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ONDA&FUORIONDA

Autobiografia di Pupi Avati: "Vi racconto tutto".
di Pino Farinotti

In foto Pino Farinotti con il regista Pupi Avati.
Pupi Avati (85 anni) 3 novembre 1938, Bologna (Italia) - Scorpione.

domenica 28 aprile 2013 - Focus

Alla libreria Rizzoli in Galleria a Milano martedì scorso Pupi Avati ha presentato il suo libro "La grande invenzione", edito da Rizzoli. Conoscevo Avati solo per telefono. Qualche mese fa mi chiamò: "Sono Pupi Avati, volevo dirle, Farinotti, che ho letto sui giornali che io mi sarei opposto a quella sua nomina a Roma. Ebbene non corrisponde al vero. Non ho mai detto una parola contro di lei, la prego di credermi".
Gli ho creduto e mi è piaciuta quell'iniziativa, mi è sembrata un'azione di stile e di onestà. E credo che non ci sia un retro pensiero, non sono un faraone da tener buono. Sono solo uno scrittore e un enciclopedista. Certo, MYmovies.it è una piattaforma importante, la più letta, ma non credo proprio che uno dei maggiori cineasti italiani abbia fatto quel ragionamento. Un cineasta che ha una dotazione importante peraltro, e molto rara da noi: sa scrivere. In libreria Avati ha fatto del teatro di livello, del cabaret sottile e di sostanza. Ha fatto spesso sorridere. Ha tenuto la scena, come si dice. Ha esordito scherzando sul suo nome. "È proprio Pupi, allora non era di moda, adesso potrebbe essere qualcosa che riguarda un play boy. E mi ha creato problemi. Come si poteva prendere sul serio uno con quel nome? Non mi daranno mai una laurea honoris causa, come si può intestarla a uno che si chiama Pupi?".
"La grande invenzione" mi ha subito attratto. Per me è un titolo evocativo. Col romanzo "La grande ambizione" ho vinto un premio Bancarella - Librai pontremolesi.
Per i contenuti de "La grande invenzione" riproduco il risvolto di copertina del libro, che li spiega alla perfezione.

"La bisnonna "asolaia", il nonno Carlo allevato in Brasile che pregava in portoghese sul letto di morte, il prozio che "riscattò", per sposarla, una prostituta di Modena, il padre, di famiglia borghese e monarchica, morto in un incidente d'auto sulla stessa curva della Cavallina storna di Pascoli, la madre di origini operaie e comuniste... La storia familiare di Pupi Avati si dipana da un'Emilia contadina e felliniana per arrivare a Pupi e alla Bologna degli anni Trenta, con i suoi bar biliardo, i portici e le scampagnate, le avventure di un giovane con pochi mezzi ma molta fantasia nell'Italia della guerra e del dopoguerra, la scoperta della musica nella Doctor Dixie Jazz Band da cui lo "scaccerà" Lucio Dalla, la collaborazione con Pasolini, l'amicizia con Fellini. Un grande racconto popolare, un autoritratto collettivo, la sorpresa di un "realismo magico all'emiliana" tessuto da una voce narrativa autentica e originale".

Avati ha parlato pochissimo dei suoi film, ha raccontato di se stesso. Prima ho scritto "onestà", mi riferivo all'uomo, perché l'artista Avati, come tutti gli artisti, non ha il dovere dell'onestà. Anzi, ha il dovere del contrario, nelle sue opere deve mentire, imbrogliare, terrorizzare, usare tutte le licenze che il cinema gli mette a disposizione. E Avati lo ha fatto, sì, ha anche terrorizzato, in certi film, anche se il grande pubblico non lo identifica in quel senso. Non voglio fare titoli, sarebbero troppi, ma certo il regista ha imbrogliato, è stato grottesco, comico e "avventuroso", è stato anche cattivo, e qui un'indicazione la fornisco, riferita a una certa partita di poker. E chiudo il paragrafo "opere" con un'indicazione generale: Pupi Avati ha fatto cinema per il cinema. Mi spiego: non ha firmato opere d'arte generale che sorpassano il cinema, titoli come Ossessione, Ladri di biciclette, Paisà, 8 1/2, le sue storie rimangono nell'alveo di un linguaggio filmico auto-identitario, l'autore è consapevole che il cinema prima che un'arte è una disciplina, un magnifico trucco che non ha la pretesa delle verità assolute o di cambiare il mondo. Ma Avati non si limita a raccontare, possiede il sortilegio che è di pochi, la riconoscibilità. Può narrare di una gita scolastica, di cavalieri che fecero un'impresa, di un jazzista o di impiegati, di alto Medioevo o di un festival del cinema, ma al primo fotogramma riconosci la sua mano. Non è semplice, accade per gente come Fellini, Hitchcock, Wilder, Kubrick e non molti altri, appunto. Ma sono sicuro che Avati ha mentito, meglio, ha posto una licenza, anche parlando di se stesso. Come quando dice "sono sempre stato raccomandato, anche a scuola, altrimenti non avrei superato le elementari". E racconta di sua madre che indagò sulle passioni del capo della commissione esterna -Pupi era privatista- scoprì che al professore mancava una certa penna, costosa, della sua collezione, la trovò e... il ragazzo fu promosso. Non credo che Pupi fosse l'asino che dice di essere stato. E poi la campagna, il mondo contadino, i racconti della notte "e il buio della notte in campagna, è senza confini". Dico che anch'io, emiliano più "occidentale" -la mia famiglia arriva dai monti che puntano alla Liguria, la sua dalla pianura bassa che guarda al mare- lo capivo benissimo, perché quei racconti e quel buio li ho passati anch'io. "Andavo a letto terrorizzato" dice Avati "e nella notte dovevo elaborare e difendermi". E ha fatto i film, quei film, per "difendersi". Ha raccontato (col sorriso certo) anche di Dalla, il suo demone cattivo, il suo "caporale" per dirla alla Totò. "Una volta sulla torre della Sagrada Familia di Barcellona ebbi l'impulso di buttarlo giù, ma rinunciai. Non volevo ucciderlo, volevo solo che morisse". Nel 2033, quando Avati avrà smesso di fare i film, sentiremo la mancanza di quella bella costante annuale più o meno, che ci rassicurava, ci faceva pensare e sorridere. Concludo dicendoglielo direttamente. "Pupi, ma perché non fai un film dal tuo libro. Anche dalle tue parti "mi ricordo" si dice "amarcord".

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