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Al cinema con Dio

Dio esiste e vive a Bruxelles con Benoît Poelvoorde è l'ultimo eccentrico capitolo della curiosa linea dei padreterni cinematografici. Ora al cinema.
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di Roy Menarini

Benoît Poelvoorde Altri nomi: (Bernard Frédéric / Benoit Poelvoorde ) (59 anni) 22 settembre 1964, Namur (Belgio) - Vergine. Interpreta Dio nel film di Jaco Van Dormael Dio esiste e vive a Bruxelles.

giovedì 26 novembre 2015 - Focus

Una famiglia divina come quella descritta da Jaco Van Dormael è certamente tra le più bizzarre e anticonformiste che ci sia capitato di vedere, rispetto alla tradizione iconografica e narrativa della religione. Ma non l'unica.

Per qualche motivo, il cinema si è sentito incaricato - specie nella modernità - di rappresentare l'irrappresentabile, ovvero la divinità, anche nei modi più ironici e sarcastici. Per fortuna, l'iconoclastia non è un dogma della settima arte, anzi ne è l'antitesi più assoluta, e dunque raffigurare il Signore in pose tutt'altro che commendevoli è possibile e foriero di sicure risate.

Chi ha visto Dio esiste e vive a Bruxelles sa che ci sono due temi fondamentali del film. Uno, quello che emerge più prepotentemente, è appunto una rappresentazione divina in forma di riduzione all'umano, e per di più a un umano beone, violento e selvatico. Il secondo - quello che ci pare interessi di più al regista - è invece il "what if", caro alla fantascienza, che potremmo tradurre in italiano con "che cosa succederebbe se...". Il "what if" di Dio esiste e vive a Bruxelles è: che cosa succederebbe se tutti conoscessimo la data esatta della nostra morte? È dall'intreccio dei due aspetti - il Dio hooligan e l'umano che non può più dimenticare la sua finitezza - che scocca la scintilla del film.

Se li esploriamo, vediamo che ciascuno ha i suoi precedenti. Si diceva della divinità mondanizzata. Se già Una settimana da Dio, Un'impresa da Dio e Un'occasione da Dio hanno mostrato che cosa potrebbe rischiare di fare una persona che si trovasse con poteri divini, bisogna tornare al 1977 per ricordare un grande e bonario successo dell'epoca, Bentornato Dio!, con il maturo e bravissimo attore George Burns a riapparire agli umani come un Dio vecchietto e pimpante, con un nuovo messaggio per la modernità. Ben più sulfureo, il Dogma di Kevin Smith, raccontando di un mondo alla rovescia attraversato da due angeli ribelli, proponeva un Dio al femminile, interpretato niente meno che da Alanis Morissette. E non contiamo poi le blasfemie dei Monty Python e le prese in giro di Woody Allen, oltre che di tutta l'autoironica tradizione ebraica al cinema.

Ma la finitudine umana ha suggerito al cinema ben altri scenari, visto che l'interrogarsi sulla propria morte e sul senso della vita sono i grandi temi dei capolavori della storia del grande schermo. Che il destino del singolo sia icasticamente spiegato da una partita a scacchi con la morte, come in Il settimo sigillo, o regalato ai mondi apparentemente distanti della fantascienza (il replicante con data di scadenza, che pensa di essere umano, in Blade Runner), non cambia in verità troppo nei rovelli esistenziali del soggetto. E in fondo il cinema ha spesso consegnato alle grandi produzioni il tema delle collettività e al cinema d'autore il compito di scandagliare lo sperdimento dell'individuo di fronte al suo fato. Van Dormael cerca una particolare forma di commedia d'autore collettiva, mettendo di fronte un Dio troppo umano e un umano troppo divino (almeno fino al momento di sapere quando muore, ben diverso dal "sapere che si muore", garanzia di un'incertezza simile all'infinito).

Temi filosofici troppo grandi per Dio esiste e vive a Bruxelles? Forse sì ma utili per attraversare la storia del cinema e i suoi intrecci nascosti.

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