Padre Cataldo di Liberami è solo l'ultimo di tanti personaggi che il cinema narrativo italiano non avrebbe saputo dipingere.
di Roy Menarini
Se è maledettamente difficile distribuire e far circolare in pubblico i documentari italiani - produzione di pregio che non accenna a diminuire di intensità nel nostro paese - risulta ancora più complicato far capire agli spettatori più generalisti la differenza tra un reportage, un lavoro di analisi, un'opera poetica o il cosiddetto cinema del reale.
L'uscita di Liberami - che segue di poco la distribuzione di Spira Mirabilis (tanto per dimostrare quante diverse operazioni poetiche e contemplative si possano realizzare sotto l'insufficiente ombrello terminologico del documentario) - rafforza il concetto del cinema del reale.
Numerosi dibattiti, articoli e pubblicazioni hanno affrontato l'argomento, ma noi cerchiamo di farla breve: un cinema che nutre profonde radici nella realtà, a cominciare da persone, territori, cronache e che da esse comincia un'esplorazione in alcuni casi antropologica e in altri pienamente narrativa, dove gli steccati con la finzione traballano. Al centro, la convinzione che il cinema stesso possa essere messo in gioco, nella sua temporalità, veridicità, linguaggio e confini estetici.
Liberami, con la sua indagine del fenomeno degli esorcismi nel Sud Italia, non pretende di mettere in crisi gli statuti di verità e finzione, prassi invece consueta per esempio nei film di Roberto Minervini, dove lo spettatore deve fare perennemente scelte di campo e accordare fiducia al narratore. Federica Di Giacomo opta per l'analisi del personaggio del guaritore dal demonio, figura che il cinema dell'orrore e del soprannaturale ha spinto all'estremo dell'iconicità e che dunque deve essere calata nel mondo reale - oltre che spogliata del suo epos fantastico. Operazione perfettamente riuscita, perché padre Cataldo diviene via via il catalizzatore di un universo nascosto e sotterraneo, assai più diffuso di quel che crediamo, e al tempo stesso legato al contemporaneo in modo indissolubile.
Padre Cataldo, grazie al carattere pugnace ed instancabile, offre la cura a un disagio dei nostri tempi, che si colora di irrazionale e religioso per colmare un'assenza (lo Stato, la convivenza civile, la scienza medica) percepita come incolmabile.
Padre Cataldo, nel suo indicibile mix di umanità e inganno, si presta a momenti ambigui, lugubri, così come a situazioni grottesche - l'esorcismo per telefono è un momento che verrebbe invidiato dai padri della commedia all'italiana. Proprio questa sequenza, insieme alle molte altre che costruiscono un personaggio vero e proprio, spinge a sottolineare come il cinema del reale sia prodigo di protagonisti che il cinema italiano narrativo, mainstream, non riesce (o riesce raramente) a dipingere.
Quando Sacro GRA di Gianfranco Rosi vinse il Leone d'Oro alla Mostra del Cinema di Venezia, venne automatico paragonarne i personaggi freak e dropout al cinema grottesco di Sorrentino, pur essendo i primi figure pescate dal regista in anni di osservazione "partecipata" sul grande raccordo anulare. Nei film di Pietro Marcello, questa capacità di sfondare la linea del reale per accedere a una dimensione romanzesca e cosmogonica del personaggio è connaturata all'autore: i due struggenti protagonisti di La bocca del lupo e l'Angelo del Carditello (alias Tommaso Cestrone) di Bella e perduta sono esempi mirabili. Anche i personaggi di Alberto Fasulo si muovono nel reticolo del cinema del reale (in TIR il personaggio del camionista, basato su ricerche accurate e ricostruzioni documentarie, viene interpretato da un attore costretto a prendere la patente di guida per veicoli pesanti), ampliando il compasso di quel che della società italiana - attraverso i personaggi "non fiction" - riusciamo a conoscere. E gli esempi potrebbero continuare a lungo, a volte con esiti di eccezionale intensità (
Ovviamente si fa strada il rischio che il cinema del reale diventi una moda e già ora - talvolta - si vedono progetti basati solo sulla bizzarria delle persone immortalate, sull'originalità del loro mestiere, e senza grandi riflessioni sul mezzo cinematografico, presenti invece nei titoli e nei cineasti elencati.
Il cinema del reale necessita insomma di una teorizzazione forte, e di riprocessarsi di continuo, anche durante la (spesso lunga) gestazione dei film, proprio come in Liberami che - entrando in un imprevedibile e fertile corto circuito tra il cinema antropologico ispirato da Ernesto De Martino, come i film di Luigi Di Gianni o Gianfranco Mingozzi, e il cinema dell'occulto statunitense - rovescia il tavolo della facili attese dello spettatore e mostra di aver trionfato nella sezione Orizzonti per meriti indiscutibili.