BENJAMIN VOISIN, MA NON SOLO. ILLUSIONI PERDUTE È UN TRIONFO DI ATTORI

A colpi di scelte radicali, Xavier Giannoli rilegge la ‘commedia umana’ con un cast prodigioso. Dal 30 dicembre al cinema.

Marzia Gandolfi, venerdì 17 dicembre 2021 - Focus

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È un giovane attore dall’aspetto ancora fanciullesco a portare sulle spalle un film storico di due ore e trenta. Xavier Giannoli adatta Balzac e affida a Benjamin Voisin uno dei personaggi più emblematici della letteratura, Lucien de Rubempré. Piccolo poeta, cullato dalla speranza di diventare un giorno un grande scrittore, lascia la provincia per tentare la sua chance nella Parigi del XIX secolo. Benjamin Voisin, prodigiosa apparizione nell’estate vintage di François Ozon, non si tira indietro e accetta la sfida.

Se Illusioni perdute elude le rigidità del film in costume lo deve principalmente al suo interprete e a un parterre di attori imperiali al servizio di un terrificante teatro della crudeltà. Gérard Depardieu, Jean-François Stévenin (nel suo ultimo ruolo), André Marcon, Jeanne Balibar, Cécile de France, Salomé Dewaels, Xavier Dolan, Louis-Do de Lencquesaing, Vincent Lacoste fanno corona a un apprendistato senza sconti dentro un film di impressionante densità narrativa, cadenzato da brani di musica classica che ancorano il racconto alla sua epoca. Tra Bach e Rameau ‘risuona’ come un’evidenza il protagonista, sempre in campo, innocente e candido, esuberante e agile nel servire l’evoluzione di una giovane artista verso lo status di antieroe.

Illusioni perdute è un’opera risolutamente moderna, di cui il regista esplicita le ombre mettendo in scena con evidente giubilo la corruzione esercitata dal capitale sull’idealismo ingenuo di Lucien. Guidato da Étienne Lousteau nei corridoi di un mondo che giura sul profitto e sulla finzione, Lucien si fa presto “mercante di frasi e trafficante di parole”, fino a perdere la sua integrità e il suo avvenire. Mentore, prima di diventare antagonista acerrimo, Lousteau è incarnato da Vincent Lacoste, appena più grande di Voisin ma con già trenta film all’attivo e numerose proposte declinate alle spalle. Perché Lacoste è l’attore più richiesto della sua generazione, il cinema gli è piombato addosso all’improvviso e ha imparato presto a gestirne i capricci, preferendo lavorare in un film di Christophe Honoré che in una commedia popolare per cui sarebbe senza dubbio pagato meglio. La scaltrezza e la sensibilità cinéphile, che riposano sulla nonchalance e l’allure lunare della sua silhouette, gli hanno permesso di sopravvivere ancora adolescente nell’industria cinematografica, rendendolo perfetto nel ruolo dell’astuto e diabolico Lousteau, che ci rivela con letizia gli arcani del giornalismo nascente.

In coppia, Voisin e Lacoste fanno scintille, più complici che rivali, oscillando tra umorismo e tradimento. Ma la chimica è alta ed evidente con tutti gli attori in campo perché Benjamin Voisin ha una freschezza che anima i compagni della commedia umana balzacienne, li provoca, li scuote. Che si tratti del triangolo sentimentale con Cécile de France e Salomé Dewaels, che dona al film tutto il suo romanticismo, o degli scambi ruvidi con Gérard Depardieu, che tuona come un temporale nei panni dell’editore Dauriat, il giovane interprete rivela un istinto animale dietro la faccia d’angelo.

Con buona pace dei puristi, Giannoli modifica, trasferisce, introduce o elimina nomi, un’idea luminosa di distribuzione dei ruoli che riattualizza i propositi di cui i personaggi sono portatori, lasciando immutato l’essenziale. L’idea più brillante è quella di affidare a Xavier Dolan il personaggio immaginario di Nathan Anastasio, il protégé dell’editore illetterato di Depardieu. L’autore sceglie per il ruolo un’icona della sua epoca ma anche un attore e un regista di un’intensità quasi intollerabile che dona una vibrazione supplementare al personaggio. Condensando due caratteri, il giornalista Raoul Nathan e lo scrittore Daniel d’Arthez, Nathan Anastasio incarna la virtù e la coscienza di Lucien, assolvendo anche il ruolo di narratore onnisciente attraverso una voce off onnipresente.
 

Magnifico e prolifico ‘secondo ruolo’ del cinema francese, ma pure regista di audacia narrativa e formale, Jean-François Stévenin si offre in un ultimo beau plan de cinéma e nel costume del terribile e venale Singali, che incarna da solo l’essenza di una pratica illecita: fischiare un’opera anche se meritevole, soprattutto se meritevole. Un altro personaggio mirabilmente ‘aggiustato’ da Giannoli, che ne fa un chef de claque di crudeltà e cinismo, un burattinaio nell’ombra che trascina di teatro in teatro i suoi figuranti impietosi. Una corte di fischiatori professionisti che si vendono al miglior offerente. Con un fischio o un applauso fanno e disfano destini. Nella Francia della Restaurazione non è l’ispirazione poetica a contare, rimpiazzata dalla polemica e dalla stroncatura spettacolare. Questa critica al giornalismo, che disegna la minaccia della parola che si fa merce, è al cuore delle “illusioni perdute” di Balzac, toujour moderno.

Benjamin Voisin, belle gueule e volto inquieto che può sostenere il ridicolo di una coiffure ‘gonfiata’ come l’ego, è il corpo che le cristallizza, inciampando nel desiderio di riuscita e nel determinismo sociale. Costantemente in movimento, come se niente potesse fermarlo o fermare i passanti in promenade, i cavalli e le carrozze lanciate sulla strada e tra la folla, i giornalisti nelle redazioni o nelle fabbriche di carta in cui irrompono brandendo testi da stampare all’istante, il film di Giannoli riattiva il grande romanzo di Balzac. Complice la virtuosità dei suoi attori, tutti nessuno escluso, portati dalla fluidità del ritmo e da un tourbillon permanente di feste e di sfarzo, di parole e di calunnia, di impostura e di postura. In compagnia di una pleiade di artisti effervescenti e ispirati, che interpretano ‘alla lettera’ Balzac e lo reinventano insieme, Benjamin Voisin conferma un’anima d’enfant e un’urgenza ideale per le storie universali. Storie di amore o di scacco.

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