di Gabriele Niola
Quando Better Call Saul è arrivata, a tutti i reduci del finale di Breaking Bad appariva come il metadone, la droga palliativo da assumere in assenza di quella vera. Ne prendeva un personaggio comprimario, per quanto di lusso, come l'avvocato scalcinato Saul e ne espandeva l'universo.
Better Call Saul è nata come uno spin-off che prometteva di raccontare il mondo di Breaking Bad prima dell'inizio della serie ufficiale, con in più l'idea non scema di poter affrontare diverse storie seguendo i casi di un avvocato.
Il risultato è andato ben oltre qualsiasi premessa e Better Call Saul, ora solidamente alla seconda stagione, è diventata una certezza che promette di inseguire Breaking Bad sul suo medesimo territorio, come si renderà conto chiunque voglia iniziare a vederlo ora che è tutto su Netflix.
Al centro c'è Bob Odenkirk, attore emerso proprio con il ruolo di Saul, geniale trasformista che ha fatto da spalla a Bryan Cranston e Aaron Paul conquistandosi un posto d'onore. Perché Saul ha da sempre avuto a che fare con l'ambiente più dei veri protagonisti, già nella serie principale i segmenti riguardanti il suo studio erano un tripudio di piccoli casi, dettagli e un'umanità straordinaria.
Immaginato anche per essere una specie di paradossale linea comica in una serie molto drammatica e di tensione, Better Call Saul ha acquistato nel tempo una complessità straordinaria per la quale non si può non rendere merito al suo attore.
Se infatti è sempre Vince Gilligan la mente dietro la sceneggiatura è anche vero che tra le doti migliori del personaggio non ci sono tanto le battute o le trovate quanto la maniera di abitare la scena e relazionarsi con gli altri, il suo segreto, in parole povere, è quel misto di affabilità, efficienza e piccineria che viene reso dalla recitazione dall'amarezza incredibile che Odenkirk sa comunicare con un sospiro. Quella mestizia che la sua recitazione accoppia alla subitanea eccitazione da venditore che lo contraddistingue. Partire da qui per una serie è fantastico.
Con un enigma di fondo a reggere l'impalcatura (com'è successo che questa persona sia diventata il Saul che conosciamo?) e una serie di partecipazioni eccezionali da parte di attori di Breaking Bad che entrano ed escono come piccole pedine in un grande mondo, Better Call Saul è un nuovo paradigma nel mondo della serialità. Siamo infatti abituati a intendere le serie come grandi romanzi, avventure in stile magnificente, racconti fiume che avvincono con trame complesse e lunghe, ma questa serie guarda da un'altra parte. Invece che svilupparsi in verticale, correndo cioè verso la sua soluzione finale, si sviluppa in orizzontale, esplorando un territorio.
Certo una trama c'è, ma l'impressione è che Gilligan voglia battere i dintorni, entrare in ogni casa, raccontare ogni cosa.
Come nei grandi videogiochi moderni, in cui l'ampiezza della mappa e le possibilità del giocatore di interagire con ogni elemento fondano l'intrattenimento, così anche Better Call Saul crea un open world in cui muoversi.
Questo è molto vero nelle prima stagione ma prende corpo con più determinazione ancora nella seconda in cui Mike, il sicario d'eccezione di Gus nonchè uomo di fiducia di Saul, va in scena con la sua grande storia. Non è difficile accorgersi come questi siano gli anni dell'approfondimento, sia al cinema che in televisione. Quelli in cui le storie non possono reggersi senza chiare spiegazioni, senza conseguenze e premesse (sequel e prequel), senza dettagli e una loro mitologia che renda tutto coerente.
Better Call Saul allora assolve a questa sete di informazioni a quest'esigenza di dar vita ad un universo a partire da una prima storia.
In parole povere questa fantastica serie si avvia ad essere il Silmarillion di Vince Gilligan, il volumone di storie che allargano la mitologia del racconto principale come quel libro di Tolkien faceva con Il Signore degli Anelli.