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Detroit e il rapporto tra cineasta e storia

Kathryn Bigelow tocca nervi scoperti del dibattito statunitense ma realizza un'opera dimostrativa e pedagogica.
di Roy Menarini

Detroit

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John Boyega (32 anni) 17 marzo 1992, Londra (Gran Bretagna) - Pesci. Interpreta Dismukes nel film di Kathryn Bigelow Detroit.
domenica 26 novembre 2017 - Focus

Come tutti i film che danno fin troppe risposte, Detroit (guarda la video recensione) di Kathryn Bigelow ci aiuta in verità a formulare molte domande. Una di queste è il rapporto tra cineasta e storia. Bigelow è una regista a forte tasso di politicizzazione. Provenendo dall'ambito dell'arte visuale, ha fin dagli esordi cercato di trasportare a Hollywood uno sguardo d'artista inquieta, dove immettere - pur dentro ampi congegni spettacolari - riflessioni e spunti sul maschile e sul femminile.
Autrice controversa (basti pensare alle letture di segno opposto che ha sortito The Hurt Locker, in verità un trattatello antropologico sulla guerra e i suoi effetti sull'identità del combattente), con Zero Dark Thirty ha forse toccato l'apice di un cinema che non ha paura di tuffarsi nelle contraddizioni del presente e nelle questioni più spinose: di quel film piaceva non solo la coraggiosa e formidabile protagonista, ma anche il rifiuto di fare il solito pamphlet indignato sulla sporca guerra al terrore per privilegiare invece l'anatomia di una caccia all'uomo, con tutte le sue brutali aporie. Ecco perché oggi, di fronte a Detroit, si rimane con gli interrogativi di cui sopra.

Possibile che una regista così attenta all'analisi, anche politicamente "scorretta", delle vicende statunitensi, abbia sentito il bisogno di un'opera così dimostrativa e pedagogica? Era davvero necessario porre la narrazione in termini tanto elementari ed esplicativi (lasciano talvolta esterrefatti certi dialoghi di pura funzione didascalica)?
Roy Menarini

O forse, dopo che in Strange Days aveva immaginato per il suo Paese (senza sbagliare) un futuro ancora fortemente segnato dalle tensioni razziali, ora ha sentito il bisogno di studiarne le origini? E dunque di inserirsi nel solco del cinema di denuncia alla Paul Greengrass?
A queste domande risponderanno i posteri, per ora si tratta solamente di sfumature critiche. Ci interessa di più citare una questione a margine, che ha investito il film. Detroit è stato un insuccesso imprevisto negli Stati Uniti. L'esito non eccezionale ha sorpreso tutti, visto che la materia purtroppo è viva e vegeta in questi mesi nella nazione americana. Ed è riemersa la vecchia questione: può una regista bianca e borghese raccontare la persecuzione ai danni degli afroamericani negli anni Sessanta? È legittimata a farsi cantastorie di una comunità con la quale non ha spartito nulla nel corso della sua vita? È possibile che il pubblico afroamericano abbia percepito come insincera l'intera operazione?
Il tema è spinoso, anche perché si rischia di attribuire alla razza (bianca in questo caso) uno stigma culturale che si basa su presupposti etnici o biologici: come se nessun non ebreo potesse raccontare la Shoah o nessuno non indiano potesse raccontare il colonialismo inglese in quelle terre, e così via.


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