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Al Busan Film Festival trionfano 36 e Kayan

Cala il sipario sulla prestigiosa rassegna asiatica.
di Paolo Bertolin


lunedì 15 ottobre 2012 - News

La dodicesima edizione del più grande e importante festival del continente asiatico si è conclusa con la soddisfazione di un ennesimo record di partecipazione del pubblico. Sono stati oltre 220.000 gli spettatori che hanno affollato le proiezioni degli oltre 300 titoli, tra lunghi e corti, in cartellone al Busan International Film Festival. È pur vero che il festival ha quest'anno esteso la sua programmazione su dieci giorni, anziché nove, ma si tratta di cifre ragguardevoli che confermano il vivo sostegno del pubblico locale - e la totale assenza di quell'aria di crisi o disaffezione che si è registrata, per una ragione o per l'altra, in molti grandi festival occidentali dell'annata.
E in un anno di ulteriore crescita, Busan ha confermato e ribadito come non mai la sua vocazione panasiatica. La scelta di aprire e chiudere il festival con due film non coreani ha dato un segnale forte alle industrie cinematografiche e ai media del continente. E si è trattato in ambo i casi di scelte azzeccate. L'apertura con la prima mondiale dell'adrenalinico thriller di Hong Kong Cold War di Longman Leung e Sunny Luk ha permesso di portare in Corea la star panasiatica Aaron Kwok e di attirare l'attenzione dei media cinesi - ulteriormente stuzzicati dalla presenza, a fianco del veterano Ahn Sung-ki, di Tang Wei come co-conduttrice della serata d'apertura - prima volta per una non coreana a fare da madrina del festival.
Se l'apertura, poi, è stata all'insegna del cinema di genere, la chiusura si è invece spostata sul fronte del cinema d'autore d'impegno e della produzione di cinematografie emergenti. Il bel film di Mostofa Sarwar Farooki, Television, è stato il primo lungometraggio del Bangladesh ad avere l'onore di chiudere un grande festival internazionale. L'evento ha avuto enorme eco nel paese d'origine, dando al BIFF l'immagine di un'importante piattaforma per il lancio di nuovi talenti.
E la ricerca del nuovo che avanza nel continente asiatico è stata ulteriormente ribadita dalla felice scelta della giuria, presieduta da Béla Tarr, di coronare con uno dei due New Currents Award il thailandese Nawapol Thamrongrattanarit per il suo 36. Un film astratto e rigoroso nell'approccio formale (36 piani sequenza fissi introdotti da altrettante didascalie, come note sul retro di una fotografia), ma capace di toccare tanto l'intelletto quando le corde profonde del sentimento, con una riflessione molto contemporanea sulla memoria e la percezione nell'era digitale.
Meno convincente l'altro riconoscimento della competizione principale per opere prime e seconde asiatiche a Kayan di Maryam Najafi. Premio che lascia perplessi in primo luogo per l'inclusione del film in questione nel concorso: Kayan è infatti l'opera prima di un'iraniana canadese ed è interamente girata a Vancouver, con interpreti di origine libanese, iraniana etc. È davvero un film asiatico? Ma le riserve sono anche più nel merito, visto che si tratta di un'opera molto artefatta, troppo scritta e convenzionalmente recitata.
36 e Kayan, però, sono in qualche modo emblematici delle molte anime contrastanti di Busan. Da un lato, il cinema di ricerca formale e concettuale che, senza spingersi verso le sperimentazioni più ardite, segnala talenti a venire. Dall'altro, un cinema di convenzioni riconoscibili, che fa presa con esche allettanti, il dramma al femminile, le questioni etniche e politiche, l'immigrazione in terre lontane. Su un fronte, poi, le cinematografie del sud est asiatico che, con il cinema coreano, fanno la forza di Busan in termini di scoperte. Sull'altro, il Medio Oriente, da cui Busan fatica a reperire del buono in prima, per via della serrata competizione con i festival regionali che si susseguono nell'autunno, Abu Dhabi, Doha e Dubai, tutti attivi nel supporto e nella coproduzione di film locali - che poi ovviamente devono fare la loro prima nei festival in questione. E difatti il sud est asiatico di questi tempi non vanta alcun festival di spicco - mentre Busan sostiene e tiene per sé molto cinema di tale regione grazie all'Asian Cinema Fund.
Intricate politiche e competizioni festivaliere a parte, Busan per gli stranieri in visita è soprattutto l'appuntamento chiave per fare il punto sulla produzione coreana, una delle più acclamate a livello globale. Una cinematografia per cui il 2012 è stato letteralmente un anno d'oro: non solo per il Leone d'Oro veneziano conquistato da Kim Ki-duk con Pietà (primo film coreano a vincere il primo premio di uno dei grandi festival europei), ma anche perché The Thieves di Dong-Hoon Choi ha superato tutti i record di botteghino per un film coreano, mentre i film nazionali dominano la top 10 degli incassi dell'anno. Una vitalità ribadita al BIFF da variegati titoli in prima come l'appropriatamente romanzesco The Russian Novel di Younshick Shin, il film impegnato di denuncia politica National Security del veterano Chung Ji-young, il curioso dramma romantico con lupo mannaro mutante Werewolf Boy di Jo Sung-hee e soprattutto il sorprendente Pluto di Suwon Shin, che innesta lirici momenti di fantastico in un corrosivo e tragico dramma scolastico.
La calda accoglienza del pubblico coreano verso i film locali si replica però per tutti i film in mostra a Busan, creando un'atmosfera di grande eccitazione cinefila. Un'esperienza di grande ispirazione per tutti i cineasti che partecipano al BIFF, come ci hanno testimoniato gli autori italiani ospiti della manifestazione, Enzo D'Alò, Stefano Mordini e Silvio Soldini - che ha addirittura scelto l'entusiasta platea di Busan per presentare in prima mondiale il suo Il Comandante e la Cicogna. La vera forza del BIFF rimane quindi proprio il suo pubblico, numeroso e partecipe; un pubblico che, come ci ha fatto notare Stefano Mordini alcuni giorni fa, ancora crede nel sogno del cinema.

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