Sterile il giochino dei figli d'arte, che presuppone la ricerca di un codice genetico del talento tramandato di padre in figlio. Nel nostro caso, poi, si tratterebbe di un nipote. Il nonno di Kevin Macdonald (Glasgow, 28 ottobre 1967) è infatti Emeric Pressburger, cineasta d'origine ungherese ma legato alla storia del cinema britannico e al sodalizio con Michael Powell. Insieme realizzarono capolavori senza tempo come Duello a Berlino (1943) e Scarpette rosse (1948). Macdonald esordisce proprio con un documentario dedicato al nonno, The Making of an Englishman (1995), inedito in Italia, ma è con il titolo successivo, One Day in September (1999) che diventa celebre. Un film formidabile, non tanto o non solo per l'opera in sé ma per la preparazione. Macdonald ricostruisce i terribili giorni delle Olimpiadi di Monaco del 1972, quando un commando di palestinesi sequestra la delegazione di atleti israeliani, undici dei quali vengono uccisi dopo ore di drammatiche trattative e dopo un maldestro attacco dei corpi speciali tedeschi all'aeroporto. Al di là delle immagini di repertorio montate con il contrappunto di "Child in Time" dei Deep Purple in colonna sonora, il regista riesce nell'impresa impossibile di intervistare Jamal Al-Gashey, uno degli uomini più ricercati del mondo, ultimo superstite del commando. Lo contatta tramite intermediari e accetta le sue rigidissime condizioni. Nonostante Al-Gashey parli un inglese perfetto vuole rispondere solo in arabo da una località segreta nella zona di Amman. Uno scoop, diremmo in termini giornalistici. Ma il docu è inattaccabile anche sul versante artistico, e infatti nel 2000 vince il premio Oscar.

Macdonald si dimostra affamato di verità ben oltre il lato cronachistico. Con lui il documentario narrativo acquista una nuova dimensione, più mainstream, come confermato da La morte sospesa (2003), sull'impresa compiuta dagli alpinisti Simon Yates e Joe Simpson che nel 1985 raggiunsero la vetta del Siula Grande sulle Ande; e da Marley, sugli schermi italiani il 26 giugno. Non la semplice biografia di Bob Marley ma ancora una volta un minuzioso lavoro di ricerca attraverso archivi di famiglia (il film è prodotto da Ziggy, forse il più celebre dei figli del rastaman) interviste e materiali inediti. Il tutto a comporre un'opera che vuole essere definitiva; un mosaico di oltre due ore mai troppo apologetico nei confronti del re del reggae, del quale sono raccontate ambiguità e contraddizioni.

Macdonald però non è solo un documentarista. Anzi, il suo principale successo di pubblico è L'ultimo re di Scozia (2006) suo primo lungometraggio a soggetto. Storia di un giovane scozzese (James McAvoy) medico personale del tiranno dell'Uganda Idi Amin Dada (Forest Whitaker) autoproclamatosi, tra le varie cose, Conquistatore dell'Impero Britannico e Re di Scozia (da qui il titolo). Il film viene accolto freddamente dalla critica, specie da quella "militante" che mal sopporta le concessioni narrative e una certa spettacolarità esotica di marca hollywoodiana. Invece L'ultimo re di Scozia è un film importante (oltre che godibile) perché aderisce allo sguardo di un europeo pieno di buone intenzioni, il giovane dottore, che si rende conto velocemente di quanto l'anarchia del potere sia seducente ad ogni latitudine. Ma prende anche coscienza della deriva alla quale è condannata l'Africa dopo anni di colonizzazione "bianca", di cui la spietata dittatura di Idi Amin è una grottesca conseguenza. Altrettanto godibile, seppure in una sfera legata al divertissement puro, il penultimo film di Macdonald, The Eagle (2011), storia dell'avventuroso viaggio di un condottiero romano caduto in disgrazia oltre il Vello di Adriano dove vivono i temibili Pitti, di fatto i barbari antenati degli scozzesi.