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La politica degli autori: William Friedkin

Il regista riceverà a Venezia 70 il Leone d'oro alla carriera.
di Mauro Gervasini

In foto William Friedkin.
William Friedkin 29 agosto 1935, Chicago (Illinois - USA) - 7 Agosto 2023, Los Angeles (California - USA).

mercoledì 28 agosto 2013 - Approfondimenti

Giovedì 29 agosto William Friedkin riceve alla Mostra del Cinema di Venezia il Leone d'oro alla carriera. Lo stesso giorno viene proiettato Il salario della paura (Sorcerer, 1977) il film più sfortunato della sua carriera. Impresa costosissima, finto remake del capolavoro di Clouzot Vite vendute (1953) in realtà solo ispirato allo stesso libro, "Il salario della paura" di Georges Arnaud. Storia di tre gaglioffi che senza più nulla da perdere accettano di trasportare un carico di esplosivo su camion fatiscenti (uno si chiama appunto Sorcerer "stregone") in una impervia regione del centro America. Una produzione costosissima all'epoca ignorata da pubblico e critica. A torto, perché è un grande film. Ma conviene fare un passo indietro. Bill Friedkin, classe 1935, cresce a Chicago da famiglia di origine russa e religione ebraica. Lo zio è un personaggio chiave, perché si muove disinvolto nell'underground criminale della città. E il nipote impara a riconoscere le guardie e i ladri di un mondo nascosto soprattutto a chi non lo sa guardare. Gavetta in Tv e prima regia per un documentario che fa discutere: The People Vs. Paul Crump. Crump è un nero condannato a morte per omicidio, il film crea un movimento di opinione che spinge il governatore a commutare la pena. Friedkin all'epoca milita apertamente nel campo liberal progressista, anche se il suo primo grande film, Il braccio violento della legge, viene addirittura additato come "fascista". Solo perché Popeye, lo sbirro protagonista interpretato da un Gene Hackman immenso, sguazza nel marciume sporcandosi compiaciuto, ben oltre i limiti della legge. Colpo geniale del regista è la definizione del cattivo, il narcotrafficante Fernando Rey, ben più elegante e "rassicurante" del buono.

Ma l'importanza di Il braccio violento della legge, che vince cinque premi Oscar (film, regia, sceneggiatura, protagonista, montaggio), sta soprattutto nella lunga scena centrale dell'inseguimento tra Hackman e il marsigliese Marcel Bozzuffi, primo di una lunga serie, metafora del dominio della lotta e della fuga. Successo notevole, ma non si è ancora visto tutto. Nel 1973 il regista dirige L'esorcista, dall'omonimo libro di William Peter Blatty, anche sceneggiatore. Nelle sue mani il testo del cattolico Blatty, esaltatore della verità cristiana a prescindere della fede (non a caso il vero protagonista è padre Karras, un prete la cui convinzione vacilla) diventa una riflessione sul Male come "espediente sociale" per sfuggire, rimuovere o convertire altre fobie tipiche della classe media urbana americana. La grandezza dell'approccio di Friedkin sta nel non rimuovere gli elementi se volete più reazionari della storia per aumentare l'ambiguità, e quindi la complessità, del film. Che resta anche un caposaldo dell'horror, molto semplicemente.

L'esorcista è un successo clamoroso che rischia di schiacciare il proprio autore. Prima conseguenza, infatti, il flop di Il salario della paura. Anche se altalenanti negli incassi, però, i successivi titoli di Friedkin non perdono in qualità, anzi. Cruising (1980) è un viaggio al termine della notte nella comunità sadomaso gay di New York, dove colpisce un feroce serial killer. Al Pacino versione Serpico si infiltra nell'ambiente ma non si sa bene come ne viene fuori. Il finale è tra i più spiazzanti di sempre, e del film resta addosso un retrogusto disturbante. Con Vivere e morire a Los Angeles (1985) si sfiora di nuovo il capolavoro anche grazie al lavoro straordinario del direttore della fotografia olandese Robby Müller. Ancora un buono sgradevole (William Petersen) e un cattivo "cool" (Willem Dafoe) ma rispetto a Il braccio violento della legge la narrazione è più rarefatta, quasi metafisica. Di nuovo uno stupefacente inseguimento (che finisce contromano, e il "detour" è simbolico di tutto il film) con Friedkin che descrive l'aspetto più subdolo e seducente del crimine come si trattasse di una variabile esistenziale. Il successivo Assassino senza colpa? è ancora una volta fuori dal coro. Un procuratore (cattolico praticante) lotta affinché a un efferato killer sia inflitta la pena capitale, non credendo nella sua infermità mentale. È il film più sottovalutato del cineasta, ancora una volta indifferente alle accuse politicamente corrette (ambiguo il discorso sulla pena di morte) ma tutt'altro che insensibile alla contraddizione e al dilemma morale. Esiste anche una versione diversamente montata dove il giudizio negativo sull'omicidio di Stato non è sfumato, a riprova che lo stesso autore ha vissuto il rovello del suo protagonista.

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