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ONDA&FUORIONDA

Sorrentino verso l'Oscar con alleati sicuri: Fellini e Roma.
di Pino Farinotti

In foto una scena del film La grande bellezza di Paolo Sorrentino.
Toni Servillo (65 anni) 25 gennaio 1959, Afragola (Italia) - Acquario. Interpreta Jap Gambardella nel film di Paolo Sorrentino La grande bellezza.

lunedì 20 gennaio 2014 - Focus

La grande bellezza di Paolo Sorrentino ha dunque ottenuto il Golden Globe come migliore film straniero. È un riconoscimento importante anche se non fa la storia come l'Oscar, Cannes e Venezia. È regola, ed è quasi assunto, che chi vince il "Globe", molto probabilmente si ripete agli "Oscar". Accade spesso. È successo negli ultimi tre anni: In un mondo migliore (2011), Una separazione (2012), Amour (2013), si sono, appunto, ripetuti. Il premio della Hollywood Foreign Press Association non è mai stato amico del cinema italiano. Si registrano solo tre riconoscimenti. Il primo appartiene a De Sica, con La ciociara, del 1962. Un film che viene identificato soprattutto con la protagonista Sophia Loren, che ottenne poi l'Oscar personale. Nel 1978 fu la volta di Scola, con Una giornata particolare, e anche quella volta c'era di mezzo la Loren. Nell'era recente ecco Nuovo cinema Paradiso, di Tornatore, che poi vinse anche l'Oscar. Non era così difficile prevedere un destino importante per la Grande bellezza. Trattasi di film di visibile, di sicura potenza. Non succede spesso al cinema italiano, quasi sempre depresso dalle solite storie di ideologia domestica. Sorrentino ha sostituito l'italianità con la romanità di cultura cinematografica, valorizzata dal suo indiscutibile talento estetico. Il regista è un superdotato e questa volta la vocazione è andata oltre la pura confezione ornata di tanti bei nastrini ma con dentro... quasi nulla, com'era successo per This Must Be the Place. Insomma "La grande bellezza" presenta tanti valori e possibilità, il successo e i riconoscimenti ci stanno tutti. E... ci staranno. Qualche settimana fa, in una rilettura del 2013, scrivevo concetti che è opportuno riproporre.

"...Poi c'è il fenomeno Grande Bellezza. Un efficace, sfavillante, astuto film imperfetto. Ha avuto un destino e ne avrà uno probabilmente più grande. È notorio che il film di Sorrentino ha superato il secondo esame e ha ottenuto il lasciapassare dell'Academy of Motion Picture Arts and Sciences per concorrere all'Oscar. E dico che potrebbe anche vincerlo perché gli americani... adorano Fellini...
...Il maestro italiano è per gli americani non solo un nome, ma un sortilegio, un incanto che si accende ogni volta che quel nome entra in gioco. L'"Academy" gli ha concesso cinque Oscar (uno alla carriera). Qualcosa vorrà dire. Proprio tutti hanno rilevato le affinità fra il Jap della Grande bellezza e il Marcello della "Dolce vita". Tanto... potrebbe bastare."

Michael Douglas ha dichiarato che il film di Sorrentino non è l'ombra di Fellini. Evocare il nome del maestro massimo italiano, anche a "confutazione" mi sembra comunque un segnale, una sorta di excusatio. Poi naturalmente Sorrentino ci ha messo del suo, e molto.

