si è fatto conoscere nel mondo come ottima persona umana.

GIUSEPPE TORNATORE

CHI ERA Paul Newman? Un amico degli amanti del grande cinema. Un volto che rappresentava una garanzia. Un attore di classe. Intelligente, simpatico, affidabile. Se sul cartellone di un film, tra i nomi degli attori c’era il suo, sapevi che avresti visto un buon film. Bello di una bellezza invidiabile. Di solito gli uomini non invidiano i belli, ma quella di Paul Newman era una bellezza che si invidiava volentieri.

ORIANA FALLACI

Estate 1963. Newman accompagna alla Mostra del Cinema di Venezia il film «Hud il selvaggio», Oriana Fallaci lo incontra nella sua camera d'albergo.
Mi faccia un favore, signor Newman: si tolga quegli occhiali neri. Tra quegli occhiali e quella, barba da rabbino non sembra nemmeno lei. Ma perché va conciato così? Si direbbe, ceco, che lei abbia vergogna di sé, del suo perfettissimo viso. Coraggio, li tolga, non c'è mica nulla di male, sa, a essere belli. (Lentamente, svogliatamente, il divo si toglie gli occhiali, rivela assieme a uno sguardo doloroso, severo, due laghetti azzurri, impreziositi da pulviscoli d'oro. Gli occhi del divo, giunto a Venezia da New York per presenziare al Festival, sono bellissimi. Sono bellissimi; però, anche le orecchie, i denti, il naso, le mani. II divo, insomma è bellissimo tutto. E nella consapevolezza d'esser bellissimo siede, nel suo appartamento d'albergo, masticando chewing-gum).
«lo, quando mi dicono si tolga gli occhiali, voglio vedere i suoi occhi celesti, mi arrabbio come una bestia. Proprio come quando mi dicono lei è così bravo e poi ha due occhi talmente celesti. Si ha sempre l'impressione, a esser belli, che la gente ti accetti per ragioni sbagliate: insomma non perché tu sei tu ma perché sei bello. Tennessee Williams ha scritto molto su questo, sull'agghiacciante influenza che la bellezza fisica ha sugli altri in America. In Europa non so, forse è diverso, ma in America si chiede sempre a un uomo o a una donna d'essere belli e la pagana adorazione che si fa della bellezza ha qualcosa di anticristiano, di orrendo, e perché no? Di umiliante. Uno vorrebbe essere riconosciuto per ciò che ha fatto con sforzo, non perché è alto un metro e 90 e ha le gambe lunghe, il torace robusto, il naso greco, e gli occhi celesti. Che merito c'è a essere belli? La bellezza ce la regala la mamma, o il buon Dio: non si conquista. E questa odiosa esigenza del cinema, essere belli, dà una tale angoscia».
Non se la prenda, via: non si può aver tutto a questo mondo, e ciascuno ha la sua croce. Quanti anni ha signor Newman?
«Trentotto»:
Ecco, ancora dieci anni, 15 al massimo, e poi passerà: non ci penserà più. Certo li porta bene i suoi 38 anni.
«So che il mio corpo ha bisogno di tremila calorie giornaliere e non gliene fornisco una di più: distribuendo le tremila tra mille di cibo e duemila di latte di birra».
Porti- le mille a duemila, le duemila. A quattromila e la croce si alleggerirà ancora prima. Mi dica: è per questo che appare così diffidente e scontroso? L'ho osservato, sa, l'altra sera al Palazzo del Cinema: mentre assisteva con Martin Ritt, il regista, alla proiezione del suo film Hud il selvaggio. La gente applaudiva e lei, anziché ringraziare contento, si guardava le scarpe.
«Non solo. È che io non funziono bene tra la gente, gli applausi, la curiosità. Non a torto non vado mai ai festival: questa era la prima volta e sarà anche l'ultima. Per esempio: a me piace star sulla spiaggia, nuotare, e come si fa a star sulla spiaggia con quella folla che ti preme intorno e quei fotografi che ti seguono nell'acqua? Dà angoscia, imbarazzo: come quando, non so, devo andare al Chinese Theatre di Hollywood per la prima di un film e appena scendo dall'automobile la gente si mette a gridare. Una cosa è stare sul palcoscenico quando il sipario è abbassato e la gente ti applaude: ti applaude perché hai fatto uno sforzo, uri lavoro. Una cosa è scendere da un'automobile e ricevere applausi perché scendi da un'automobile: Vede, io ho sempre pensato che recitare non sia una professione creativa: creatore è chi scrive, non colui che interpreta. E questa glorificazione, -ingiustificata per colui che interpreta è perlomeno ridicola. Insomma su questo argomento io la penso come mia moglie, Joanne Woodward, che una voltami disse una cosa stupenda, davvero stupenda. Eravamo in Israele per girare Exodus e andavamo a mangiare nel ristorante dell'albergo ché ha una finestra lunga quanto l'intera parete, al livello del marciapiede. Bene: ogniqualvolta andavamo a mangiare trovavamo lungo quella finestra una fila di cento nasi schiacciati sul vetro, cento paia d'occhi che fissavano curiosi. Al terzo giorno Joanne disse: "Sai, Paul. Dopo questo, credo che non sarò più capace di andare allo zoo"».

LUCIANA CASTELLINA

L'ultima volta che ho incontrato alcuni dei superstiti della specie è stato a Caracas qual che anno fa, ad un raduno di intellettuali che credono ancora possibile un mondo diverso, carichi, anzi, di rinnovato entusiasmo per via del nuovo astro Chavez. Era la delegazione degli Stati uniti, capeggiata da Julie Robinson, moglie di Harry Belafonte. Con lei qualche vecchietto: poeta, scrittore, cineasta. Un paio di loro persino col basco blu dei volontari repubblicani nella guerra civile spagnola.
Era l'ala più estrema - anche alcuni comunisti - di un più largo arcipelago: quello della sinistra americana, mai arrivata a rappresentare una fetta significativa della popolazione americana, ma più consistente di quanto non si sia finito per credere qui da noi negli anni più recenti. Rilevante soprattutto durante il New Deal, di cui costituì il pilone di sinistra, supporto indispensabile ai difficili equilibri stabiliti da Roosevelt. Importante soprattutto a Hollywood, considerata - per il ruolo affidato al cinema - prima linea nella guerra antifascista, subito prima e durante la seconda guerra mondiale, una battaglia da combattere fuori ma anche dentro il proprio stesso paese, tentato di lasciare che il mondo andasse dove voleva. Alla fine massacrata dal maccartismo che portò molti dei suoi esponenti sul banco degli accusati.

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