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Perdere (il) tempo

Le discrasie temporali in Interstellar.
di Roy Menarini

In foto una scena del film Interstellar di Christopher Nolan.
Matthew McConaughey (Matthew David McConaughey) (54 anni) 4 novembre 1969, Uvalde (Texas - USA) - Scorpione. Interpreta Cooper nel film di Christopher Nolan Interstellar. Al cinema da lunedì 15 aprile 2024.

sabato 8 novembre 2014 - Approfondimenti

Con tutti i suoi innumerevoli difetti e problemi di costruzione narrativa (cui si aggiunge uno dei cast meno lucidamente assortiti degli ultimi anni), Interstellar conferma Christopher Nolan come uno dei registi contemporanei più attenti al rapporto tra cinema e tempo. La discrasia temporale è uno dei temi più cari alla letteratura fantastica, mentre di paradossi cronologici e di "cronosismi" è pieno tutto il cinema postmoderno, di cui d'altra parte Nolan è stato perfetto rappresentante. Da Following e il suo puzzle narrativo a Memento che scorreva all'indietro, da The Prestige con il suo positivismo reinventato in direzione steampunk a Inception con i livelli dell'inconscio vissuti in apnea temporale, tutto il suo cinema ruota intorno al concetto di spazio/tempo. Interstellar, ovviamente, si dà come tematizzazione del concetto, ovvero come film che mette al centro direttamente, e non solo come strategia di racconto, il collasso del cronotopo. I momenti più riusciti del film, infatti, sono quelli che mettono in relazione personaggi in viaggio nello spazio profondo (per i quali il tempo scorre più lentamente) e personaggi rimasti sulla Terra che invecchiano più rapidamente.

Senza svelare altro a chi non ha ancora visto il film, basti dire che tutto il sistema melodrammatico della pellicola vive nella questione delle differenti temporalità, che paiono prendere il sopravvento (volontariamente o meno) anche sull'aspetto visuale e iconografico - proprio quello su cui si stanno appuntando le maggiori critiche a Nolan, di avere cioè sostanzialmente sottovalutato la dimensione dello stupore visivo e perso la battaglia con il Gravity di Cuarón. Potrebbero apparire dispute di poco conto ("Meglio questo", "No, questo", ecc., la pratica più infantile della critica), eppure ci dicono ancora una volta che la fantascienza gioca un campionato a parte, che si basa su una continua sfida a se stessa e alla sua capacità immaginativa, essendo il genere più direttamente chiamato a fare del cinema, ancora oggi, un avamposto della fantasia.

Ecco, proprio questo avamposto è ciò che più interessa a Nolan raggiungere, pur con tutte le contraddizioni del caso: il film come rimessa in gioco della sala in quanto esperienza emotiva insostituibile (e quindi l'attenzione spasmodica alle forme tecniche, dalla scelta della pellicola al 70 millimetri, dalla versione Imax all'uso del formato panoramico), e il cinema come continua messa in discussione delle nostre certezze spazio-temporali, quindi come macchina dello stupore e dello sperdimento.

In questo senso, poco importa che la divulgazione scientifica intorno a buchi neri, fisica quantistica, gravità sia di grana grossa. Importa che l'avventura mentale dello spettatore, soprattutto quando spazio e tempo cominciano a piegarsi a cono come un foglio di carta ben maneggiato, coincida con quella del progetto cinematografico.

Certo, a voler essere insensibili, un problema di fondo s'impone: che ne è dello spettatore annoiato, che di fronte a questi 163 minuti percepisce una lentezza insopportabile mentre i personaggi attraversano i decenni senza una ruga in faccia? Anche questa è una discrasia temporale, chissà quanto presa in considerazione da Christopher Nolan.

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