Poi c'è...
C'è Fellini, poi c'è... Roma. Lo scrittore Gore Vidal in Roma di Fellini dava una sua definizione, perfetta, intelligente, "intellettuale" di Roma vista da un americano. "La città delle illusioni, dove c'è il cinema, la chiesa e la politica: illusioni appunto, e dove alla gente "non frega niente". Una città perfetta per viverci."
Vidal è soltanto un modello esemplare, di alto livello, del "pensiero americano" rispetto a Roma. Sono molti, e quasi sempre di qualità, i film hollywoodiani che hanno toccato la città.
Partirei dalla Roma antica. Che fu inventata proprio dal cinema americano ai tempi del muto. Dai primi anni cinquanta i produttori delle major investirono tanti dollari e i nomi più importanti del loro cartello. "Roma" divenne un vero e proprio genere, di strepitosa estetica, di alto business, persino di intenti storici e politici. Washington amava Roma, fino a identificarsi con ciò che aveva, un tempo, certo lontano, rappresentato. Non sono pochi i testi che omologavano il concetto di impero romano a quello di impero americano: due guide, due tutori, magari due "padroni" del mondo.
Ecco dunque un Quo vadis (Leroy 1951), e poi La tunica (Koster 1953), I gladiatori (Daves 1954), Ben Hur (Wyler 1959), Spartacus (Kubrick 1960), Cleopatra (Mankiewicz 1963), La caduta dell'impero romano (Mann 1964). Autori della più alta nobiltà. E così Roma, con la sua storia e la sua eterna leggenda si insinuava, nella cultura americana, e nel popolo che andava al cinema come qualcosa che incuteva rispetto e soggezione.
Sentimenti ribaditi dall'altro cinema romano, quello contemporaneo, nei decenni.
Roma ha ospitato storie americane che riportano a immagini e a modelli che fanno parte della più bella memoria del cinema. Chi non ricorda Audrey Hepburn aggrappata a Gregory Peck sulla Vespa di Vacanze romane? La Hepburn ebbe l'Oscar per quella parte e il film era nella cinquina dell'Oscar. La firma era ancora di Wyler, quello di Ben Hur, primatista di Oscar. Lana Turner nello Specchio della vita di Sirk, del 1959, interpreta un'attrice di successo, che raggiunge il massimo della legittimazione quando viene chiamata a Roma dal grande "Fellucci". Fra le decine di titoli americani/romani faccio una selezione di getto, magari arbitraria: Tre soldi nella fontana (Negulesco 1954), storie di tre americane che si innamorano a Roma, mentre tutto gira intorno alla fontana di Trevi (sei anni prima che arrivasse Fellini); Due settimane in un'altra città (Minnelli 1961), dove una produzione americana viene a girare a Cinecittà, rilevandone... le differenze. Nel 1962 Roma ospitò il romanzo di uno scrittore-cardine del novecento, Franz Kafka, tradotto in cinema da un regista-cardine, Orson Welles, il film era Il processo. Nel 1990 Coppola girò a Roma il suo Padrino - Parte III negli ambienti della politica e del Vaticano, dandone un ritratto... poco edificante. Nell'era recente merita una citazione Il talento di Mr. Ripley, del 1999, di Anthony Minghella, dal romanzo di Patricia Highsmith. E non si può ignorare il contemporaneo, poco ispirato, To Rome with Love, di Woody Allen. Sono, ribadisco, solo una piccola parte della "romanità hollywoodiana".

In vista del grande cimento degli Oscar mi sembra opportuno evocare i nostri riconoscimenti, un promemoria che valga come auspicio:
1947 Sciuscià, di De Sica; 1949 Ladri di biciclette, di De Sica; 1956 La strada, di Fellini; 1957 Le notti di Cabiria, di Fellini; 1963 , di Fellini; 1964 Ieri, oggi, domani, di De Sica; 1970 Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, di Petri; 1972 Il giardino dei Finzi Contini di De Sica; 1974 Amarcord, di Fellini; 1990 Nuovo cinema Paradiso di Tornatore; 1992 Mediterraneo di Salvatores; 1999 La vita è bella di Benigni.
E che la lista venga... aggiornata.
Quattro De Sica e quattro Fellini. Sì, una logica c'è. E richiamando una "Roma" di De Sica, quella piena di tristezza, di povertà e di poesia di Ladri di biciclette, mi piace ricordare che a Pasadena, California, Usa, c'è una sala che per molti anni ha proiettato Ladri di biciclette, senza soluzione di continuità. Ed è notorio che quel titolo fa parte dell'incanto e dell'ispirazione dei più grandi registi americani.
Sopra ho scritto "rispetto e soggezione", infine aggiungo "deferenza a testa chinata".
Nella serata delle stelle tutto può succedere naturalmente, ci sono lobbies, poteri, forze, indicazioni eccetera, sappiamo. Ma sono davvero potenti le forze che sostengono la Grande bellezza.

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