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Manhattan: da Allen a Trump a noi

Presentato dalla Cineteca di Bologna in edizione restaurata, il film è tornato in sala a 38 anni dall'uscita. Un'intramontabile antologia della migliore satira di Allen.
di Pino Farinotti

Woody Allen (Allan Stewart Konigsberg) (88 anni) 1 dicembre 1935, New York City (New York - USA) - Sagittario. Regista del film Manhattan.
martedì 30 maggio 2017 - Focus

Dopo 38 anni è tornato nelle sale, restaurato, Manhattan, il film di Woody Allen. Se dici "è il più bello" non basta, occorrono almeno altri due aggettivi, il più felice e il più importante. E ancora: è il film dove Woody è più Woody. Allen lo girò nel 1979. Se il confronto si fa in chiave temporale, non c'è dubbio che quella New York fosse più felice di questa. Ma fra le due voglio inserire una memoria, importante. Di un'altra New York, quella degli anni cinquanta. La citazione è di un editoriale che ho scritto qualche settimana fa.

New York stava per diventare una città guida del mondo, omologabile a Parigi degli anni venti, alla Vienna fin de siècle e alla Londra vittoriana. Esprimeva rivoluzioni nella pittura, nella musica pop e nella moda. Riprendeva vita l'editoria, la pubblicità faceva il salto di qualità. La televisione metteva in onda drammi in diretta. Broadway rappresentava gente come Miller, Inge e Williams e musical travolgenti. Il New Yorker ospitava le più prestigiose firme della letteratura.
Pino Farinotti

Ecco, quella città era un modello del mondo. Quella di Allen era la sua personale coscienza e poetica, due lemmi che raccolgono tutti i tic dell'artista ebreo. Tic buoni e cattivi. Nel film Allen compone un'antologia della migliore intelligenza, satira, ironia, ingenuità, amori-sempre-complicati, humour triste, col denominatore di un'estetica rapinosa, anche estetica musicale, se tutto il film è accompagnato dalla musica di George Gershwin. Per cominciare, l'incipit. La voice over, dopo vari tentativi retorici e ridondanti racconta: "New York era la sua città, e lo sarebbe sempre stata." Indimenticabile è la sequenza dove Allen e Diane Keaton, seduti su una panchina di Sutton Place guardano, all'alba, il Queesboro Bridge. Lui dice: "Questa è davvero una grande città, non mi importa di quello che dicono gli altri."


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Un'immagine dal film Manhattan
Un'immagine dal film Manhattan
Un'immagine dal film Manhattan

Erano gli anni delle mostre concettuali non ancora completamente metabolizzate. In una galleria Woody incontra Diane Keaton, intellettuale insopportabile che lo costringe a dibattere sul niente. Lei ha concepito un'accademia dei sopravvalutati: "... ci ho messo Gustav Malher, Scott Fitzgerald, Bergman, Norman Mailer..." Lui ribatte "E Mozart, non puoi lasciare fuori Mozart, già che sei a buttarli via..." Parole di quella Manhattan di Allen che può essere adottata come spunto, un abbrivio, un canto su quella città.
C'è la New York di Donald Trump, per esempio, ma merita meno spazio. La ricchezza del magnate, puro newyorkese come Allen, davvero si scontra con la ricchezza dell'artista. Sarebbe come contrapporre, da noi, Cattelan con Briatore. Trump dove lo incroci? Nella Trump Tower, che ospita la sua organizzazione dove sgambettano ragazze, e signore, in gonne cortissime, gambe e sederi perfetti, chirurgici, e dove i rampanti usano tre cellulari per volta. Trump è quello delle towers. La Trump Tower, città nella città, con negozi, caffè, uffici e set televisivi. La Trump Building, a Wall Street. E poi la Trump World Tower nella zona delle Nazioni Unite, come a contrastare il Palazzo di vetro. Davvero una New York diversa da quella di Woody. "Tower" richiama la tragedia che sappiamo, che ha cambiato l'America e il mondo. In attesa di una tragedia forse ancora peggiore, quella della Lehman Brothers. Tutta roba di N.Y.
Nel 2011, a dieci anni dall'11 settembre, ho avuto l'incarico, dalla Provincia di Milano, di fare un filmato, nel quadro di quella commemorazione. In presenza di una delegazione di New York è stato proiettato nel palazzo di via Conservatorio. Il film dedica pochi secondi alle torri che si sfasciano. Intendevo invece raccontare un promemoria del set strepitoso, unico, che era stato New York fino ad allora. E che, dopo le "torri", deturpato nell'estetica e nella memoria, non avrebbe più potuto essere.

Alcune della sequenze: Audrey Hepburn davanti a Tiffany; Kelly e Sinatra che ballano sui tetti in Un giorno a New York; i giovani scatenati di West Side Story; Chaplin re di N.Y; la Wall Street di Gordon Gekko; Harvey Keitel che fotografa la sua tabaccheria in Smoke: Brando di Fronte del Porto, Pacino di Serpico, De Niro e Minnelli di New York, New York; Redford e Streisand in Come eravamo; Paul Newman di Lassù qualcuno mi ama; Tyrone Power/Eddie Duchin, il pianista storico del Waldorf Astoria; Tom Hanks e Meg Ryan di C'è posta per te; oltre al resto. Il film terminava con l'ultima sequenza di Manhattan di Allen, sotto i fuochi d'artificio, un alto simbolo di quel posto, di quel grumo che racchiude tutte le cose delle civiltà.
Pino Farinotti

Nella sala della Provincia c'era un silenzio impressionante. Molti piangevano. Da allora anche Woody si è, in parte, astenuto da N.Y. E' andato a Londra, Parigi, Barcellona, Venezia, Roma. Anche se rimane un manhattiano. Ma siamo tutti manhattiani. Una memoria e una coscienza che si sono collocate nel nostro profondo grazie a quella Manhattan del film restaurato. Che prevale per la grazia del suo poeta. Ma voglio chiudere con una citazione nobile, un canto di Scott Fitzgerald, uomo del middle west, che nell'ultima pagina del Grande Gatsby evoca Manhattan: "E mentre la luna si levava più alta, le inutili case cominciarono a confondersi gradualmente finché non mi resi conto dell'antica isola che spuntò davanti agli occhi dei marinai olandesi... per un attimo transitorio e incantato l'uomo doveva aver trattenuto il respiro alla presenza di questo continente, faccia a faccia per l'ultima volta nella storia con qualcosa commisurato alla sua capacità di meraviglia."


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