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Il Premio Nobel Bob Dylan e il cinema

Il rapporto di Dylan con il cinema è quello di un amore non corrisposto, ma non si può mai dire.
di Rudy Salvagnini

In foto Bob Dylan, a cui è stato conferito il Premio Nobel per la Letteratura.
martedì 18 ottobre 2016 - Approfondimenti

Il conferimento del Premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan è stato accolto da un generale plauso (anche da parte di qualcuno tra quelli che erano stati pronosticati quali possibili vincitori), ma anche dalle critiche di alcuni custodi dell'ortodossia che hanno eccepito che le canzoni non sono letteratura. Piccole cose, ma che ci ricordano come Dylan sia spesso stato oggetto di controversia. Anche nel suo campo d'elezione, quello musicale. Basti pensare ai fischi e alle contestazioni cui è andato incontro ai tempi della famosa "svolta elettrica" del Festival di Newport nel 1965 (e del successivo tour mondiale del '66) quando indispettì i puristi del folk e della canzone di protesta abbracciando il rock. O ricordare le sentite disapprovazioni che accompagnarono i tour della svolta "cristiana" nel 1979 e 1980. Polemiche e riprovazioni non l'hanno mai smosso dalle sue convinzioni.

Ma l'ambito, secondario ma non irrilevante all'interno della sua opera (che, ricordiamolo, comprende anche pittura e scultura, tra le altre cose), in cui le controversie "critiche" sono state maggiori è sicuramente quello cinematografico. Si tende a dimenticarlo, ma col cinema Bob Dylan ha avuto un forte rapporto di amore/odio che l'ha portato a occuparsene svariate volte con maggiore o minore impegno. Dopo i primissimi approcci per così dire "periferici", con il ruolo da attore "non parlante ma cantante" nel dramma televisivo per la BBC, The Madhouse on Castle Street (1963), diretto da Philip Saville, Dylan, all'apice della fama, diventa il protagonista dell'epocale documentario Don't Look Back (1967), sulla sua tournée inglese, ancora "chitarra e armonica".
Rudy Salvagnini

D.A. Pennebaker, che ne è il regista, inventa il documentario rock, tra cinéma vérité e arditezze stilistiche: il film diventa la pietra di paragone, il paradigma per tutto quello che è successo dopo nel campo e restituisce in modo mirabile la grandezza e le asperità del Dylan dell'epoca. Proprio questa esperienza spinge Dylan alla sua prima regia. Servendosi di Pennebaker quale operatore, Dylan filma il "suo" documentario sul nuovo tour (del 1966), stavolta elettrico e dirompente (è il tour nel quale parte del pubblico lo accusa di essere "Judas", il traditore). Il risultato è Eat the Document (1971), del tutto diverso da Don't Look Back: allucinato, psichedelico, inventivo, sconnesso e per certi versi "poetico", è così sperimentale che la rete televisiva che l'aveva commissionato non lo trasmette. È il primo segnale di un'incompatibilità che tornerà a manifestarsi.
Le velleità cinematografiche vengono messe da parte, ma, dopo la partecipazione al film concerto per il Bangladesh, Dylan, interessato a toccare con mano come funziona la macchina filmica hollywoodiana, accetta di scrivere la colonna sonora (ne nascerà la sempiterna "Knockin' on Heaven's Door") e di interpretare una parte nel western Pat Garrett & Billy the Kid (1973) di Sam Peckinpah. Il film, a posteriori giudicato un capolavoro, è un flop commerciale ed è poco gradito dai critici. Il ruolo di Bob Dylan - il suo personaggio si chiama, non a caso, Alias - è marginale, ma non trascurabile. Dylan lo interpreta in modo quasi chapliniano e con molto autoironia, considerando la sua caratura di "profeta" della sua generazione. Ma soprattutto Dylan è testimone delle furibonde liti di Peckinpah con la produzione e del massacro finale del film, che viene distribuito in una versione pesantemente alterata nel montaggio (solo molti anni dopo si arriverà a qualche contemperamento, cercando di ripristinare la visione originale del grande regista).


In foto il Presidente degli Stati Uniti d'America conferisce a Bob Dylan la Medaglia della Libertà.
In foto Bob Dylan in un recente concerto di beneficenza in Spagna.
In foto un'immagine del 1984 di Bob Dylan.

