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Cinema chiuso in una stanza

Genovese, come molti registi italiani ultimamente, mette in atto un incontro claustrofobico tra amici, con il merito di affiancare facce comiche a volti da cinema d'autore.
di Roy Menarini

Perfetti sconosciuti

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Marco Giallini (61 anni) 4 aprile 1963, Roma (Italia) - Ariete. Interpreta Rocco nel film di Paolo Genovese Perfetti sconosciuti.
domenica 14 febbraio 2016 - Focus

Fanno quasi tenerezza, i protagonisti di Perfetti sconosciuti, quando accusano gli oggetti tecnologici di aver modificato in peggio la loro vita. A volte sembra anche la tesi del regista, Paolo Genovese, ma non possiamo saperlo, visto che le frasi in questione sono messe in bocca a personaggi che sortiscono una magra figura. Fanno tenerezza perché si tratta della classica giustificazione demagogica per giustificare i propri limiti: tutti i segreti che via via vengono a galla a causa di messaggini e chiamate sarebbero comunque emersi nel giro di poco tempo grazie a indiscrezioni, chiacchiere, pettegolezzi e passi falsi (non si parlava infatti di villaggio globale, all'inizio dell'era tecnologica?). Il telefono cellulare, nel cinema italiano, ha fatto la sua comparsa a cavallo tra anni Ottanta e Novanta, oggetto di paradossali risate per la sua ingombrante grandezza e bersaglio di sarcasmo in quanto status symbol. Verdone, da sempre osservatore di mode e comportamenti umani, lo faceva squillare persino al matrimonio di uno dei suoi "alias" in Viaggi di nozze, ma già qualche anno dopo - con i film di Gabriele Muccino - diventava un vero e proprio fattore ansiogeno (e dunque ritmico) del racconto.
A modo suo, Perfetti sconosciuti diventerà epocale, perché rappresenterà una tappa, non tanto della tecnologia mobile al cinema, quanto del nostro rapporto simbolico con i device elettronici (proprio quest'anno Tornatore ha cercato di produrre una riflessione filosofica sull'argomento in La corrispondenza, senza grandi risultati). Siamo pronti a scommettere che ci saranno remake all'estero, tanto ghiotta è l'idea di partenza.

Perché così tante pellicole italiane recenti sono ossessionate dall'incontro claustrofobico tra amici come momento di svelamento impudico, come eiezione dei rimossi ed esplosione virulenta delle frustrazioni?
Roy Menarini

La commedia italiana contemporanea, quando si vena di cattiveria e malinconia, rimanda all'epoca d'oro del filone. Lo fa anche Genovese, pur non avendo nulla a che spartire con i maestri per messa in scena e figure attoriali. Il suo merito, anzi, è di aver chiuso nella stessa stanza volti del cinema comico e facce da cinema d'autore, un mix simboleggiato da Edoardo Leo e Alba Rohrwacher, coppia improbabilissima ma proprio per questo riuscita.
Si tratta, con tutta evidenza, di un progetto che contiene il suo potenziale commerciale in questa stessa fusione. Se i recenti film di Rubini (Dobbiamo parlare) e Archibugi (Il nome del figlio) erano infatti segnati troppo chiaramente dall'appartenenza al milieu del cinema d'autore borghese, e - per quanto volontariamente pessimisti - finivano col parlare a un pubblico troppo predeterminato, la scommessa di Genovese è allargarlo a un rispecchiamento sociale ben più ampio.
Perfetti sconosciuti conta quindi sulla facilità di immedesimazione del pubblico, e sarebbe curioso poi monitorare eventuali emulazioni da parte di cene tra spettatori successive alla visione del film. Un meccanismo di suspense, insomma, in cui all'apparente spontaneità del dialogo si affianca un fuoco di fila di rivelazioni sempre più imbarazzanti.


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