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Café Society, l'opera in cui Woody Allen offre il massimo di sé

La terza età ha portato in dote al regista una consapevolezza di cineasta, una eleganza profonda e non esteriore e una capacità narrativa incessante.
di Roy Menarini

Café Society

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In foto Jesse Einsenberg e Kristen Stewart, protagonisti del film Café Society di Woody Allen. Al cinema.
lunedì 3 ottobre 2016 - Focus

Tra le tante classificazioni interne della ormai enciclopedica filmografia di Woody Allen, risuona raramente quella che distingue i film in costume dai film contemporanei. Pur essendo vero che il maggior incasso di Allen a tutt'oggi - Midnight in Paris - ha fatto incontrare le due sottocategorie grazie a uno stratagemma, di solito il regista newyorkese tende a distinguere abbastanza chiaramente i due universi.

L'Allen in costume è apparentemente più posato, calligrafico, immette l'umorismo ebraico in contesti dove la storia della società americana contraddice sé stessa, mostra le sue vocazioni culturali, esprime al tempo stesso il motivo per cui vale la pena vivere e le radici del pessimismo alleniano.
Roy Menarini

Alcuni di questi titoli - Amore e guerra, per esempio - mostrano più che altro la capacità parodizzante del coltissimo Woody dei primi tempi; altri - come Una commedia sexy in una notte di mezza estate o La rosa purpurea del Cairo - trovano negli anni Venti un'atmosfera di "magica disillusione" struggente (che torna, sia pure in tono decisamente minore, con Magic in the Moonlight); altri ancora - come Pallottole su Broadway o Accordi e disaccordi - analizzano attraverso il prisma dell'industria culturale i rapporti di forza che dalla società si trasferiscono nell'arte, con gli esiti paradossali che Allen ha sempre saputo esprimere in modo geniale.


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In foto una scena del film Café Society.
In foto una scena del film Café Society.
In foto una scena del film Café Society.

Café Society torna di nuovo agli anni Trenta. E lo fa con la perizia che l'autore ottantenne ottiene quasi naturalmente - anche se poi si scopre che tanto fuori dal mondo contemporaneo il buon Woody non è, se è vero che i suoi film (soprattutto questo) sono diventati un must per gli appassionati di moda, che vi trovano collaborazioni altisonanti (Chanel) e spunti vintage di gran classe. E se è vero che usa - per la prima volta, tra l'altro - il digitale con una ricchezza spettacolare, alimentata anche dai colori di Vittorio Storaro.

Intinto di una malinconia che emerge via via, Café Society rappresenta uno di quei film in cui Allen offre il massimo di sé, in cui crede particolarmente: tanto trasparente è diventata la sua filmografia agli appassionati, che la differenza tra progetti standard e opere su cui il regista investe emotivamente si svela quasi senza pudore. Ed è proprio qui lo scarto infinito che Allen porta nel suo cinema, quello per cui contemporaneamente gira sempre lo stesso film (ed essendo un bel film, non c'è nulla di male) e quello per cui ogni volta la sensazione è che tutto stia portando verso un luogo diverso.
Roy Menarini

Ridendo e scherzando, mentre i pifferai magici cui Woody sta antipatico cantano il suo tramonto ormai da fine anni Ottanta (ma lui continua, e spesso di loro non si è più sentito parlare), si scopre che questo cineasta ha sperimentato il colore e il bianco e nero, la camera a mano e la classicità, il calco bergmaniano e la parodia demenziale, l'espressionismo e il fellinismo, il mockumentary e il film a episodi, e non finisce di mettersi in gioco anche ora: il cinema digitale è completamente differente dalla pellicola quanto a ripresa, spazi, resa visuale e così via. Non bastasse, lo ritroviamo dietro alla macchina da presa con una serie televisiva in sei episodi per il servizio streaming online di Amazon (Crisis in Six Scenes).

Alla faccia della pigrizia e della conservazione. Come per Clint Eastwood in tutt'altro contesto, la terza età ha portato in dote a Woody Allen una consapevolezza di cineasta, una eleganza profonda e non esteriore, una capacità narrativa incessante, insomma un amore per il cinema che forse sovrasta persino quello dell'epoca dei capolavori, tra anni Settanta e Ottanta. E se pellicole come La La Land raccontano la stessa storia di Café Society, solo in abiti contemporanei, non è affatto detto che il più innovativo sia il più anagraficamente giovane dei due film.


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