Dylan capisce che a Hollywood non potrebbe essere libero nella sua creatività. Vuole però comunque realizzare il "suo" film, perciò lo produce da solo, pagandolo di tasca propria. Il risultato è il colossale Renaldo & Clara (1978), che nella versione originale dura quattro ore ed è una sorta di autobiografia trasfigurata in cui il personaggio di Bob Dylan è interpretato dal cantante rock Ronnie Hawkins e Dylan interpreta invece il surreale Renaldo, accompagnato dalla moglie Sara nel ruolo di Clara e da Joan Baez in quello della Donna in Bianco, assieme a un variopinto stuolo di persone e personaggi, da Allen Ginsberg a Sam Shepard. Frantumato, ma coerente, ricco di grande musica, ma anche di frammenti narrativi che nella loro poetica cripticità richiamano anche il suo unico lavoro di narrativa (il "romanzo" Tarantula), il film è letteralmente massacrato dalla critica che lo considera un prolungato ed estenuante ego-trip senza approfondire e apprezzare le tematiche sottese e lo svolgimento inconsueto e innovativo. Dylan subisce il colpo: il film viene dapprima redistribuito in versione ridotta e poi ritirato dalla circolazione. Non uscirà più, neanche in home video.

Quando torna al cinema, Dylan lo fa in modo dimesso, senza prendersi alcuna responsabilità, accettando un ben pagato ruolo come attore in Hearts of Fire (1987), diretto da Richard Marquand, il regista de Il ritorno dello Jedi. Nel film, Dylan interpreta un cantante rock caduto in disgrazia, un has-been. La gestazione del film è caotica (la trama inizialmente doveva essere del tutto diversa) e l'esito è assai modesto: una banale rivisitazione rock di è nata una stella con tanto di triangolo amoroso tra Dylan, una certa Fiona e Rupert Everett (che qui dà il peggio di sé). Paradossalmente, viste le sperimentate professionalità all'opera, la cosa migliore è la recitazione del "dilettante" Bob Dylan che conferisce una caratura notevole a un ruolo banale che poteva assurgere a qualche significato solo se interpretato da lui.
Rudy Salvagnini

Dopo questo nuovo smacco commerciale, vissuto comunque da "esterno", Dylan si allontana dal cinema e vi ritorna solo come autore di canzoni, una delle quali ("Things Have Changed"), scritta per il film Wonder Boys del recentemente scomparso Curtis Hanson, vince l'Oscar per la categoria. Forse è quel successo a spingere Dylan a tentare un'altra volta. Pensa dapprima a un film comico, ma poi vira su un film satirico-grottesco-drammatico, Masked and Anonymous (2003), aiutato dal regista Larry Charles (proveniente dai successi della serie Tv Seinfeld e destinato a diventare il regista dei film di Sacha Baron Cohen, da Borat in poi). Per non suscitare troppe aspettative e non alzare la pressione, Dylan firma la sceneggiatura con uno pseudonimo e finge di fare solo l'attore. In realtà, il film è permeato dalla sua personalità, è chiaramente suo. Masked and Anonymous è bizzarro, inquieto, uno sguardo apocalittico e sarcastico sul futuro dell'America, visto come un paese degradato, disgregato e dittatoriale, nel quale un cantante rock in disarmo e addirittura in prigione (Jack Fate/Bob Dylan) viene liberato perché si esibisca in un fasullo concerto di beneficenza che dovrebbe salvare la nazione. Molti gli spunti, molti gli strali, forse troppo il materiale per un film solo, ma Masked and Anonymous, benché come al solito demolito da gran parte della critica, è interessante e vivace. Il cast è composito e a suo modo eccezionale - da Jeff Bridges a Jessica Lange, John Goodman, Val Kilmer e altri ancora - con molti degli attori che hanno fatto di tutto pur di partecipare a un film con Dylan. Da noi il film è uscito solo in dvd. Da allora solo qualche interessante incursione nei video-clip: ultimamente, trovando un valido alleato nel regista-stuntman Nash Edgerton, Dylan ha inanellato prove curiose e riuscite, come nell'esilarante Must Be Santa e nel cattivissimo Duquesne Whistle.
Il rapporto di Dylan con il cinema è quello di un amore non corrisposto, ma non si può mai dire. L'unica cosa certa è forse che, diversamente dal Nobel, Dylan non riceverà mai l'Oscar alla carriera.


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